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Il corpo dellʼartista

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 141-162)

Si è già ricordato il nome di Jackson Pollock, il padre dellʼAction Painting,156 che per dipingere le sue enormi tele, prima le appoggia sul pavimento e poi, per mezzo della tecnica da lui stesso “brevettata” – il dripping –, lascia sgocciolare il colore direttamente da un recipiente sospeso sopra la tela posta orizzontalmente.157 Per riuscire pienamente nel suo intento Pollock, «che usava gli smalti alla pirossilina, gli acrilici in

156 Il nome Action Painting è stato «proposto dal poeta e critico Harold Rosenberg in un articolo pubblicato nel 1952 (American Action Painters, “Art News”, dic. 1952) appunto per sottolineare lʼimportanza dellʼatto fisico del dipingere in molti pittori che di solito venivano designati con lʼetichetta alquanto ambigua di “espressionisti astratti”» (Dorfles 2015, p. 56). Questo genere di pittura, in particolare, si caratterizza per la dimensione gigantesca delle tele utilizzate, ma anche e soprattutto per «una certa “indifferenza” rispetto alla presenza o meno di elementi figurali entro la tessitura astratta del dipinto» (ib.).

157 Come ricorda anche Dorfles, questa «era una maniera di ottenere un risultato immediato che non frapponesse tra il quadro e il creatore il mezzo spesso inerte del pennello, ma che consentisse lʼistantanea presa di contatto con lʼopera già “divenuta”, pur nel suo divenire» (pp. 59-61).

soluzione diluiti con trementina, ma anche i colori a olio mescolando i vari media, chiese alla DuPont, la ditta produttrice del Duco (uno smalto per interni alla nitrocellulosa ma con aggiunta di canfora come plasticizzante), di mettere a punto per lui un particolare tipo di smalto, più liquido di quello in commercio» (Pugliese 2012, p. 34).

Con la sua opera Pollock rappresenta «una delle più intense fonti di ispirazione per tutti gli artisti che volevano utilizzare il proprio corpo come forma dʼarte» (Warr 2000, p. 23); infatti, con il suo peculiare modo di dipingere, a metà strada tra una danza cerimoniale e un rito estatico, il valore dellʼopera dʼarte viene trasferito dal dipinto come oggetto allʼatto stesso del dipingere: «le tele non erano più solo uno spazio che conteneva unʼ“immagine”, ma cominciarono a essere considerate una vera e propria “arena in cui agire”» (p. 50).

Lʼartista americano, che più di altri ha saputo sintetizzare quella corrente «di poderosa rivolta contro lʼaccademismo postcubista e surrealista ancora trionfante tra le due guerre» (Dorfles 2015, p. 59), e che con la sua innovativa tecnica ha saputo rivoluzionare i rapporti tra il corpo dellʼartista e la pittura, ha utilizzato talvolta anche il vetro come supporto per i suoi dipinti (riecheggiando verosimilmente Duchamp)158 e ciò è stato documentato da un famoso filmato di Hans Namuth e dalle fotografie dello stesso, commissionate dalla rivista «Life» nel 1950 per rendere omaggio alla genialità di Pollock.

Ciononostante, è doveroso ricordare che è stato Georges Mathieu «il primo artista occidentale ad allestire performance di pittura dal vivo davanti ad un pubblico e in qualità di soggetto fotografico. Per eseguire i suoi monumentali dipinti indossava costumi tradizionali, conferendo allʼinsieme un aspetto ancora più drammatico» (Warr 2000, p. 50). Anche i suoi dipinti (come quelli di Pollock) nascono direttamente dal ceppo dellʼautomatismo surrealista: il dipinto – che nella maggioranza dei casi viene eseguito spremendo freneticamente il colore direttamente dal tubetto – deve essere eseguito nel minor tempo possibile e proprio questa velocità dʼesecuzione è ciò che rende lʼatto del dipingere spontaneo, diretto e immune dalla paura del confronto con il

158 Basta qui ricordare una delle opere più celebri di Duchamp, La Sposa messa a nudo dai suoi Scapoli,

anche..., conosciuta più semplicemente come il Grande Vetro (fig. 11), dettagliatamente analizzata da

Octavio Paz in Apparenza nuda (2000), a cui certamente rimando per unʼaccurata ricostruzione dellʼintero lavoro duchampiano.

passato, ma anche ciò che non permette alla sfera razionale dellʼartista di interferire con lʼespressione della sua sfera emotiva.

Non è un caso che una delle esibizioni più significative di Mathieu, Hommage

au Général Hideyoshi (fig. 12), si sia svolta nel 1957 a Osaka, in Giappone: proprio qui,

nel 1954, per iniziativa di Jiro Yoshihara, è nato il gruppo Gutai, «una delle correnti, a quanto sembra, più vicine allʼastrattismo-informale europeo» (Dorfles 2015, p. 36). Questo gruppo, infatti, concilia una matrice europea fortemente soggettivistica con elementi tipicamente orientali, quali lʼaccettazione del caso – fondamentale per la filosofia buddhista – e la stretta relazione tra mente e corpo, che sta alla base non solo di tutte le arti marziali, ma anche del tipico modo orientale di concepire la corporeità: non come luogo del peccato, bensì come mezzo attraverso cui è possibile migliorare il proprio spirito.

Rientrano tra le opere di questo particolare gruppo di arte sperimentale anche alcune celebri performance come: Challenging Mud (fig. 13) di Kazuo Shiraga, presentata in occasione della prima “Gutai Art Exhibition” di Tokyo, nel 1955, in cui lʼartista, come una creatura primordiale, si contorce e si dimena nel fango a testimonianza della sua lotta personale contro la materia e, contemporaneamente, del suo stesso essere materia; Breaking Through Many Paper Screens (fig. 14) in cui Saburo Murakami, che in precedenza aveva allestito una fila di sei pannelli di carta di 183 x 366 cm lʼuno, fissandoli, uno dopo lʼaltro, ad una intelaiatura di legno, squarcia questi stessi pannelli attraversandoli di corsa, con chiaro riferimento alla tradizione delle arti marziali; o ancora Making a Painting by Throwing Bottles of Paint (fig. 15) in cui Shozo Shimamoto, durante la seconda “Gutai Art Exhibition”, presso lʼOkara Kaikan Hall di Tokyo, nel 1956, lancia barattoli di colore rosso, arancione e nero (che richiamano immagini di fuoco e distruzione) direttamente su delle tele appoggiate sul pavimento, dando così vita a delle superfici incrostate di vernice e pezzi di vetro insieme.

La realtà che diventa oggetto, soggetto e materiale dellʼarte è al centro anche delle ricerche del movimento francese fondato nel 1960 dal critico Pierre Restany: il Nouveau Réalisme, il cui maggiore esponente è Yves Klein, giovane prosecutore di Mathieu. In particolare, il lavoro di questʼartista si trova ad essere in bilico tra unʼattenta ricerca dei materiali – basti ricordare il colore da lui stesso brevettato, lʼIKB

(International Klein Blue) –159 e la dematerializzazione dellʼopera dʼarte, come testimonia il titolo di una conferenza tenuta dallʼartista presso la Sorbonne nel 1959, “Lʼevoluzione dellʼarte verso lʼimmateriale”. Esperto di judo (che pratica anche per tenersi in forma), Klein ritiene che il corpo sia un centro nodale di energia fisica, sentimenti e spiritualità; e applicando questa sua idea al proprio lavoro artistico, dà vita ad una nuova tecnica pittorica in cui il colore – verosimilmente per la prima volta nella storia dellʼarte – viene steso direttamente dal corpo umano trasformato in “pennello vivente”. È così che hanno origine, a partire dal 1960, le sue celebri Antropométrie de

lʼépoque bleue (fig. 16), con cui, per lʼappunto, Klein utilizza i corpi nudi di alcune

modelle come dei “pennelli”, dirigendo i loro movimenti alla stregua di un direttore dʼorchestra.

A tale riguardo, è interessante ricordare lo spettacolo svoltosi presso la Galerie Internationale dʼArt Contemporain di Parigi nel 1960: Klein, in elegante abito da sera e cravatta bianca, “dirige” due modelle nude con il corpo intinto del blu oltremare caratteristico dei suoi dipinti posizionate in piedi su dei piedistalli di varia altezza, e lascia che lʼimpronta dei loro corpi si adagi su dei grandi fogli di carta bianca appesi al muro; una terza modella, nello stesso momento, si trascina su un grande foglio di carta steso invece sul pavimento, e il tutto avviene mentre un gruppo di musicisti suonano la

Symphonie Monotone, composta dallo stesso Klein e che consiste nella stessa nota

ripetuta per venti minuti seguiti da venti minuti di silenzio. «Gli ovvi elementi teatrali e spettacolari dellʼevento spostarono lʼattenzione dai dipinti alla performance dellʼartista che dirigeva i corpi. Egli divenne una specie di direttore: aveva il compito di orchestrare i movimenti degli individui che dipingevano per lui in una sinfonia dʼarte e spettacolo» (Warr 2000, p. 54).

Unʼevoluzione dellʼAntropometria si ha nel 1961 con la Pittura fuoco (fig. 17): secondo un procedimento che ricorda molto lʼalchimia, Klein spruzza dellʼacqua con una pompa sulla tela (talvolta usando il corpo di una modella come schermo) e interviene subito dopo con la fiamma ossidrica in modo che la combustione nelle zone bagnate faccia rimanere il segno della fiammata. In altre occasioni Klein si diverte invece a “dipinge con il vento”: dopo avere steso delle macchie di colore fresco su una

159 Questo particolare colore è stato realizzato da Klein «legando il blu oltremare artificiale con una precisa quantità di Rodophas M60A, un acetato polivinilico diluito in alcool di etile prodotto dalla Rhône- Poulenc» (Pugliese 2012, p. 46).

tela, lʼartista lega questʼultima al portapacchi della sua auto e parte a tutta velocità di modo che il colore possa spandersi e prendere forma a seconda della velocità e della direzione prese dallʼautomobile.

In ogni caso, lʼopera verosimilmente più emblematica di Klein – almeno per quanto compete il nostro ambito di ricerca – è il suo Saut dans le Vide (fig. 18), del 1960, durante il quale lʼartista decide di lanciarsi dal secondo piano della casa della gallerista Colette Allendy a Parigi (gli amici sono pronti ad accoglierlo di sotto con un telone). La fotografia in bianco e nero scattata durante la performance è apparsa in seguito sul numero unico di Dimanche 27 novembre/Journal dʼun seul jour, pubblicato da Klein nello stesso anno per la presentazione del suo Theatre du Vide.160 «Harry Shunk, il fotografo responsabile della documentazione di molte performance di Klein, sovrimpose con abilità la fotografia del salto e quella della strada vuota, creando unʼimmagine artificiale ma decisamente convincente. Saut dans le Vide sembra un ritratto del corpo dellʼartista sospeso tra la vita e la morte» (p. 70).

Spostandosi in Italia, sempre negli stessi anni, un atteggiamento simile a quello di Klein, ma sicuramente più scanzonato, è possibile ritrovarlo nelle opere di Piero Manzoni, il quale, con unʼabilità ardita ed impensabile sino ad allora, giunge a “presentare” lʼartista per mezzo della sua stessa assenza: «Il corpo non cʼè più. Cʼè lʼevocazione del corpo» (Vergine 2001, p. 162) e, con essa, lʼevocazione della mortalità e della caducità del corpo umano rispetto a forme dʼarte sostanzialmente più durature. «Il corpo, in quanto tale, non sparisce, manca. Nascono così luoghi dove si proclama lʼassenza. Si guarda lʼinvisibile, la sparizione del corpo, appunto» (Vergine 2000, p. 271).

Emblematico è il caso della performance Fiato dʼartista (fig. 19), durante la quale Manzoni gonfia una serie di palloncini bianchi, rossi e blu e poi li chiude con una cordicella su cui pone un sigillo in piombo. Successivamente i palloncini vengono montati su una base in legno su cui è apposta una targhetta in metallo che riporta il nome dellʼartista e il titolo dellʼopera. Con il passare del tempo i palloncini

160 In precedenza, il 28 aprile 1958, presso la galleria Iris Clert di Parigi, Klein inaugura lʼExposition du

Vide: dipinte le pareti di bianco e le porte a vetri della galleria del suo caratteristico blu oltremare, Klein

dispone che siano serviti a tutti gli invitati dei cocktail di colore blu. I visitatori, a gruppi di dieci, entrano nella galleria e in unʼatmosfera che va tra lo Zen e il Dada, sorseggiano i loro cocktail, il cui colore rimarrà nelle urine per diversi giorni: «anche per questa via, lʼopera si sposta dal corpo dellʼartista a quello collettivo» (Vettese 2016, p. 195).

inevitabilmente si sgonfiano e finiscono con lʼafflosciarsi tristemente sulla base di legno, diventando in questo modo anche una sorta di reliquia del corpo “sacro” dellʼartista. I palloncini senza più aria allʼinterno, infatti, stanno a simboleggiare, in modo altamente toccante, la vita che scorre assieme al progressivo deterioramento del corpo umano.

Sulla scia dei primi gesti dadaisti di Duchamp, Manzoni arriva ad esibirsi spesso anche in performance in cui lʼunico atto dellʼartista consiste nel mettere la propria firma su corpi di modelle e personaggi famosi (tra cui Umberto Eco e Mike Buongiorno), che in questo modo diventano delle vere e proprie Sculture viventi (fig. 20):161 quello di Manzoni non è soltanto un gesto ironico di autentificazione dellʼopera dʼarte (in uno sviluppo estremo del readymade, per lʼappunto), ma anche uno sbeffeggiamento del proprio status dʼartista. Giusto per portare qualche altro esempio a riguardo, nella performance Mangiare lʼarte (fig. 21), dopo avere impresso le proprie impronte digitali su delle uova sode, Manzoni invita i presenti a prenderle e mangiarle; oppure, in Merda dʼartista (fig. 22), lʼartista confeziona novanta scatolette con le proprie feci (rigorosamente numerate ed etichettate “Merda dʼartista, contenuto netto gr. 30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961” in italiano, francese, inglese e tedesco), con lʼintento di venderle letteralmente a peso dʼoro.162 «Lʼartista diventa, dunque, il suo oggetto. Meglio, lʼartista è tetico di sé ed è tetico dellʼoggetto, pone cioè se stesso come oggetto, essendo cosciente di tale processo» (p. 15).

Ciononostante, è stato soprattutto il movimento internazionale Fluxus, fondato nel 1961 a New York dal lituano George Maciunas e finalizzato a creare unʼautentica fusione tra arte e vita per mezzo delle più svariate connessioni tra arti visive, poesia, danza, musica e teatro, a determinare più da vicino la nascita della cosidetta Performance Art.

Tributaria innegabile del movimento evenemenziale Fluxus, di creatività senzʼargini, estesa illimitatamente ad ogni gesto e pensiero, la performance,

161 «Manzoni [1933-1963] aveva progettato nel 1961 i suoi “Certificati di autenticità”, così concepiti: “Si certifica che [nome della persona] è stato firmato per mano mia e pertanto considerato, a partire dalla data sotto riportata, opera dʼarte vera e autentica. Firmato: Piero Manzoni”» (Fontana 2015c, p. 116).

162 «Elevando le proprie feci a opera dʼarte che vale letteralmente oro, Manzoni voleva sbeffeggiare anche il proprio status di artista, i cui lavori erano prodotti che la gente desiderava possedere (senza curarsi della sostanza finché la confezione era accattivante) anche pagandoli a peso dʼoro» (Warr 2000, p. 163).

adombrando lo slittamento dellʼarte nella vita, ne preleva il flusso inarrestabile e mutevole, sottoscrivendo lʼirripetibilità sostanziale ed esperienziale dellʼevento (Conti 2015, p. 14).

Fluxus «nasce in un clima di entusiasmo ed è mosso anche dal desiderio di valorizzare la vita così comʼè, ogni giorno. I tempi degli irascibili che si incontravano al Cedar Bar, la generazione scontenta dellʼimmediato dopoguerra, cedette il posto almeno per qualche anno a un nuovo spirito vitale» (Vettese 2016, p. 213).

Lʼartista Fluxus più rappresentativo è stato certamente Joseph Beuys, il cui lavoro sfugge a qualsiasi catalogazione precisa e la cui opera attraversa tanto il territorio della scultura, quanto quello della performance e dellʼarte concettuale. Docente presso lʼAccademia di Düsseldorf – dove gli studenti lo considerano una vera e propria guida culturale e politica –, Beuys comincia a teorizzare che anche il pensiero possa essere considerato una sorta di scultura. È per questo motivo che nel 1972, in occasione della V Documenta di Kassel, anziché esporre le proprie opere, Beuys “apre” lʼUfficio per la

democrazia diretta, con cui si mette personalmente a disposizione del pubblico per

discutere di scultura (la quale, secondo lʼartista, stava diventando sempre più una questione sociale e sempre meno una questione artistica in senso stretto).

Mosso dalla volontà di sottolineare lʼaspetto rituale e, addirittura, sciamanico delle azioni artistiche, Beuys diventa anche uno dei punti di riferimento più importanti per lʼambito performativo e numerose sono le performance che ci ha lasciato. Tra queste, non si può non ricordare I Like America and America Likes Me (fig. 23), ideata in occasione dellʼapertura della René Block Gallery di New York nel 1974, durante la quale Beuys convive per cinque giorni con un coyote selvatico di nome Little Joe. «Lʼartista arrivò allʼaeroporto JFK avvolto in una coperta di feltro. Fu portato fino alla galleria in ambulanza ed entrò nella stanza cosparsa di fieno impugnando un bastone da pastore. I lunghi periodi di silenzio, sonno e osservazione reciproca si interrompevano sporadicamente solo quando Beuys offriva degli oggetti al coyote, eseguiva una serie di movimenti o emetteva dei suoni» (Warr 2000, p. 76). Lʼazione, già di per sé spettacolare, è ricca di connotazioni simboliche importanti: innanzitutto la coperta di feltro e il bastone da pastore ricordano un importante episodio autobiografico di Beuys,

che ha segnato indelebilmente la sua vita e la sua estetica;163 inoltre, stando alle componenti di ritualità tipiche della performance, Beuys incarna la figura del mediatore tra lʼAmerica del selvaggio West, rappresentata dal coyote, e lʼAmerica capitalista, simboleggiata invece dai fogli del «Wall Street Journal» sparsi ovunque sul pavimento della stanza della galleria newyorkese.

Unʼaltra celebre performance di Beuys è How to Explain Pictures to a Dead

Hare (fig. 24), presentata durante la sua prima mostra commerciale, inaugurata alla

Galerie Schmela di Düsseldorf nel 1965: Beuys ha il volto coperto di miele e di lamine dʼoro e tiene tra le braccia una lepre morta a cui descrive i quadri appesi alla parete della galleria e glieli fa toccare con una zampa, nella convinzione che la lepre, con il tatto, possa comprendere le opere esposte meglio di quanto possa fare un uomo per mezzo della vista, molto spesso distorta da preconcetti di tipo razionalistico.

In seguito Beuys assume progressivamente la figura di un «sacerdote laico» (Dorfles 2015, p. 146),164 che vuole «prendere sulle spalle il dolore del mondo» (Vergine 2001, p. 70), e le sue performance – che egli definisce anche come “sculture sociali” – si fanno sempre più concettuali e, si potrebbe dire, didattiche. Ciò che ne rimane, difatti, sono perlopiù lavagne fittamente riempite con equazioni e parole a difesa di una politica in grado di favorire la salvaguardia della natura, come nel caso di una poderosa azione senza fine, intitolata 7000 Querce (fig. 25), con cui Beuys intende riforestare un territorio ferito dalla guerra e dalla speculazione come quello di Kassel, convinto che città e natura debbano «respirare insieme, in unʼequivalenza tra lʼidea di salute materiale e quella di salvezza morale» (Baldacci, Vettese 2012, p. 43).

In 7000 Querce (Documenta 7, Kassel 1982), lʼartista ha dominato la posa di 7000 lastre scure e oblunghe di basalto davanti al chiarore ordinato del Museum

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Mentre prestava servizio militare in guerra con la Luftwaffe, nel 1943 Beuys ebbe un incidente aereo in Crimea e fu salvato dallʼassideramento da una tribù di Tartari che lo ricoprirono con una coperta di feltro e del grasso. Questi materiali (elevati a elementi simbolici universali del curare, non solo la persona, ma anche lʼumanità stessa) ricorrono con frequenza allʼinterno delle opere di Beuys e celebre rimane lʼimmagine dellʼartista, alto, scarno, dai penetranti e un pó allucinati occhi azzurri, con in testa lʼimmancabile cappello marrone di feltro, abbigliato con un giubbotto da pescatore e aiutato nel passo da un bastone euroasiatico che riecheggia altri “importanti bastoni” nella storia delle religioni, come quello di Mosè o quello papale.

164 Questa definizione di Beuys deriva verosimilmente dal fatto che lʼartista «con le sue parole mira a persuadere il suo uditorio di alcuni principi etico-estetici e politico-spirituali senzʼaltro interessanti e in parte nuovi, non dunque soltanto “assurdi” o velleitari, ma pervasi da una carica di sincera e profonda convinzione» (Dorfles 2015, p. 146).

Fridericianum, ma ha rinunciato al controllo formale nei successivi passaggi: lo svuotamento progressivo della piazza dalle pietre, ciascuna «comperata» (ma, in effetti, semplicemente pagata e non prelevata) da un collezionista o da unʼistituzione; la messa a dimora di una quercia per ciascuna pietra venduta, in punti diversi della città, rimasta senza verde dopo che era stata rasa al suolo durante la seconda guerra mondiale, o nelle zone limitrofe della regione Assia; la crescita e la moltiplicazione delle piante a discrezione dei venti, dellʼacqua piovana, di inverni più o meno rigidi. Lʼopera, destinata a sopravvivere fino a quando sopravviverà almeno un erede delle settemila querce piantate in origine, tendenzialmente è programmata per durare fino alla fine di questo ecosistema ed è un omaggio alla natura nella sua autonomia e nella sua capacità di vivere assai più a lungo di un singolo uomo. Nelle sue mani Beuys ha trattenuto, qui più che altrove, solo la struttura e la realizzazione del programma, ma non la forma, il luogo, il tempo dellʼopera (Vettese 2010a, p. 79).

Sempre in ambito Fluxus si verificano i primi esperimenti sullʼuso della televisione in arte e il principale protagonista dellʼutilizzo di questo nuovo “materiale” è Nam June Paik, soprannominato “lʼeuropeo di Corea”. Basta qui ricordare la sua celebre scultura Famiglia di Robot: Nonno (fig. 26), del 1986, piuttosto che la certamente più complessa performance TV Bra for Living Sculpture (fig. 27), del 1969, in cui Paik crea

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 141-162)