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Realta artificiali. I mass media nella fantascienza statunitense: il caso di Galaxy (1950-1955).

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Dipartimento di Civiltà e Forme del sapere

Corso di Laurea Magistrale in Storia e Civiltà

TESI DI LAUREA

REALTÀ ARTIFICIALI.

I MASS MEDIA NELLA FANTASCIENZA STATUNITENSE: IL

CASO DI GALAXY (1950-1955)

RELATORE

Prof. Alberto Mario BANTI

CORRELATORE Prof. Arnaldo TESTI

Candidato Giulio ARGENIO

(2)

INDICE

INTRODUZIONE

3

1 PERCHÈ LA FANTASCIENZA

7

1.1.

Fantascienza quotidiana

8

1.1.1

Panorami mediatici

10

1.1.2

Seconda natura

12

1.1.3

Futuri opachi

16

1.2.

Prima della fantascienza: letteratura popolare e

feuilleton

20

1.2.1

Romanzo popolare, paraletteratura

22

e letteratura di consumo

1.2.2

Dal consumo dell'eroe al consumo di massa 31

1.2.3

Apocalittici integrati

35

2 CHE COS’È LA FANTASCIENZA

49

2.1.

Preistoria

50

2.1.1

Orizzonti critici

53

2.1.2

Strani Mondi

58

2.1.3

Quarti di nobiltà

66

2.2.

Pulp Fictions

73

2.2.1

Trasmissioni dal futuro

78

2.2.2

Il domani di ieri

84

(3)

3 GALAXY SCIENCE FICTION

104

3.1.

Planet consumerism

105

3.1.1

Sonno profondo

112

3.1.2

Incendi dolosi

117

3.1.3

Freddi calcolatori

126

3.1.4

Luna di miele

130

3.1.5

Nel palmo di una mano

134

3.2.

Le altre storie di Galaxy

138

3.2.1

La fantascienza come satira

138

3.2.2

Ipnosi e potere

141

3.2.3

I rischi del capitalismo interstellare

146

3.2.4

Debito e benessere

151

3.3.

Manipolatori Invisibili

156

CONCLUSIONE

164

(4)

INTRODUZIONE

“I “poeti”, i grandi scrittori di fantasia, sono sempre più grandi di quello che si attribuisce loro. […] Cioè le loro immagini sono più grandi delle loro idee, e delle idee in genere; il loro implicito più grande del loro esplicito e dell'esplicito in genere. […] È l'uomo stesso, d'un momento o l'altro della storia, che parla per bocca loro”.1

L'obiettivo primario di questa tesi è occuparsi di storia dei media da un punto di vista che potremmo definire, sulla scorta di Brecht e dei formalisti russi, straniante;2

ovverosia la letteratura di fantascienza. Le fonti che ho utilizzato sono principalmente di tipo letterario: racconti e romanzi apparsi su una specifica rivista statunitense nel corso degli anni Cinquanta. Un tentativo, quindi, di guardare agli Stati Uniti di quel periodo e al consolidarsi definitivo del loro sistema mediatico attraverso una lente capace, con la sua prospettiva sbilenca, di fornire angoli visuali stimolanti.

Idea di cui a lungo avevo subito il fascino, questa di includere la fantascienza in un lavoro storiografico, ma che senza gli spunti fornitimi dall'opera critica di Fredric Jameson e da quella letteraria di Philip Kindred Dick difficilmente sarei riuscito a partorire nella sua materialità. Il teorico americano, in un suo recente saggio, fa infatti riferimento al ruolo ricoperto dalla televisione nella poetica di Dick e alle apprensioni che l’avvento di questo mezzo probabilmente generò nel pubblico.3 Questa intuizione,

alla quale sono profondamente indebitato, mi ha stimolato nella ricerca e mi ha portato a rileggere le fatiche dello scrittore californiano fino a dedicargli il titolo della mia tesi, prendendo in prestito il termine “spurious realities” con il quale si riferisce agli universi di senso creati dai media.4 Realtà artificiali, spurie letteralmente, che i diversi gruppi di

1 Elio Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, Torino, Aragno, 2001, p. 223.

2 Viktor Sklovskij, Una teoria della prosa, Bari, De Donato, 1966, pp. 18 – 31.

3 Fredric Jameson, Archeologies of the Future. The Desire Called Utopia and Other Science Fictions, Londra, Verso, 2007, p. 371.

4 Philip K. Dick, Come costruire un universo che non cada a pezzi dopo due giorni [1978, 1985], in Lawrence Sutin (a cura di), Mutazioni, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 302.

(5)

potere producono, al fine di manipolare le masse. Anche se l’opera di Dick rientra solo in minima parte nell’orizzonte cronologico del mio studio, quell’affermazione riassume bene il contenuto della mia tesi ed il rapporto fra la finzione letteraria e il mondo reale.

Che cosa possono infatti dirci oggetti smaccatamente pop come le narrazioni fantascientifiche sull'epoca della loro composizione? Possibile che, selezionando un arco temporale ed un corpus di testi significativo, emergano dei tratti della cultura popolare altrimenti destinati in parte a rimanere sommersi? Domande senza dubbio ambiziose a cui un lavoro modesto come il mio potrà, necessariamente, rispondere solo in parte, ma che mi hanno guidato, spronato e alle volte anche scoraggiato, durante tutta la ricerca. Si tratta, credo, di quella che si definirebbe storia culturale;5 da un lato ho

voluto occuparmi non di cultura alta ma di cultura cosiddetta lowbrow, dall'altro da questi documenti ho tentato di estrarre delle rappresentazioni letterarie di strumenti, abitudini ed in definitiva di caratteri del reale.

Non metto infatti in dubbio che dietro alle rappresentazioni esista una realtà tangibile e materiale: nella storia dei media innovazioni tecnologiche, considerazioni economiche, sistemazioni giuridiche e mutamenti sociali hanno un peso senza dubbio fondamentale, che però non credo escluda la rilevanza di un più evanescente dato culturale. Come per la macchina e per il telefono6 è probabile che i mezzi di

comunicazione di massa siano stati accolti con reazioni e atteggiamenti diversi, che proiettavano su questi ritrovati tecnologici simboli, immagini e metafore attinti da un bagaglio culturale anch'esso ampio e variegato. A comporre questo orizzonte di possibili significati devono aver collaborato un insieme di forze che è forse impossibile considerare per intero: posizionamento di classe, appartenenza ad una minoranza, genere, fede religiosa, idee politiche ed educazione sono tutte variabili che hanno probabilmente contribuito a scandire la penetrazione delle tecnologie comunicative nelle nostre vite. La fantascienza, allora, può essere nient'altro che un punto di osservazione privilegiato, un recinto limitato, dove rinvenire alcune delle matrici di questi investimenti simbolici.

Pur nelle sue ristrettezze intellettuali e stilistiche, la fantascienza non si è rivelata però un genere scontato, e con le sue complessità mi ha portato lontano dagli steccati

5 Peter Burke, La storia culturale, Bologna, il Mulino, 2006.

6 Nicholas Siân e Tom O'Malley (a cura di), Moral Panics, Social Fears, and the Media, Londra – New York, Routledge, 2013; Federico Paolini, Storia sociale dell'automobile in Italia, Carocci, Roma, 2007.

(6)

tematici che avevo ingenuamente posto all’inizio del lavoro. Accanto ai mezzi di comunicazione ed ai loro possibili effetti sono infatti gli ambiti della pubblicità, del consumo e del condizionamento subito dal pubblico ad essere rappresentati nelle

fictions di Galaxy. Anche per questo il lavoro si apre e si chiude, in una sorta di rondò,

sulle parole pronunciate da Dick nel 1978. Fra questa introduzione e la tanto sospirata conclusione si dipanano i contenuti veri e propri, di cui un breve resoconto sarà utile per chiarire ulteriormente l’organizzazione interna.

L'oggetto di studio inusuale, le sue conseguenze e difficoltà, meritavano una trattazione più approfondita di quanto fosse possibile dedicargli in una breve introduzione, per questo motivo i vari presupposti teorici e metodologici che mi hanno guidato occupano il primo capitolo. Senza una definizione del genere letterario (e quindi una sua storia) questa prima parte, tuttavia, rimarrebbe monca: per tale ragione il secondo capitolo ripercorre il tragitto della fantascienza, le sue peculiarità e il contesto più largo entro il quale si diffuse durante gli anni Cinquanta. Ovviamente Galaxy, la sua nascita e i motivi della sua peculiarità, sono il fulcro di questa ricostruzione, il punto di fuga verso il quale convergono le linee precedentemente tracciate e da cui si dipana la successiva sezione. Il terzo capitolo, infatti, vuole mettere a valore quanto precedentemente esposto riprendendo l’analisi approfondita della rivista ma concentrandosi, invece che sugli apparati editoriali, sui suoi racconti ed autori, provando a generare collisioni prolifiche fra i voli della science fiction e quanto altro stava elaborando la cultura statunitense del periodo. Accanto al genere letterario ho pertanto sentito la necessità di includere alcuni cenni al clima politico e sociale che contraddistinse i primi passi della televisione, anch’essi riassunti per sommi capi prima di addentrarsi nel dettagliato esame dei testi.

Quest’ultima e fondamentale sezione, dedicata alle narrazioni, non sarebbe stata possibile senza l’aiuto di Science Fiction Studies, rivista fra le più longeve ed onorevoli nel campo della critica accademica della fantascienza. Grazie all’annuale Richard Dale

Mullen Fellowship ho infatti potuto usufruire di una borsa che mi ha consentito di

recarmi a Liverpool, presso la Science Fiction Collection della Sidney Jones Library, dove ho consultato Galaxy in tutta la sua materialità, saggiandone carta e inchiostro. Una lettura approfondita e praticamente completa delle prime cinque annate della rivista, come quella richiesta da questa tesi, non avrebbe potuto dirsi completa ricorrendo esclusivamente alle copie digitali disponibili online. Un sincero

(7)

ringraziamento va dunque a Sherryl Vint e a tutta la redazione di SFS, oltre che alla

Science Fiction Foundation per l’ospitalità e a Darko Suvin per i preziosi suggerimenti,

l’ispirazione e il sostegno. Le sue riflessioni mi hanno aiuto nel non semplice compito di collegare fantascienza e studio storiografico.

In conclusione, è proprio il caso di chiarire le ragioni di questa scelta: pur non essendo riconducibili ad un insieme univoco, esse ci possono indirizzare verso il prosieguo del lavoro.

Si potrebbe dire che i motivi che mi hanno guidato possono essere collocati su due piani distinti, anche se comunicanti. Da un lato le esperienze del nostro presente, i dubbi e le incertezze del vivere contemporaneo, mi suggerivano che questo genere, nelle sue incarnazioni sia letterarie che cinematografiche e multimediali, diventava sempre più pervasivo e allo stesso modo meno dirompente. Dall'altro, studiandone gli esordi e lo sviluppo, sono arrivato a capire che esso si inserisce all'interno di dinamiche culturali e sociali più ampie, ovvero quelle dello sviluppo della cosiddetta industria culturale; della nascita e dello sviluppo non solo di nuovi canali comunicativi ma di forme e generi espressivi inediti. Fenomeni che nel tempo hanno suscitato le reazioni più disparate, di ripulsa e di entusiasmo, poiché facenti parte di quel percorso che porta alla nascita della radio, alla diffusione della televisione e all'avvento di internet.

Il capitolo che segue si articola secondo questo doppio ordine di motivazioni. La prima parte riflette sulla perdita di prospettiva storica che la nostra convivenza con gli strumenti tecnologici comporta e su come la fantascienza ben rappresenti, contemporaneamente, una raffigurazione ed una possibile scappatoia da tale condizione. La seconda, invece, inquadra la fantascienza nell'ambito produttivo e di circolazione della letteratura popolare, tracciandone una breve storia a partire dal feuilleton per poi fornire brevi cenni sulla categoria di industria culturale e di consumo.

(8)

CAPITOLO I

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FANTASCIENZA QUOTIDIANA

“Ho imparato questo dal mio maestro: chi si serve di macchine, usa dei meccanismi e il suo spirito si meccanizza. Chi ha lo spirito meccanizzato non possiede più la purezza dell'innocenza e perde la pace dell'anima. Non ignoro i pregi di questa macchina, ma avrei vergogna a servirmene”.7

Una scorsa alle locandine cinematografiche, un rapido censimento delle serie televisive di maggior successo, oppure un banale sguardo ai banchi dei fumetti testimoniano ottimamente il ruolo notevole che la fantascienza ricopre nel nostro immaginario contemporaneo. Si pensi soltanto al ritorno nei cinema della nuova incarnazione di Star Wars, presentato come evento insieme epocale e generazionale,8 e

al peso che questa stessa saga aveva avuto, sul finire degli anni Settanta, nel dare forma alle nuove tendenze delle major hollywoodiane.9 Se nel mercato librario questo genere

continua ad essere relegato ad una nicchia di appassionati e conoscitori, sembra accadere l'opposto in ambito filmico e videoludico. Non è qui il caso di approfondire quest'ultimo contesto, ma va quantomeno notato come l'industria dei videogiochi abbia ormai assunto un'importanza ed una maturità notevoli, con ampie ricadute sulla cultura popolare, in particolare giovanile.10

Nonostante non si sia ancora fornita una spiegazione univoca di che cosa sia la fantascienza, in sé oggetto misterioso e in parte non identificato, penso che alcune definizioni pregresse, nebulose come stelle, facciano parte di un repertorio ormai largamente condiviso. Quante volte, ad esempio, in periodici e telegiornali la formula «è fantascienza» serve a smentire situazioni e scelte percepite come irrealizzabili? Non si

7 Liou Kia-hway (a cura di), Zhuang – Zi, Adelphi, Milano, 2001, p. 107.

8 Star Wars: The Force Awakens, J. J. Abrams, USA, 2015. Uno dei trailer ufficiali del lungometraggio

recitava “every generation has a story”, dicitura che sembra riconnettere la storyline degli inediti personaggi al nuovo potenziale pubblico.

9 L'importanza del genere “fantascientifico-fantasy” all'interno della strategia del blockbuster è ricordato in Lyn Gorman, David McLean, Media e società nel mondo contemporaneo, Il mulino, Bologna, 2011, pp. 199 - 200.

(10)

descrive qualcosa con l'arida categoria dell'impossibile, ma lo si allontana dal reale in quanto volo meravigliosamente fantasioso. Spero ciò mi consenta di introdurre una suggestione utile in sede introduttiva.

Oltre che nel linguaggio più o meno giornalistico e nei prodotti culturali di largo consumo, sembra che il gusto e l'immaginazione fantascientifica si siano definitivamente infiltrati anche nel vivere di ogni giorno. I congegni elettronici che imperversano sembrano insieme un prodotto della nostra industria e di un ingegno alieno: l'ultima moda informatica arriva a noi come dono da un futuro vicino. Questo futuro tuttavia è già qui, pervasivo e nuovo assieme. I tocchi gentili che molti di noi riservano ai propri smartphone sono solo uno fra i numerosi indizi in tal senso: che il nostro sia un universo tecnologizzato lo testimonia la nostra familiarità con i più disparati mass media e lo sconforto che ci prende in assenza di una connessione internet.11 Sono bastati pochi anni a rendere scontato vivere in ambienti impregnati dalle

invisibili onde del wi-fi e a convincerci che ciò che conta è la portabilità dei nostri dispositivi. Google è oramai ciò che la Pizia era per gli antichi, portale di accesso ad un sapere sconfinato e insondabile che egli seleziona ed ordina per noi. Ora Apollo si esprime non per oracoli ma attraverso megapixel e siede pacifico nelle nostre tasche. Le metafore, i simboli e le situazioni della fantascienza diventano, da bambineschi che erano, improvvisamente attuali.

La simbiosi con le nostre macchine e la consapevolezza montante del potere che ha su di noi chi le controlla rendono drammaticamente presenti sia il sogno del cyborg che l'incubo delle distopie. Non sarà allora forse un caso il profluvio di mondi postatomici, apocalissi zombie, robot ribelli e disastri ecologici che caratterizza i nostri spettacoli. Così la fantascienza entra nel quotidiano sia attraverso le sue rappresentazioni culturali sia per mezzo di gesti e preferenze. Fantascientifico è un certo gusto per l'innovazione tecnologica, il gadget all'avanguardia, la meraviglia informatica. Il piacere della merce, l'estatico stupore per quanto di nuovo e sconvolgente può regalarci la Silicon Valley, andrebbero allora ricondotti al compiacimento per aver raggiunto, appunto, quel futuro che tanto cinema e letteratura avevano preconizzato. Il “domani”, oggetto principe di questo genere narrativo, non è più solo una chimera da

11 I modi e le conseguenze di questa “tecnologizzazione” stanno trovando risonanza anche fuori dall'ambito delle ricerche accademiche, si veda ad esempio il recentissimo volume di Sherry Turkle,

La conversazione necessaria, Einaudi, Torino, 2016. Oppure di Katie Davis e Howard Gardner, Generazione App, Feltrinelli, Milano, 2014.

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vagheggiare, ma può essere sperimentato nel presente. Ogni nuova scoperta dell'informatica sembra essere una fra Le meraviglie del possibile12 calzante titolo di una

delle raccolte che per prima, in Italia, ha provato a sfondare la parete che separava la fantascienza dalla letteratura artisticamente e commercialmente accettata.13

Evidentemente il mio discorso tende a non distinguere fra mass media e nuove tecnologie informatiche. Questa confusione dipende certo da mancanze personali, ma credo che non sia peregrino sostenere che al giorno d'oggi tutte le tecnologie siano in parte comunicative e dunque massmediatiche. Anche quando computer, smartphone ed

e-reader svolgono funzioni lavorative e di studio la dinamica della condivisione e del

contatto non scompare, rimane solo sopita. Certo la sfera mediatica e quella tecnologica non si sovrappongono interamente: forse due espressioni di Arjun Appadurai possono esserci allora utili come referenti per articolarne il rapporto, nonostante i problemi e le notevoli criticità che contraddistinguono i lavori di questo autore.

Panorami mediatici

Nell'introduzione ad una delle sue più celebri opere,14 l'antropologo specifica che

“la teoria implicita di questo libro identifica nella comunicazione di massa e nella migrazione i suoi due principali e interconnessi elementi diacritici, e studia il loro effetto combinato sull'opera dell'immaginazione (in corsivo nel testo) in quanto tratto costitutivo della soggettività moderna”.15 Il ruolo attribuito dall'autore

all'immaginazione andrebbe quantomeno problematizzato e certamente affermazioni quali “dove c'è consumo c'è piacere, e dove c'è piacere c'è azione. La libertà, d'altra parte, è un bene assai più sfuggente”16 non possono non suscitare discussione. Quello

che qui interessa, però, è prendere in prestito i concetti che egli usa come “sonda esplorativa” delle “disgiunture tra economia, cultura e politica” dell'attuale mondo globalizzato, ovvero i “mediorami” ed i “tecnorami”.17 L'utilità di questi termini sta

soprattutto nel cortocircuito linguistico che creano: nella traduzione italiana essi sono

12 Sergio Solmi e Carlo Fruttero (a cura di), Le Meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza, Einaudi, Torino, 1959. L'edizione più recente dell'antologia è uscita sempre per Einaudi nel 1992.

13 Un riferimento al successo di questa seminale raccolta e all'operato dei suoi curatori si trova in Giulia Iannuzzi, Fantascienza Italiana. Riviste, autori, dibattiti dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, Mimesis, Milano - Udine, 2014, pp. 10 - sgg.

14 Arjun Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Roma, 2001.

15 Ibid., p. 16. 16 Ibid., p. 22.

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modellati su “panorama”, mentre nell'originale rinvengono la propria matrice in “landscape”. Entrambe le parole evocano in noi suggestioni naturalistiche e di paesaggio collegate al senso della vista; le radici greche, da un lato ὁράω e dall'altro σκοπέω, indicano infatti l'atto dell'osservare. Se in inglese il prefisso “land” rimanda direttamente alla terra ed al mondo naturale, il corrispettivo italiano usa “pan-”, “tutto”. In ogni caso, esattamente come il Panopticon di benthamiana memoria, la parola non solo è di origine inglese, ma descrive un oggetto tutt'altro che naturale. Prima di assumere l'attuale valore paesaggistico, la parola “panorama” indicava lo specifico mezzo di intrattenimento ideato dal pittore irlandese Robert Baker alla fine del Settecento: una rappresentazione pittorica a 360 gradi di una veduta, posta sulle pareti di una stanza circolare, offriva allo spettatore una illusoria percezione di centralità e onnipotenza visiva. I neologismi di Appadurai ci aiutano quindi sia a rappresentare l'organicità con la quale media e tecnologie elettroniche cercano di integrarsi nel paesaggio, urbano, sociale e psicologico, del nostro vivere, sia l'artificiosità stessa di questo tentativo. Non solo, i brevi accenni etimologici fatti suggeriscono che l'esperienza stessa dello spettacolo del naturale è legata alla possibilità di rappresentarlo attraverso macchinismi assolutamente antropici. Ben prima delle macchine fotografiche, l'appropriazione del paesaggio passa attraverso la sua razionalizzazione prospettica.18

Già Walter Benjamin, a titolo d'esempio, notava che “nel loro tentativo di produrre, nella natura rappresentata, trasformazioni fedeli fino all'illusione, i panorami rinviano in anticipo, oltre la fotografia, al film e al film sonoro”.19 Marshall McLuhan invece

ricorda, riprendendo Gombrich, come sia stato il cubismo a praticare fragorosamente la rinuncia in campo artistico a quest'illusorietà, denunciandosi quindi come mezzo di una rappresentazione e annunciando che “il medium è il messaggio”. Pur con tutte le sue ambiguità ed i suoi rischi di determinismo, credo che questa tesi di McLuhan abbia il pregio di aver messo in mostra per prima il profondo significato antropologico rivestito da ogni sistema per la trasmissione dell'informazione. L'idea che una tecnologia sia un'estensione, una protesi di noi stessi, rimarrà forse sempre difficilmente accettabile, ma assume oggi una pregnanza talmente esplosiva da risultare forse fuorviante.20

I media e i devices di cui ci serviamo oggigiorno non hanno, almeno in superficie,

18 Su questa suggestione si veda ad esempio l'appunto fatto da Carlo Ginzburg sulle rappresentazioni di battaglie in Microstoria: due o tre cose che so di lei, in «Quaderni storici», 1994, 86, p. 524.

19 Walter Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 2014, p. 148.

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ereditato l'atteggiamento del cubismo e di altre avanguardie: è raro che computer, smartphone et similia manifestino, nell'uso che se ne fa, la loro artificialità, il loro rapporto mediato con la realtà. Le tecnologie comunicative contemporanee si integrano nel nostro mondo in maniera silenziosa; mettono radici in un ambiente materiale che emulano e riproducono, cercando di ammantarsi di naturalezza, grazie alla consuetudine della loro presenza.

Seconda natura

Una peculiare forma di abitudine coglie chi, a forza di pratica, ha acquisito con gli strumenti di cui si serve ogni giorno una dimestichezza tale da considerarli scontati. La pervasività dell'orizzonte tecnologico e massmediatico traduce in forme concretamente presenti le immagini della fantascienza, mentre i costumi quotidiani e l'immaginario mainstream collaborano nell'ammantare di normalità astorica le forme intensamente mutate del nostro vivere.

Hermann Bausinger, interrogandosi sulla “relazione tra mondo popolare e mondo tecnico”21 sottolineava come “se vogliamo capire la cultura popolare nel mondo tecnico,

le osservazioni devono tra l'altro girare intorno al tema «magia e tecnica».”22 La magia,

come meccanismo narrativo, è qualcosa che nel fantastico ha un suo ben noto rilievo e che invece nella fantascienza si vorrebbe del tutto espunto. Tuttavia, magico è nella nostra esistenza anche ciò che non può fino in fondo venire compreso e come tale anche la tecnologia all'avanguardia di cui tanto ci serviamo. Quanti di noi infatti comprendono ad esempio, e per limitarsi ad uno degli apparati più comuni e semplici, il funzionamento di un televisore? Eppure con esso abbiamo da ormai decenni una familiarità quasi innata. In confronto, l'esperienza di un assistente vocale digitale23 è una

vera meraviglia magica. Espunta dalla sua incarnazione letteraria, la magia rientra in quella fantascienza attualizzata che è la nostra vita, ma solo nei suoi piacevoli risvolti estetizzanti. Sempre Bausinger ci dice che “la magia non è più una tetra forza demoniaca e nemmeno uno slancio «semidivino», ma piuttosto si tratta di una categoria debole, quasi esclusivamente estetica”24 e che “questa magia deriva maggiormente dal

21 Hermann Bausinger, Cultura popolare e mondo tecnologico, Guida, Napoli, 2005, p.35. 22 Ibid., p. 42.

23 Mi riferisco con questo termine ai software come Siri, generalmente chiamati IPA (Intelligente

Personal Assistant), che ormai popolano tutti gli smartphone e sono in grado di fornire agli utenti

informazioni e suggerimenti modulati a seconda del contesto 24 Bausinger, Cultura popolare e mondo tecnologico, cit., p. 53.

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tentativo consapevole del produttore di far emergere gli apparecchi tecnici dall'ambito del consueto: ciò è una prova che l'uomo si è abituato alla tecnica.”.25 La consuetudine

con gli strumenti, su cui ci siamo tanto dilungati, è la chiave per comprendere questo naturalizzarsi della tecnologia.

Qui inizialmente può tornarci ancora utile l'antropologo tedesco. Citando l'affermarsi dell'accendino nel rito dell'accensione dei ceri pasquali egli notava che al gesto “l'abitudine presto gli conferì la caratteristica della «naturalezza» […] perché il concetto di naturalezza, quando viene usato per descrivere le attività umane, perde i suoi rigidi contorni ed assume un valore relativo”.26 Alla radice di questa naturalità sta

proprio quella mancata comprensione che prima avevamo definito magica. Essa emerge quando, invece che portando a termine il suo movimento ben oliato, il meccanismo s'inceppa. Quando, potremmo dire, il nostro selfie non viene scattato, il tweet non condiviso.

“Ci si rende conto che la «naturalezza» della tecnica non nasce da una sua perfetta gestione ma appare come risultato dell'assuefazione e della dimestichezza con essa. E così si rivela che lo svolgimento tecnico non è intuito. Un bambino si spaventa quando, per la prima volta, preme il tasto della radio e gli risponde la musica; ma dopo che il bambino si sarà abituato, si spaventerà in uguale misura quando questo, per un motivo o un altro, non succede. Ognuno si ritrova nella situazione del bambino quando per un qualche motivo viene interrotto un abituale procedimento tecnico, che in fondo era rimasto incompreso. Allora si nota che la tecnica in tutta la sua naturalezza può essere imprevedibile – e si può aggiungere: come la natura.”27

Va insomma riconosciuto, al di là dei giudizi in merito, che la tecnologia ha colonizzato la nostra vita quotidiana secondo traiettorie difficilmente immaginabili fino ad una decina di anni fa. Con il passare del tempo sembra via via assottigliarsi la capacità di cogliere i cambiamenti introdotti da media, come ad esempio la radio e la televisione, ormai considerati obsoleti. Questa situazione ci pone di fronte a nuovi interrogativi e sfide, sia come studiosi che come uomini. L'abitudine ad un mondo

25 Ivi. 26 Ibid., p. 54. 27 Ibid., p. 67.

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saturato dalla pervasività delle odierne tecnologie comunicative non può e non deve spingerci a considerarli come prodotti autosufficienti, legati esclusivamente alla razionalità tecnica dei loro creatori e produttori. È dunque necessario rigettare l'idea, adombrata dalla cappa degli attuali mediorami e tecnorami, che il sistema dei media sia autoreferenziale, poiché essa ci condurrebbe a concentrarci esclusivamente sulla storia delle sue strutture tecniche ed organizzative.

Sarebbe in ogni caso sbagliato figurarsi la penetrazione dei mass media e delle varie tecnologie comunicative nelle nostre vite e relazioni come un fenomeno totalizzante. Se Appadurai si concentra su un tipo di agency che pare quasi innato nello stesso costituirsi dei mediascapes, potrebbe essere fruttuoso immaginarsi che oltre a “resistenza, ironia, selettività”28 ci siano anche tattiche quotidiane non interamente

risolvibili negli intricati passaggi delle autostrade dell'informazione. Si è parlato non a caso di “tattiche” poiché per trattare di come si situino gli individui nel panorama tecno-mediatico il pensiero di Michel de Certeau offre interessanti spunti. Egli sostiene che:

“La marginalità non assume più oggi la figura di piccoli gruppi, bensì quella di un'emarginazione diffusa; è l'attività culturale dei non-produttori di cultura, anonima, non leggibile, non simbolizzata, e che resta la sola possibile per tutti coloro che pure pagano, acquistandoli, i prodotti-spettacoli che scandiscono un'economia produttivistica. La marginalità dunque si universalizza. È divenuta maggioranza silenziosa. Ciò non significa però che sia omogenea”.29

Sento prima di tutto il bisogno di evidenziare come questa marginalità dei consumatori non debba nascondere l'esistenza di marginalità ben più materiali, dolorose e stringenti. La dicotomia fra produttori e consumatori di beni immateriali, se non vuole ridursi a mera falsa coscienza, non può nascondere la grave situazione di emarginazione che vivono i profughi nel nostro paese, come anche tutte quelle fasce di popolazione (italiana e non) costrette alla spirale della disoccupazione, della precarietà e del lavoro sommerso. Fatta questa doverosa precisazione, possiamo tornare a servirci di De Certeau e degli utili strumenti che ci fornisce per indagare le “astuzie” che “il quotidiano si inventa attraverso mille forme di bracconaggio (in corsivo nel testo)”.30 Il

28 Appadurai, Modernità in polvere, cit. p. 21.

29 Michel De Certeau, L'invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2012, p. 13. 30 Ibid., p. 6.

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pensatore francese attua una originale distinzione fra “strategia” e “tattica”. La prima si riferisce al “calcolo dei rapporti di forza che diviene possibile a partire dal momento in cui un soggetto di volontà e di potere è isolabile in un «ambiente». Essa presuppone un luogo che può essere circoscritto come proprio”.31 Con il secondo concetto intende

invece “un calcolo che non può contare su una base propria, né dunque su una frontiera che distingue l'altro come una totalità visibile. La tattica ha come luogo solo quello dell'altro […] ciò che guadagna non lo tesaurizza”.32 Se la vita all'interno del presente

panorama tecnologico non è omogenea, allora queste due categorie possono fornirci delle coordinate guida, ricordando che “molte pratiche quotidiane […] sono di tipo tattico. E così pure, più in generale, gran parte dei «modi di fare»”.33

Al di là delle sacche di vera e propria resistenza all'informatica, esiste tutta una schiera di persone che oscillano fra l'accettazione, il disinteresse e la scarsa conoscenza dei nuovi mezzi espressivi e di comunicazione. Se l'uso di smartphone, tablet, computer e quant'altro fa ormai parte, per alcuni, di una acquisita naturalezza, altri percepiscono ancora il mondo tecnologico come distante, alieno e fuori di sé. Ovviamente la linea di demarcazione è spesso generazionale. Alla dimestichezza degli entusiasti si oppone poi la ritrosia dei sospettosi. In questa categoria, sempre più ristretta, si distinguono innumerevoli soggetti diversi che la vulgata avversa cerca di uniformare, etichettandoli ora come “vecchi” ora come “paranoici”. Le retoriche dell'innovazione, secondo un procedimento piuttosto scontato, necessitano di ostacoli e oppositori da sorpassare che ne incarnino gli opposti valori; così fanno la loro comparsa i retrogradi citati prima. Questa loro immagine di dinosauri destinati all'estinzione è acuita dalla rilevanza economica sempre maggiore che il settore tecnologico va assumendo. Numerose volte, nella congettura economica che ci accompagna, ci è stata magnificata, da quotidiani e telegiornali, la strenua resistenza e la miracolosa ascesa del settore informatico. Così, da crisi a crisi, non si parla più di new economy ma di sharing economy e il business alimenta un doppio circuito, occupazionale per un verso, di consumo per l'altro, di amore per tutto ciò che è avanguardia tecnologica. Dal commesso della grande catena di distribuzione all'ingegnere specializzato, dal programmatore strampalato al tecnico smanettone, la fidelizzazione aumenta all'aumentare degli impiegati e dell'indotto.

Inquadrata in questo contesto prende senso anche la rivalutazione a cui è andata

31 Ibid., p. 15 32 Ivi.

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incontro la figura del nerd negli ultimi trent'anni all'interno delle rappresentazioni popolari. Se nel 1984 Hollywood riteneva ancora necessario che questi geni brufolosi ed antisociali si prendessero una rivincita,34 le divertenti stravaganze dei protagonisti di Big Bang Theory rendono familiari e perfino sessualmente appetibili comportamenti e

apparenze che, con il successo degli occhiali a montatura spessa, invadono le strade. Accanto a queste celebrazioni dell'uomo qualunque elettronico sono iniziati anche i panegirici per i grandi protagonisti della “rivoluzione informatica”. Già Steve Jobs e la sua prematura dipartita hanno fornito materiale per due lungometraggi e altrettanti libri, e a lui bisognerebbe affiancare almeno Steve Zuckerberg, come non andrebbero tralasciati i tanti altri personaggi pronti ad esser riletti alternativamente nel ruolo di

guru, capitano d'industria, genio ribelle e adolescente incompreso.

Futuri opachi

Non mi sembrerebbe ardito supporre che questi testi, di così vario taglio, abbiano una certa parte nel generare quella naturalezza cui si accennava prima. Consumi culturali e pratiche quotidiane, insomma, si muovono nella stessa direzione e verso risultati in reciproca continuità. Come dice Roland Barthes nella premessa a Miti d'oggi: “soffrivo di vedere confuse, ad ogni occasione, nel racconto della nostra attualità, Natura e Storia, e volevo ritrovare nell'esposizione decorativa dell'«ovvio» l'abuso ideologico che, a mio avviso, vi si nasconde”.35 Cercando di aggirare questo problema

ho allora voluto, invece che concentrarmi sui miti attuali, recuperare fonti che per loro stessa natura consentissero di bucare questo doppio velo delle evidenze. Per usare le famose parole di Carlo Ginzburg: “se la realtà è opaca, esistono zone privilegiate – spie, indizi – che consentono di decifrarla”.36 Ecco allora che, se gli attuali mezzi digitali

hanno una propria storia, tutt'altro che lineare; anche i dispositivi ormai dati scontati, prima di esserci fedeli compagni, devono essere sembrati ai nostri genitori e nonni prodigi macchinosi, inutili e qualche volta estranei.

La mia ipotesi è che per cacciare questi nostri antenati mediatici, cavernicoli senza telecomando, neanderthaliani della società dello spettacolo, sia necessario ricercarne le

34 Revenge of the Nerds, Jeff Kanew, USA, 1984.

35 Roland Barthes, Miti d'oggi, Einaudi, Torino, 1993, premessa.

36 Carlo Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Aldo Gargani (a cura di), Crisi della

ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi, Torino, 1979, p. 91. Ora

anche in Umbero Eco e Thomas A. Sebeok (a cura di), Il segno dei tre, Bompiani, Milano, 1983, pp. 95 - 136.

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tracce negli angoli bui e fra i cespugli più bassi. Come modesti paleontologi, potremmo allora rinunciare all'ambizione di rivenire gli scheletri di mastodontici dinosauri, consolandoci con le loro impronte sull'arenaria. Dove il terreno è più morbido orme e sagome possono stagliarsi.

Prolungando ancora per qualche istante la metafora dirò che mi è sembrato che questo terreno friabile fosse rintracciabile in quelle forme di cultura di massa normalmente considerate più degradate. La fantascienza parrebbe uno di quei siti frequentati dalla cultura popolare ma anche estremamente permeabili agli influssi della società massificata. Queste prime pagine servivano a mostrare la rilevanza di tale genere nel presente, ma se ciò può spiegare le motivazioni personali che spingono ad intraprendere una ricerca, non ne esaurisce le ragioni. Se ho deciso di concentrarmi su di un particolare fenomeno letterario non è solo per le caratteristiche e le tematiche di questo genere, ma anche per i caratteri particolari che assume la lettura nell'esperienza contemporanea.

Ancora De Certeau dice che “nel racconto non si tratta più di avvicinarsi il più possibile a una «realtà» (un'operazione tecnica eccetera) e accreditare il testo attraverso il «concreto» così esibito. Al contrario, la storia raccontata crea uno spazio di finzione. Si allontana dal «reale» - o piuttosto finge di sottrarsi alla contingenza: «c'era una volta...». In questo modo, più che descrivere un «colpo», lo fa.”.37 Poiché “abitare,

circolare, parlare, leggere, fare la spesa […] sono tutte attività che sembrano corrispondere alle caratteristiche e alle astuzie delle sorprese tattiche: colpi di mano del «debole»”.38

Tra i vari colpi di mano del debole vorrei allora suggerire di annoverare pure il leggere la fantascienza, modo di raccontare finzionale quasi per eccellenza, anche per il suo peculiare rapporto col tempo. Se il filosofo francese si concentra più sullo sguardo che il romanzo volge al passato, in quanto “il racconto ha indubbiamente un contenuto, ma è anch'esso un marchingegno: un andare indietro nel tempo”39, noi aggiungiamo che

37 De Certeau, L'invenzione del quotidiano, cit., p. 127. Quest'idea della lettura come pratica di bracconaggio è stata ripresa anche da Roger Chartier, nel tentativo di coniugare l'interesse per la materialità dei supporti scrittori a quello per le pratiche di significazione della cultura popolare. Si veda in proposito Roger Chartier, Letture “popolari”, in Id., Cultura scritta e società, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano, 1999, pp. 95 - 111. Dello stesso autore cfr. pure Stratégies et tactiques.

De Certeau et les «arts de faire», in Id., Au bord de la falaise, Éditions Albin Michel, Parigi, 1998,

pp. 132 - 160. 38 Ibid., p. 77. 39 Ibid., p. 127.

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le macchine del tempo40 possono portarci anche nel futuro.

Soprattutto, ho voluto concentrarmi su di un periodico di fantascienza nella speranza che proprio intorno alle abitudini dovute a questo formato si potesse ritrovare traccia di queste idee e astuzie popolari. Ho insomma scelto questo tipo di riviste perché anch'esse rientravano fra gli oggetti e le abitudini di quell'orizzonte esteso che si è chiamato quotidianità. La fantascienza vi entrava, in passato, non attraverso la tecnologia ma negli spazi e tempi della lettura. Per fare solo un esempio, già negli anni Trenta Walter Benjamin notava, parlando dell’uso di leggere e acquistare detective

stories a basso costo durante i viaggi, come una specifica ritualità collegasse tali

abitudini a quel simbolo per eccellenza della modernità che è il treno.41 Collegandosi

all'episodio, Scott McCraken ipotizza che la fruizione della narrativa pulp, attraverso l'esercizio combinato della fantasia e della routine, fosse in grado di mediare le tendenze centrifughe ed ansiogene che la società proiettava sul singolo.42 Sempre a proposito del

treno, ancora De Certeau diceva che nell'isolamento del vagone “tutto è sotto sorveglianza […] tutto è irregimentato”43 e tuttavia “fra l'immobilità dell'interno e quella

dell'esterno s'introduce, come un rasoio sottile che rovescia le loro stabilità, un qui pro

quo”.44 Non solo attraverso il finestrino può evadere il passeggero intrappolato, anche le

fantasticherie della lettura possono essere un'ottima via di fuga. Crocevia interessante: l'industrializzazione delle grandi macchine e del vapore partorirà quel primo scampolo di fantascienza che è il roman scientifique di Jules Verne, creando allo stesso tempo uno dei luoghi perfetti per la fruizione di questo genere. Verne stesso ha contribuito a cementare questo gusto facendo del “gesto continuo della reclusione” il suo “principio esistenziale”, per lui “l'immaginazione del viaggio corrisponde […] a una esplorazione della chiusura, e l'accordo di Verne e dell'infanzia non deriva da una mistica banale dell'avventura, ma al contrario da una felicità comune del finito, che si ritrova nella passione infantile per le capanne e le tende”.45

Queste enclave dominate dall'uomo resteranno sempre uno dei feticci del genere,

40 Herbert George Wells, La macchina del tempo, Mursia, Milano, 2010.

41 Walter Benjamin, Romanzi Gialli, in viaggio, in Rolf Tiedemann, Hermann Schweppenhäuser

e Enrico Ganni (a cura di), Walter Benjamin Opere complete, vol. IV, Scritti 1930 - 1931, Einaudi, Torino, 2002.

42 Scott McCracken, Pulp. Reading popular fiction, Manchester University Press, Manchester – New York, 1998, p. 3.

43 De Certeau, L'invenzione del quotidiano, cit., p. 169. 44 Ibid., p. 170.

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tramutandosi da sottomarini ad astronavi e da isole sperdute in pianeti inospitali, ma assieme alle frontiere da esplorare (dalle profondità marine a Venere, dal centro della terra a Marte) si amplieranno anche temi, problemi e stili. Contando su questi cambiamenti ho voluto intraprendere la mia ricerca, convinto che, se fin dai suoi albori la fantascienza aveva interrogato i problemi e le conseguenze degli sviluppi tecnici, allora lo stesso doveva essere avvenuto per l'avvento e il consolidamento della comunicazione massmediatica. Ancora una volta non posso trattenermi dal ripensare alle tracce e alle piste che Ginzburg suggeriva di percorrere; presto ho infatti realizzato che non sempre avrei potuto trovare, al centro di racconti ed editoriali, commenti espliciti sui media e la loro influenza. Necessitavo, per trovare elementi, non solo di uno scavo profondo, ma anche di uno sguardo attento ai dettagli ed ai bordi di intrecci e descrizioni. Dice lo stesso storico che “un conto è analizzare orme, astri, feci (ferine o umane), catarri, cornee, pulsazioni, campi di neve o ceneri di sigaretta; un altro è analizzare scritture o dipinti o discorsi. La distinzione tra natura (inanimata o vivente) e cultura è fondamentale”.46 Proprio per superare l'idea che i media nel passato

apparissero naturali quanto lo sembrano quelli attuali, ho voluto ascoltare ciò che una particolare cultura del tempo (puerile, irrilevante, ma anche sensibile) diceva riguardo loro e la loro influenza.

46 Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Gargani (a cura di), Crisi della ragione, cit., p. 85.

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PRIMA DELLA FANTASCIENZA:

LETTERATURA POPOLARE E FEUILLETON

“Straordinario, il potere evocativo della finzione narrativa, anche nei romanzetti popolari da quattro soldi. Non c'è da meravigliarsi che sia proibito in tutto il territorio del Reich; lo proibirei anch'io. Mi dispiace di averlo cominciato, ma ormai è troppo tardi. A questo punto devo finirlo”.47

Nei precedenti paragrafi si sono accostate, senza porsi troppe domande, le esperienze della “narrativa pulp” e della detective story alla fantascienza. In questo caso, tuttavia, la confusione è scusata da una effettiva parentela: fantascienza, noir (Giallo, come si dice entro i nostri confini) ma anche romanzo rosa sono spesso fatti discendere da un unico agglomerato denominato “romanzo popolare”. Esso, a sua volta, fa parte del più generico ambito della “letteratura popolare”, i cui inizi possono esser fatti risalire almeno all'invenzione della stampa a caratteri mobili e alla conseguente diffusione di bibbie e opuscoli prodotti “in serie” destinati ad una circolazione popolare.48 Spesso

durante il XIV ed XV secolo prodotti di tal genere venivano venduti nelle principali fiere, specialmente in quella lionese, dove in gran numero accorreva anche il popolo, tanto che si dice che il Gargantua di Rabelais vendette, in una sola volta, più della Bibbia in dieci anni.49 Venditori ambulanti più o meno invisi alle autorità smerciavano

poi almanacchi, romanzi cavallereschi e pamphlet propagandanti le idee della Riforma luterana, e questa attività sarebbe continuata fino all'Ottocento con le sue images

d'Èpinal.50

È stato osservato da Roger Chartier che questa prima invenzione di un mercato

47 Philip K. Dick, La svastica sul sole, Fanucci, Roma, 2007, p. 151. 48 Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 2013, p. 8.

49 Lucien Febvre e H. J. Martin, La nascita del libro, Vol. II, Laterza, Roma - Bari, 1977, p. 290.

50 Ibid., p. 301 - 304. Sulle Images d'Epinal, la loro circolazione ed il loro legame con l'iconografia bellica durante il primo conflitto mondiale si veda Jay Winter, Il lutto e la memoria, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 174 - 184. Curiosamente, stando a Winter, l'Ebreo errante era uno fra i soggetti più comuni di queste rappresentazioni.

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letterario popolare ebbe conseguenze formali e materiali non indifferenti:

“Guadagnare questa clientela popolare – nel doppio senso del termine: perché numerosa, e perché formata dai lettori più umili […] - presuppone una serie di condizioni: una formula editoriale che abbassi i costi di fabbricazione, e perciò il prezzo di vendita; la distribuzione attraverso la rete degli ambulanti […] la selezione di testi o di generi capaci di attirare il maggior numero possibile di lettori e, fra questi, i meno agiati”.51

Lungo questa direttrice interpretativa anche Umberto Eco ha notato come queste stampe popolari siano nate effimere come effimeri saranno i prodotti culturali di massa nella contemporaneità e che “del prodotto di massa hanno poi la connotazione primaria: offrono sentimenti e passioni, amore e morte già confezionati quanto all'effetto che debbono conseguire; i titoli di queste storie contengono già l'imbonimento pubblicitario e il giudizio esplicito sul fatto preannunciato”.52 La scelta di un pubblico si attua

insomma attraverso la modellazione di alcune caratteristiche contenutistiche e strutturali che ci possono aiutare a capire il motivo per cui fantascienza e generi affini sono posti all'interno di questa di discendenza: sono espressioni di una letteratura popolare collocata però in una società definitivamente industrializzata e massificata.

Il semiologo italiano, non a caso, ha dedicato alcune formidabili pagine alla fantascienza, auspicandosi che essa fosse oggetto di un diffuso interesse critico, poiché a suo modo di vedere libri e racconti di questo genere sono “manuali di devozione”53 per

l'uomo della civiltà industriale. Questo riferimento alla cultura medioevale è giustificato dal fatto che in essi l'autore riscontra “l'esistenza di un repertorio figurale istituzionalizzato […] per cui ogni storia acquista immediatamente il valore di un messaggio che va oltre la sequenza apparente dei fatti”.54

Mancando degli strumenti adatti non ho potuto approfondire il lavoro in tal senso, ma in questi pochi paragrafi si trovano almeno due delle fondamentali convinzioni che lo animano. Eco infatti, con rara qualità di sintesi, riesce a mettere in luce come la fantascienza, pur rimanendo un prodotto industriale e quindi “letteratura di consumo [in

51 Roger Chartier, Letture e lettori «popolari» dal Rinascimento al Settecento, in Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma - Bari, 1995, p. 321.

52 Eco, Apocalittici e integrati, cit., p. 8. 53 Ibid., p. 374.

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corsivo nel testo]”, sia “termometro delle tematiche in discussione” grazie al mantenimento di una certa “tensione utopistica”.55 Se il tempo fornisce alla storiografia

quel distacco che alla critica non è concesso, si può allora sospendere il giudizio sulla qualità delle opere per concentrarsi sul loro posizionamento storico. Per fare ciò bisognerà prima almeno interrogarsi su cosa siano più specificatamente la letteratura popolare e quella “di consumo”.

Romanzo popolare, paraletteratura

e letteratura di consumo

Vari termini sono stati usati per descrivere questo tipo di produzione letteraria: “paraletteratura”, “letteratura di massa” e, appunto, “letteratura di consumo”. Tuttavia, benché i nomi descrivano lo stesso oggetto, gli approcci attraverso i quali si tenta di avvicinarlo sono in parte differenti e ne sottolineano, di volta in volta, alcuni aspetti specifici, rendendo utile la ricognizione di alcune posizioni, al fine di giungere ad una visione d'insieme.

Una panoramica di questo genere non può prescindere, a mio avviso, da un riferimento al pensiero di Antonio Gramsci, che tanto ha dato alle discipline antropologiche e allo studio della cultura popolare, in Italia come all'estero. Nei quaderni si fornisce una definizione per così dire “per contrasto” di che cosa sia letteratura popolare, partendo proprio dalla relativa assenza di questa esperienza all'interno del panorama nazionale. Ciò è dovuto, secondo Gramsci, alla mancanza di “una identità di concezione del mondo tra «scrittori» e «popolo»; cioè i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori, né gli scrittori hanno una funzione «educatrice» nazionale, cioè non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri”.56 È letteratura popolare,

insomma, qualcosa che, pur prodotto da intellettuali e da scrittori di mestiere, porta in sé sentimenti, gusti e problematiche care a larghi strati della popolazione. Potremmo dirla letteratura capace di assumere in sé tratti della cultura popolare o del folklore nel senso gramsciano del termine, cioè “«concezione del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione [...] con le concezioni del mondo «ufficiali»”.57

55 Ibid., p. 372.

56 Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori riuniti, Roma, 1971, p. 136. 57 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Vol. III, Einaudi, Torino, 2007, p. 2311.

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In queste pagine egli pensa specialmente al cosiddetto romanzo d'appendice, che tanto successo aveva avuto nella Francia del XIX secolo e tanto ancora ne riscuoteva, durante gli anni '30, nel nostro paese. Il vocabolo designa quella specifica configurazione di romanzo a puntate che comparve in Francia nel 1836 e che prese il nome di feuilleton poiché pubblicato nella parte bassa dei fogli (feuillet) di un periodico o in apposite sezioni, venendosi a trovare, per l'appunto, “in appendice”. Il merito di quest'invenzione va a due giornali, La Presse e Le Siècle, che, desiderosi di abbattere il costo dell'abbonamento, escogitarono uno stratagemma per incrementare le vendite, imitando quanto in precedenza sperimentato dal Journal des Débats ad inizio secolo.58

La narrativa d'appendice nasce insomma dall'intuizione che essa possa fidelizzare il lettore ai quotidiani, offrendogli un intrattenimento che con la forza dell'intreccio lo stimoli ad acquistarne con continuità le copie. “Il romanzo d'appendice è un mezzo per diffondersi tra le classi popolari […] ciò che significa successo politico e successo finanziario. Perciò il giornale cerca quel romanzo, quel tipo di romanzo che piace «certamente» al popolo, che assicura una clientela «continuativa»”.59 Di questo

particolare intrattenimento, lo ripetiamo, a puntate, quindi serializzato, Antonia Arslan dice che: “negli anni di Luigi Filippo incatenò tutta la nazione, dai ministri ai portinai agli analfabeti […] alle avventure dei personaggi di Eugène Sue e di Alexandre Dumas”.60 Si ricorderanno allora fra questi non solo Il conte di Montecristo, I misteri di Parigi e L'ebreo errante, dei già citati Dumas e Sue, ma anche gli sforzi creativi di un

Honoré de Balzac o del meno noto Ponson du Terrail con il suo Rocambole. Contemporaneamente, questo tipo di fiction popolare prese piede anche nell'Inghilterra pre-vittoriana grazie ai Pickwick Papers di Charles Dickens61 per poi diffondersi,

attorno al 1850, in Italia.

La sua introduzione nello stivale si deve all'autore de L'ebreo di Verona, il gesuita Antonio Bresciani, che intuì il successo di pubblico che un romanzo popolare avrebbe potuto garantire a La Civiltà Cattolica, giornale di recente fondazione. Non dimentichiamo, infatti che “è proprio la fusione della spinta falsamente culturale con quella autenticamente commerciale a dare al feuilleton il suo carattere inconfondibile”.62

58 Umberto Eco, L'industria aristotelica, in Umberto Eco e Cesare Sughi (a cura di), Cent'anni dopo. Il

ritorno dell'intreccio. Almanacco Bompiani 1972, Bompiani, Milano, 1972, p. 13.

59 Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 134.

60 Antonia Arslan Veronese, Dame, droga e galline. Romanzo popolare e romanzo di consumo tra 800 e

900, Cleup, Padova, 1977, p. 4.

61 Ibid., p. 8.

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Tuttavia in padre Bresciani non dovette mancare un interesse didascalico; dice egli stesso, al momento dell'assegnazione dei ruoli da ricoprire nel periodico: “voleste ch'io assumessi quella d'ammaestrar dilettando colla vivacità dello stile, la gaiezza delle immagini, la varietà de' racconti, la bizzarria degli intrecci e il ghiotto delle facezie e de' sali che soglion essere l'esca ch'attrae la gioventù”.63

Nel 1852 il primo “fenomeno” letterario dal notevole seguito è La cieca di

Sorrento di Francesco Mastriani, ma è solo tra gli anni Settanta ed Ottanta di quel

secolo che si assiste all'emergere di due figure di scrittori popolarissime quali Carolina Invernizio ed Emilio Salgari. Al loro fianco siedono autori inaspettati, che danno conto però di come in Italia (ma non solo) il romanzo d'appendice fosse sensibile alle questioni politiche: nel 1870 Garibaldi pubblica il suo anticlericale Clelia o il governo

dei preti e questo carattere di avversità al potere religioso tornerà, nel 1910, in Claudia Particella l'amante del cardinale, di un insospettabile appendicista noto come Benito

Mussolini.64

Tornando a Gramsci, va notata l'acutezza di non limitarsi ad includere nella categoria di letteratura popolare il solo Dumas o “l'onesta gallina della letteratura popolare”,65 com'è chiamata l'Invernizio; né di soffermarsi esclusivamente sulla

produzione in lingua francese. Egli infatti compie una catalogazione dei tipi del romanzo popolare capace di spaziare dal romanzo poliziesco a quello “tenebroso” fino a quello scientifico, osservando come la coesistenza e la varia articolazione di questi modi dimostri che “esistono nel popolo diversi strati culturali, diverse «masse di sentimenti» prevalenti nell'uno o nell'altro strato, diversi «modelli di eroi» popolari”.66 Non è

superfluo, a fini di questa ricerca, evidenziare come in questo contesto vi siano inoltre “aspetti nazionali”67 che influenzano il dato contenutistico dei romanzi e come sia

proprio questo uno dei caratteri che più interessa Gramsci.

Nel tentare infatti di fornire una spiegazione del consumo sempre maggiore che del feuilleton viene fatto, l'autore non si distacca molto dalle osservazioni sul valore “consolatorio” della fiction di massa da noi precedentemente esposte. Oggi, dice

63 La citazione viene dalla lettera che il Bresciani prepone alla seconda edizione dell'Ebreo di Verona e sono riportate in Michele Straniero, La veridica storia di un abate forcaiolo, in Eco e Sughi (a cura di), Cent'anni dopo, cit., p. 178.

64 Angela Bianchini, Breve storia del feuilleton, in Eco e Sughi (a cura di), Cent'anni dopo, cit., pp. 12 - 17.

65 Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., nota a p. 107. 66 Ibid., pp. 143 - 144.

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Gramsci, “il gran numero degli uomini è tormentato proprio dall'ossessione della non «prevedibilità» del domani, dalla precarietà della propria vita quotidiana, cioè da un eccesso di «avventure» probabili”.68 Ecco allora che “occorre analizzare quale particolare illusione dà al popolo il romanzo d'appendice, e come questa illusione

cambi coi periodi storico-politici”.69

Gli interessi tematici del feuilleton cambiano infatti nel tempo e quando, nel 1865, fa la sua comparsa l'espressione “romanzo popolare”, temi e motivi stanno già in parte mutando (contrariamente invece a caratteri e meccanismi narrativi, che rimangono invariati) secondo una periodizzazione che, per quanto schematica e riduttiva, può essere indicativa degli umori del pubblico. Secondo Jean Tortel si distinguerebbero allora una prima fase, corrispondente a quella della nascita del romanzo d'appendice, definibile come eroica o romantica, in cui “il romanzo popolare è tutt'uno con la stampa a grande tiratura”, seguita poi da una seconda che si chiama “borghese” e da una terza, ormai novecentesca, nuovamente bagnata di eroico lirismo. Per semplicistica che possa sembrare, questa divisione in periodi dà conto da un lato del legame che intercorre fra contesto produttivo e dato contenutistico, dall'altro di quella “natura squisitamente neutra e disponibile”70 che la forma popolare del romanzo possiede a detta della Arslan.

Se infatti il primo periodo della produzione francofona è improntato ad un eroismo che per quanto sensazionalistico adombra spesso fermenti progressisti e di denuncia sociale,71 il secondo è “pieno d'intenti propagandistici in favore delle ideologie trionfanti

(colonialismo, antisemitismo, nazionalismo), ma è prima di tutto il romanzo degli infortuni, della virtù che sarà a lungo perseguitata ma sempre trionfante”. Questa incarnazione, infatti, ha il suo apogeo “intorno agli anni 1880-1890 nell'atmosfera Panama-Torre Eifel: crack finanziari e grandi realizzazioni meccaniche”.72

Questo carattere neutro dei meccanismi narrativi, da riempire a piacimento, va di pari passo con due dei dati fondamentali del romanzo cosiddetto popolare e ci aiuta anche ad intendere secondo quale criterio esso possa venire detto “di consumo” e “paraletterario”. Ripartendo dalla Poetica di Aristotele, Eco ipotizza che il filosofo

68 Ibid., p. 154. 69 Ibid., p. 156.

70 Arslan, Dame, droga e galline, cit., p. 9.

71 Yves Olivier-Martin, Sociologia del romanzo popolare, in Noel Arnaud, Francis Lacassin e Jean Tortel (a cura di), La paraletteratura. Il melodramma, il romanzo popolare, il fotoromanzo, il

romanzo poliziesco, il fumetto, Liguori, Napoli, 1977, pp. 143 - sgg.

72 Jean Tortel, Il romanzo popolare, in Arnaud, Lacassin e Tortel (a cura di), La paraletteratura, cit., pp. 73 - 74.

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indichi due strade, a quel tessitore di situazioni che è lo scrittore. Da una parte uno scioglimento dell'intreccio che, pur catartico, rimane problematico e dall'altra una trama che “risolvendo i nodi, si consola e ci consola. Tutto finisce esattamente come si desiderava che finisse”.73 Ancora, “questa scelta che il modello aristotelico apre al

narratore, segna la differenza tra il romanzo problematico e il romanzo detto «popolare», che è tale non perché sia comprensibile dal popolo ma perché, […] il costruttore di intrecci deve sapere ciò che il pubblico si attende”.74 Ritorna insomma il

tema di una scrittura che assolve ad una funzione consolatoria. È infatti vero che buona parte degli studiosi di cui ci occupiamo hanno, giustamente o ingiustamente non sta a noi deciderlo, interpretato i fenomeni letterari che ci interessano come legati ad un anelito al godimento e allo svago. “La letteratura popolare quindi sarà, come prima ineliminabile definizione, una letteratura per farsi leggere, che deve gratificare di un piacere particolare, di cui il lettore conosce già il «gusto» di base”.75 Su questo registro

anche Tortel, che usa invece il termine paraletteratura, e che similmente dice “tutta questa paraletteratura ha il carattere comune di affascinare il suo lettore (o spettatore) e infatti questi ci si immerge proprio per questo motivo: vi ricerca un'alienazione che trova automaticamente”76. E pure Giuseppe Petronio, che distingue fra letteratura

popolare (in senso gramsciano) e altre connotazioni, sostiene che “col termine «letteratura di consumo» si intenderà l'insieme delle opere composte in vista di un pubblico non di élite; […] miranti non a dare, con moduli espressivi fortemente personalizzati, una visione propria del mondo, ma a «variare», nell'ambito di una poetica già costituita, la visione del mondo accreditata in un determinato gruppo o ambiente sociale”.77 Questo principio di piacere si rispecchia nell'adozione, all'interno

della narrazione, di cliché, atmosfere stereotipate e situazioni prevedibili, il cui riscontro è (a sua volta) quasi un topos della riflessione sul feuilleton, rendendo il termine stesso sinonimo di banalità.

Questa natura formulare ha almeno due motivi, entrambi interessantissimi: ad un livello potremmo dire estetico si situa la funzione gratificante della ripetitività, mentre

73 Eco e Sughi (a cura di), Cent'anni dopo, cit., p. 8. 74 Ivi.

75 Arslan, Dame, droga e galline, cit., p. 7.

76 Jean Tortel, Il romanzo popolare, in Arnaud, Lacassin e Tortel (a cura di), La paraletteratura, cit., p. 57.

77 Giuseppe Petronio, Dieci tesi sulla letteratura di consumo e sulla letteratura di massa, in Ulrich Schulz-Buschhaus e Giuseppe Petronio (a cura di), “Trivialliteratur?” Letterature di massa e di

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ad un livello formale tale ricorsività di soluzioni e stratagemmi si lega alle necessità del contesto produttivo. E l'interesse lo si trova proprio all'intersezione di questi due ordini di ragioni, poiché questo nodo ci restituisce, nuovamente, l'impressione di un fenomeno culturale che si avvia ad assumere caratteri massificati, potremmo dire “i primi accenni di una produzione letteraria di stampo industriale (standardizzazione, produzione in serie e suddivisione del lavoro)”.78 Sul piano formale la ciclicità di personaggi e eventi

consente anche di creare quel ritmo a base di suspense che cattura i lettori ed è l'ingranaggio forse centrale della macchina serializzata.

Proviamo ad immaginare uno scorcio di questo marchingegno, come in quei disegni a sezione che si ritrovano nei libri e nelle enciclopedie per spiegare il motore a scoppio. Si è già detto dell'innesco: Girardin e Dutacq dimezzano il costo degli abbonamenti, rendendo l'acquisto di quotidiani meno proibitivo (anche se pur sempre affare non per tutti), e ingenerando la stringente necessità di aumentare la tiratura e di attirare introiti pubblicitari. Il romanzo a puntate assolve ad entrambi questi richiami. Gli autori ed i loro commissionari si trovano però così a dover affrontare una doppia coazione: quella dei gusti dei lettori e quella degli interessi degli inserzionisti. Lo stesso

feuilleton ha bisogno di essere pubblicizzato, sia all'interno del giornale stesso sia

attraverso affissioni murali e quant'altro. Una volta catturati i lettori, infatti, è fondamentali non lasciarseli più scappare, puntata dopo puntata, saga dopo saga, romanzo dopo romanzo. La realizzazione secondo cui l'ampliarsi del pubblico genera una sorta di dipendenza da esso, che può venir risolta fornendogli intrattenimento e quindi godimento e quindi, di rimando, dipendenza ed assuefazione, ha ancora del misterioso. Un mistero che è ingrediente costitutivo dei Mystères de Paris, grande successo di Eugene Sue del 1842 che spiazza non solo per l'ambientazione notturna, dal sapore gotico (ed entrerebbe qui in gioco la questione dei debiti che il romanzo popolare ha nei confronti delle invenzioni del Settecento inglese), ma anche per il suo mettere in scena personaggi veramente popolari, diremmo anche proletari, le cui storie modeste oppure di vera miseria sono esercizio di critica sociale, amplificata dalle dirette ipotesi di riforma che Sue avanza, soprattutto riguardo il tema delle prigioni e, va da sé, della giustizia. Questi personaggi parrebbero documentare un insieme di lettori in grado di riconoscersi (regola base del compiacimento) in quanto scritto sulle pagine; eppure

78 Hans-Jörg Neuschäfer, Eugène Sue e il romanzo d'appendice. Sulla storia di un genere letterario

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sappiamo che difficilmente, prima che il Petit Journal introduca un sistema di vendita giornaliera a cinque centesimi, il quotidiano poteva veramente raggiungere le grandi masse: proibitivo il costo, diffusa ma non abbastanza l'alfabetizzazione. Per questo: “si può concludere che il romanzo d'appendice trovò la sua riserva di lettori nella piccola borghesia, ma che esso, per lo meno all'inizio della sua storia, doveva tener conto del pubblico benestante dello strato medio-alto”.79 In questo caso il mistero trova parziale

soluzione soffermandosi su quella che è la figura eroica della fatica di Sue: Rodolphe, vendicatore e giustiziere virtuoso la cui virtù dipende dalle nobili origini, come testimonia il vero nome all'aroma di principato tedesco, Rudolf Von Gerolstein. È infatti il nobile in incognito a rimediare ai mali sociali e ne consegue che “la vera virtù dei poveri, presente in tutto il romanzo, è perciò proprio quella della rassegnazione”.80

Non sfugga il dato della mascherata nobiltà del salvatore, che fa il paio con la nobiltà “dimenticata” della salvata Fleur de Marie, figlia del protagonista accidentalmente dispersa e caduta in disgrazia, alla quale non resta che essere reintegrata nella posizione societaria che le spetta dalle gesta del ritrovato padre. Siamo qui al cospetto di una delle più tipiche soluzioni all'interno del repertorio dello scrittore di feuilleton: l'agnizione o riconoscimento. Per la precisione, si tratta della modalità di agnizione che Eco definisce “da scemo calunniato”,81 poiché, mentre il lettore è già

ampiamente cosciente della possibile rivelazione identitaria grazie alla familiarità con le strategie degli intrecci popolari, il protagonista rimane del tutto ignaro di questa evenienza, incasellato com'è in un universo finzionale delle cui regole è ingrediente fondamentale ma inconsapevole. Anche in questo caso il meccanismo dell'agnizione è utile poiché prevedibile e quindi consolatorio per il lettore. Non solo, c'è nel camuffamento delle nobili origini (o nel temporaneo declassamento da questa posizione) un potenziale di intrattenimento che già Gramsci, occupandosi del Guerin

Meschino, aveva isolato. Il successo della storia di Guerino, principe diventato schiavo

e quindi “meschino” per mera sfortuna che riesce, solitario, a rivalersi, sarebbe dovuto alla presenza “nel popolo più primitivo” di un “ossequio tradizionale alla nascita che diventa «affettuoso» quando la sfortuna colpisce l'eroe e diventa entusiasmo quando l'eroe riconquista, contro la sfortuna, la sua posizione sociale.”82 Si capisce insomma

79 Ibid., p. 219. 80 Ibid., p. 222.

81 Umberto Eco, L'agnizione: appunti per una tipologia del riconoscimento, in Id., Il superuomo di

massa, Milano, Bompiani, 2015, p. 32.

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