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La s-definizione dellʼarte

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 42-46)

«Questa convinzione – che si può sensatamente parlare di arte anche senza possederne una definizione in termini di condizioni necessarie e sufficienti – non è fatta propria solo da Carroll ma rappresenta anzi una posizione che sta emergendo nel dibattito analitico, ridimensionandone lʼapproccio definitorio» (DʼAngelo 2008a, p. 32).46 A tale riguardo, sembra piuttosto interessante ricordare lʼopera di Harold Rosenberg, The De-definition of Art (1972), come prototipo di tutte quelle riflessioni estetiche di stampo “anti-definitorio” che sono andate via, via sviluppandosi ed integrandosi vicendevolmente proprio negli ultimi tempi.

La pittura, la scultura, il teatro, la musica, sono state sottoposte a un processo di sdefinizione. La natura dellʼarte si è fatta incerta, o, quanto meno, ambigua. Nessuno può dire con certezza che cosa sia o, quel che più conta, che cosa non sia unʼopera dʼarte. Dove è presente un oggetto dʼarte, come nella pittura, si tratta di ciò che ho definito un oggetto ansioso: non si sa se è un capolavoro o una porcheria. E può anche darsi, come è il caso di un collage di Schwitters, che sia proprio entrambe le cose.

46 Si veda, ad esempio, Dean 2003; Gaut 2000; Kivy 1997; Novitz 1996; Stecker 1997 e 2000; Zangwill 2002.

Lʼincerta natura dellʼarte non è peraltro priva di vantaggi. Induce a sperimentare e a porsi continue domande. Gran parte dellʼarte migliore rientra in un dibattito visivo vertente su ciò che è lʼarte (Rosenberg 1972, p. 10).

Rosenberg parla dunque di s-definizione dellʼarte a proposito del fatto che lʼopera dʼarte – in particolare dopo Duchamp – sembra essere diventata insicura circa la propria identità e dignità di opera, ossia sembra avere perso le sue intrinseche peculiarità formali ed estetiche, arrivando ad identificarsi sempre più con «un oggetto ansioso, appartenente a quel genere di creazioni moderne destinate a perpetuare lʼincertezza circa il fatto se si tratta di opere dʼarte oppure no» (p. 25). E proprio questa obsoloscenza dellʼoggetto, che rientra appunto nel processo di s-definizione dellʼarte, ha per causa almeno due fattori: il prevalere del procedimento dellʼartista sul manufatto e lʼultradefinizione dellʼartista, «diventato, per così dire, troppo grosso per lʼarte» (p. 9).

Il primo aspetto viene reso chiaramente evidente, secondo Rosenberg, dalla Land Art, dalla Process Art e dallʼArte Povera, le quali fanno prevalere i procedimenti mentali e fisici dellʼartista rispetto allʼopera dʼarte in sé, che, da parte sua, perde la sua dimensione estetica e acquista con sempre maggiore forza il carattere di “feticcio”.47

Il secondo fattore riguarda la figura dellʼartista come showman:

Lʼartista post-arte conduce la sdefinizione dellʼarte a un punto tale che di essa non resta altro che la sua stessa invenzione. Egli disdegna di avere a che fare con tutto ciò che non sia essenza. Anziché dipingere, opera nello spazio; invece di occuparsi di danza, di poesia o di cinema, si interessa al movimento; piuttosto che dedicarsi alla musica, si preoccupa del suono. Lʼartista non ha bisogno dellʼarte, dal momento che per definizione è un uomo di genio, e tutto quello che fa, come ha detto Warhol, “si rivela arte”.

[...] Lʼartista post-arte può andare ancora oltre: può creare un environment (che è il termine più forte nel gergo artistico dʼoggi) in cui ogni genere di stimoli e forze indotti meccanicamente si appropriano dello spettatore e ne fanno, che lo voglia o no, un partecipante e quindi un “creatore” egli stesso (pp. 10-11).

47 Un caso emblematico di questo processo di de-estatizzazione viene ricordato dallo stesso Rosenberg, il quale riporta una parte del documento che attesta la ritrattazione estetica firmata da Robert Morris a proposito della sua opera Litanies: «Dichiarazione di ritrattazione estetica. Il sottoscritto Robert Morris, realizzatore della struttura metallica Litanies, descritta nellʼAllegato A, con il presente atto ritira dalla su nominata struttura ogni e qualsiasi qualità e contenuto di carattere estetico, e dichiara che a partire dalla data sotto segnata essa non possiede più detti qualità e contenuto. Addì 15 novembre 1963. Robert Morris» (Rosenberg 1972, p. 25). A tale proposito rimando anche a Franck 2010.

È come se la s-definizione dellʼarte si chiudesse, in definitiva, con la figura dellʼartista finito “sotto i riflettori”, à la Andy Warhol, che con fare “spettacolare” concentra su di sé, sui propri gesti (artistici e non solo), lʼattenzione del pubblico, sempre più cooperante con lʼartista allʼinterno di un “mondo dellʼarte” – che si ritrova ad essere «in perfetta simbiosi con il mondo della pubblicità e della moda e più in generale della celebrazione della merce di cui la pop art si è fatta [...] interprete vincente» (Desideri 2011, p. 261) –, e oramai del tutto disabituato alle opere dʼarte così come esse venivano tradizionalmente intese, ossia come risultati della produzione pratica e mentale di un artista, che il pubblico può osservare direttamente passeggiando in un museo... ma sulle conseguenze di questo processo di sdefinizione dellʼarte, che porta inevitabilmente con sé anche un radicale cambiamento, dal punto di vista ontologico, del modo di intendere le opere dʼarte, si avrà modo di riflettere ampiamente più avanti, con particolare riferimento a quello che risulta essere anche lʼoggetto privilegiato di questa ricerca: la Performance Art.

Capitolo secondo

Ontologie analitiche dellʼarte

Per rispondere allʼinterrogativo “che cosʼè lʼarte?”, lʼestetica ha bisogno dellʼontologia. “Che cosʼè lʼarte?”, infatti, è una questione innanzitutto ontologica, la cui risposta non vale soltanto a soddisfare una mera curiosità speculativa, ma può servire anche a risolvere una serie di importanti questioni pratiche.48

Fare ontologia dellʼarte significa riflettere sui modi di esistenza delle opere

dʼarte,49

e da qualche decennio proprio questa “predisposizione” sembra essersi oltremodo diffusa, tanto da far diventare la stessa ontologia dellʼarte uno dei settori di studio più rappresentativi dellʼestetica analitica contemporanea.

Nelle estetiche di orientamento analitico, si può dire che lʼinteresse per lʼontologia dellʼarte abbia attratto almeno altrettanta attenzione di quanta ne ha suscitato il problema della definizione dellʼarte. Al punto che si è finito per parlare di un

Ontological Turn, di una svolta ontologica, che fotograferebbe la situazione attuale,

quella determinatasi a partire dagli anni Ottanta, così come per la filosofia a partire dagli anni Cinquanta si era parlato di un Linguistic Turn, di una svolta linguistica. Mentre allora lʼestetica di matrice analitica si autocomprendeva come riflessione sui linguaggi usati dalla critica dʼarte, oggi si comprenderebbe come riflessione sulle diverse modalità di esistenza delle opere. E in effetti sono state proposte moltissime soluzioni diverse, le teorie si sono moltiplicate, le sottilizzazioni sulle diversità fra le arti sono cresciute a dismisura (DʼAngelo 2011, p. 150).

Di solito, lʼontologia dellʼarte viene presentata senza darne fin da subito una “definizione” precisa, bensì portando ad esempio le questioni più rilevanti che occupano tale ambito di ricerca: che cosa sono le opere dʼarte?; quali sono i criteri utili a

48 Cfr. Kobau 2005, soprattutto pp. 9-15.

49 «Ontologia significava originariamente scienza dellʼente in generale, e si identificava con la metafisica o la filosofia prima, che studia lʼente in quanto ente. Oggigiorno, però, con il termine ontologia si intende di solito lo studio dei modi di esistenza dei vari oggetti che incontriamo nel mondo. E nel mondo non ci sono solo oggetti materiali, che magari sono i primi a cui pensiamo quando parliamo di “oggetti”, ma anche oggetti ideali, come i numeri, i teoremi, le figure geometriche, e oggetti sociali come il denaro, i contratti, le costituzioni» (DʼAngelo 2011, p. 150).

identificarle?; qual è il loro modo di esistenza?; a quali condizioni vengono allʼesistenza, continuano ad esistere o cessano di esistere?50

Potrebbe pertanto sorgere il sospetto, più che fondato, «che quella di “ontologia dellʼarte” sia una semplice etichetta riferita a una famiglia di problemi, più che il titolo di una disciplina strettamente circoscritta» (Kobau 2008, p. 38). Quel che è certo, tuttavia, è che «lʼontologia dellʼarte si è rivelata nel corso degli anni di grande importanza come terreno di coltura e come banco di prova per diverse teorie metafisiche di portata generale» (ib.).

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 42-46)