The Ontological Status of the Esthetic Object di Richard Rudner può essere
considerato, verosimilmente, il primo scritto di ontologia dellʼarte in ambito analitico. Questo saggio esce nel 1950, anno in cui Morris Weitz pubblica la sua Philosophy of
the Arts, ma non ha ancora dato alle stampe The Role of Theory in Aesthetics, il saggio
da cui, come si è potuto vedere, ha avuto origine lʼimportante dibattito sulla definizione dellʼarte.
Con questo scritto Rudner intende rispondere (in maniera piuttosto articolata) ad una serie di tesi pertinenti alla filosofia dellʼarte avanzate alcuni anni prima da Clarence I. Lewis, nel suo scritto An Analysis of Knowledge and Valuation (1946). Constatata la differenza tra lʼopera dʼarte vera e propria e la sua realizzazione in un oggetto fisico determinato, Lewis considera tre possibili maniere con cui è possibile comprendere unʼopera dʼarte: come «lʼintenzione dellʼartista o lʼidea che questa intenzione proietta» (Lewis 1946, p. 471);51 come «quel tipo di entità astratta che può
50 «Lʼontologia dellʼarte ha a che fare con le domande su quale tipo di entità siano le opere dʼarte, quali siano le condizioni di identità e di individuazione di tali entità, se lo statuto metafisico delle opere dʼarte sia unico oppure diverso a seconda delle forme dʼarte, a che cosa equivalga lʼautenticità dellʼopera nelle diverse forme artistiche, e se rispetto alle opere dʼarte possa essere giustificata una posizione di tipo riduzionista o eliminativista. I filosofi si sono domandati se le opere dʼarte abbiano natura fisica o mentale, astratta o concreta, singolare o molteplice, e se per esse si debba parlare di creazione o di scoperta» (Levinson 2002, p. 438).
51 Questa concezione è certamente simile a quella proposta da Robin G. Collingwood, segnatamente nel suo The Principles of Art (1938): per la genesi di unʼopera dʼarte, a differenza che per quella di un mero oggetto dʼartigianato, la creazione mediante un atto immaginativo sarebbe non soltanto una condizione necessaria, ma anche una condizione sufficiente. Unʼopera dʼarte, infatti, non richiede necessariamente di essere realizzata in un materiale particolare, ma può esistere anche solo nella mente dellʼartista: un musicista, per esempio, potrebbe benissimo creare una composizione soltanto nella propria mente, senza bisogno di metterne per iscritto la partitura (cfr. Collingwood 1958, p. 139). Le opere dʼarte, secondo
essere esemplificato in due copie di una poesia o due esecuzioni di un pezzo musicale» (ib.); o, infine, come «lʼentità fisica individuale che incorpora questa astrazione o si approssima a questa idea, e serve in qualche caso come loro veicolo di presentazione» (ib.).
Lewis, in particolare, si fa “promotore” del secondo modo, arrivando pertanto a considerare lʼopera dʼarte come
unʼastrazione che è attualizzata negli esempi della sua presentazione, attraverso il medio di qualche veicolo fisico. Essa è unʼentità essenzialmente ripetibile in, o comune ai diversi eventi o oggetti fisici che la esemplificano. Ma bisogna osservare che questa astrazione non è dello stesso tipo di quella degli universali, come triangolarità, onestà o incompatibilità, che stanno in contrasto con qualcosa che è sensibilmente qualitativo e immaginabile. Essa ha letteralmente il carattere dellʼesteticità: noi dobbiamo chiamarla unʼessenza estetica (pp. 474-475).
Per Lewis, in definitiva, lʼopera dʼarte è unʼentità astratta e le sue realizzazioni particolari non sono che degli esempi concreti, mai perfettamente identificabili con essa. Nella sua replica, Rudner vuole innanzitutto mettere in luce le conseguenze indesiderate di questa identificazione dellʼopera dʼarte con unʼentità astratta, dal momento che constata il fatto che proprio tale identificazione non può riuscire a rendere conto di come unʼopera dʼarte possa venire effettivamente contemplata ed esperita attraverso i sensi.
Collingwood, non hanno bisogno di essere tangibili: sebbene gli artisti, in genere, quando vogliono esprimere artisticamente le loro emozioni, producono degli oggetti e il loro coinvolgimento con il mezzo può essere parte integrante di questo processo, questi oggetti sono sempre e soltanto i mezzi attraverso cui gli osservatori possono costruire lʼopera nella propria mente. Lʼopera dʼarte autentica, infatti, esiste unicamente sotto forma di idee, nella mente del suo creatore, prima, e della persona che ne gode, poi. Detto diversamente, le opere dʼarte non sono mai semplici “insiemi” di suoni, o di colori disposti su una tela: questi rappresentano soltanto i mezzi provvisti da un artista affinché un fruitore competente possa ricostruire per proprio conto lʼesperienza immaginativa compiuta dallo stesso artista nellʼatto della creazione, la quale soltanto va intesa come la vera opera dʼarte. Per la sua evidente consonanza con analoghe considerazioni crociane, questa tesi, soprattutto in area anglosassone, viene comunemente conosciuta come la “tesi di Collingwood-Croce”. Come ricorda anche DʼAngelo, infatti: «La tesi di Collingwood derivava chiaramente da quella esposta da Croce nella Estetica del 1902: lʼopera è compiuta nella mente dellʼartista, e la sua “traduzione” in suoni, colori, forme, è solo una estrinsecazione materiale che serve a scopi comunicativi. Lʼopera dʼarte è presente quando lʼartista ha raggiunto lʼespressione adeguata alla propria intuizione. Che poi questa immagine interna lʼartista decida di comunicarla ad altri, rendendo possibile ad altri di compiere, per così dire a ritroso, lo stesso processo, è per Croce un fatto pratico, e pratici e non estetici sono quegli atti attraverso i quali lʼartista produce gli oggetti materiali in cui, a torto, pensiamo si incarnino le opere dʼarte» (DʼAngelo 2011, p. 147).
Inoltre, la stessa relazione che secondo Lewis intercorrebbe tra lʼopera dʼarte (in quanto “idea”) e le sue realizzazioni fisiche particolari appare a Rudner del tutto
identica alla relazione, di dominio della linguistica, tra types e tokens, ossia, tra i tipi e
le loro esemplificazioni.
Allʼinterno di un libro dato, alcune configurazioni simili a uomo
possono apparire più volte. Ogni occorrenza, tuttavia, non è pensata come lʼoccorrenza di una parola differente, bensì come una differente esemplificazione o istanza della parola o del simbolo “uomo”. Nelle diverse pagine in cui appare una configurazione simile a
uomo
si dice che abbiamo la stessa parola, “uomo”, ma esemplificazioni o istanze differenti di essa. Stando alla tesi di Lewis, lo stesso varrebbe anche per la Quinta
Sinfonia e le sue particolari esecuzioni (Rudner 1950, p. 385).
Secondo Rudner, al contrario, non è necessario ipostatizzare unʼentità astratta per risolvere il problema evidenziato da Lewis:
Ci si chieda, per esempio, quale sorta di entità sia quella che viene denominata “Quinta Sinfonia di Beethoven”. Una composizione musicale non è un oggetto fisico: ogni sua realizzazione esecutiva è unʼentità fisica complessa che rientra in un proprio genere; ma tra la realizzazione e la cosa stessa, cʼè unʼevidente differenza. Lʼesecuzione può non realizzare esattamente, e presumibilmente non lo farà mai, lʼintenzione musicale del compositore o le possibilità estetiche rappresentate dalla composizione (Lewis 1946, pp. 469-470).
Basterebbe infatti interpretare lʼespressione “due esecuzioni della Quinta
Sinfonia” come «unʼellissi per “due esecuzioni musicali che sono simili sotto un certo
numero di aspetti rilevanti» (Rudner 1950, p. 385); ed entrambi questi eventi fisici e sensibili potrebbero venire legittimamente interpretati come oggetti estetici, piuttosto che come esemplificazioni di unʼentità astratta, distinta da esse. «Dunque, non si presenta più la necessità di creare delle entità astratte. Le locuzioni problematiche vengono risolte semplicemente nella loro forma abbreviata» (ib.).