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Degli effetti dei mass media si è parlato molto, come molto in passato ci si è interrogati (con somma preoccupazione o con sincera speranza) sulle ricadute della lettura. Molte di queste valutazioni, lo si sarà capito, dipendono da un più ampio giudizio sulla cultura di massa, i suoi limiti e le sue conseguenze, e questo giudizio in fondo è quello che si articola attorno al concetto di industria culturale, la sua accettazione o il suo rifiuto. Si tratta in qualche modo delle posizioni che Eco identifica come caratteristiche degli apocalittici da un lato e degli integrati dall'altro.

Una dicotomia che parte da lontano, da quando la macchina, l'industria e la divisione del lavoro si sono affacciate sul mondo cambiandone per sempre i tratti e da quando esse hanno iniziato ad estendere la loro influenza: “come per la produzione materiale, così per quella spirituale”.110 Da allora, a essere industrializzata e

meccanizzata per prima è la letteratura (abbiamo visto, brevemente, come), ma la stessa sorte tocca all'arte e alla cultura tutta, non più unica ma ora prodotta in serie, inautentica.

“Comincia l'architettura come costruzione tecnica. Segue la riproduzione della natura nella fotografia. La creazione fantastica si prepara a diventare pratica come grafica pubblicitaria. La letteratura si sottomette al montaggio nel

feuilleton. Tutti questi prodotti sono in procinto di trasferirsi

come merci sul mercato. Ma esitano ancora sulla soglia”.111

106 Ibid., pp. 58 - 59. 107 Ibid., p. 60. 108 Ibid., p. 62. 109 Ibid., p. 65.

110 Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, Einaudi, Torino, 1949, p. 99. 111 Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo, in Id., Angelus Novus, cit., p. 160.

È l'epoca dei Poe e dei Baudelaire, che come Sue vedono trasformarsi la città e apparire le folle e con loro la possibilità delle grandi tirature dei giornali. Da quando nel 1814 il Times stampa con la forza del vapore l'opinione pubblica si fa via via oggetto più tangibile e con essa assume consistenza materiale sia lo spettro del comunismo sia il degenerato gusto per l'intrattenimento. Il The New York Sun, per esempio, con le sue notizie orientate ad un localismo di facile presa, apre all'epoca delle grandi vendite che sarà caratteristica del new journalism dei magnati della stampa come Pulitzer e Hearst. A partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento, in un mondo ormai percorso dai collegamenti telegrafici, diventano veramente rilevanti gli investimenti pubblicitari, almeno negli Stati Uniti, e si affacciano sul nascente mercato della produzione e riproduzione musicale, fotografica e cinematografica aziende di grandi dimensioni come

General Electric, Siemens, Kodak e Pathè.

Questa espansione di fine XIX secolo porta con sé anche un cambiamento all'interno del pubblico, che si allarga fino ad includere ampie frange di popolazione semiletterata e quindi sensibile a svaghi, come il nascente cinema muto e il fumetto, basati sull'uso dell'immagine e del repertorio figurale. Fanno la loro comparsa allora periodici incentrati sull'impatto grafico e sul sensazionalismo, dando sempre più forza all'idea aristocratica di un definitivo scadimento della cultura. È il primo passo di un processo che, iniziato a metà '800 in Francia, prosegue nel secolo successivo e giunge a maturazione fra le due guerre in Europa e soprattutto negli Stati Uniti.

La radio, che prese piede in Inghilterra e al di là dell'Atlantico negli anni Venti secondo modelli contrapposti, aveva destato gli interessi della Marina britannica e di quella statunitense fin dagli albori del '900, quando la sua tecnologia si era sviluppata a partire dalle intuizioni di Guglielmo Marconi e Lee de Forest. La guerra ne favorì lo sviluppo tecnico tanto quanto ne stimolò un controllo più rigido da parte degli apparati statali, non diversamente da quanto accadde per la stampa, che si ritrovò ad essere strumento principe della propaganda: un conflitto di massa esigeva mezzi di comunicazione di massa, sia per il controllo del “fronte interno” che per il mantenimento del morale dei soldati e per fiaccare quello degli avversari. Non per niente nel 1918 uno dei press barons, Lord Northcliffe, fu nominato Direttore della propaganda nei paesi nemici per conto di Sua Maestà.

Questa dinamica definita da Peppino Ortoleva di “razionalizzazione” ebbe anche conseguenze economiche: “Se nei regimi totalitari il controllo e il coordinamento dei

media era un imperativo politico, nelle democrazie la concentrazione e la razionalizzazione del settore furono effetto dei processi economici […] intorno ai media si vennero così a formare apparati dotati di grosse risorse e capaci di coordinare il lavoro di migliaia di persone”. Fu la definitiva industrializzazione del settore mediatico, e, mentre D.W. Griffith dava il via alla stagione del cinema made in USA, la radio tentò di aprirsi la via all'interno delle abitazioni private. Nel 1919 e nel 1922 furono fondate, rispettivamente, la RCA (Radio Corporation of America) e la BBC (British Broadcasting Company) che ben simboleggiano il dualismo di concezioni che si trasmetterà anche alla televisione: un modello commerciale organizzato attorno al

networking negli Stati Uniti ed un sistema incentrato sul servizio pubblico in Gran

Bretagna e paesi europei.

Si è accennato ai due paesi che in qualche modo hanno fatto da traino a questi sviluppi, ma non si può certo ignorare l'importanza che la radio ha rivestito per regimi autoritari quali ad esempio quello italiano e tedesco, dove certamente il rapporto tra pubblico e mezzi di comunicazione assunse caratteri peculiari, anche se poi superati. Raggiunta capillarmente nella propria abitazione dalla suadente voce dell'imbonitore radiofonico, la massa non fu più soltanto la sconfinata e informe moltitudine che ascoltava la voce del potere, ma diventò anche insieme di individui atomizzati, senza volto perché indistinti. Soprattutto oltreoceano l'orizzonte domestico venne visto come “colonizzato” dall'intrusività dei consigli per gli acquisti e dei messaggi politici e così, per misurare l'effetto degli stimoli, nacquero l'istituto Gallup e la figura del sondaggista: come nel commercio, così nell'espressione elettorale erano il numero ed il conto quantitativo a diventare fondamentali.

Le trasmissioni televisive, iniziate in via sperimentale in Germania nel 1935 e divenute stabili negli Stati Uniti del dopoguerra, si svilupparono in continuità con quanto detto fin ora, saldandosi all'espansione del consumo privato e alla produzione di contenuti in grado di rivolgersi ad un pubblico il più ampio possibile. Il nuovo mezzo a tubo catodico, a detta di Ortoleva:

“pratica fin dalle origini quello che si può chiamare un universalismo del consumo: si indirizza cioè all'intero corpo sociale, inclusi settori generalmente tenuti ai margini della sfera pubblica […] trattandoli tutti alla pari, come potenziali

consumatori”.112

È proprio nel contesto di questo processo, che si approfondisce durante tutto il decennio successivo, che due intellettuali tedeschi esuli negli States coniano il celebre termine di “industria culturale”. Ci si riferisce ovviamente a Max Horkheimer e Theodor Adorno, e al titolo di un capitolo del loro Dialettica dell'illuminismo, scritto fra il 1941 e 1944 e poi pubblicato ad Amsterdam nel 1947. Trapiantati all'interno della vorticosa società americana, i due studiosi cercano di descrivere la sistemazione che assume la cultura all'interno di quella dialettica fra pensiero e dominio che la ratio dei lumi ci lascia in eredità. Per loro “la civiltà attuale conferisce a tutti i suoi prodotti un'aria di somiglianza. Il film, la radio e i settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema”113 e proprio in quanto “prodotti” essi partecipano del destino del pensiero, che

“si reifica in un processo automatico che si svolge per contro proprio, gareggiando con la macchina che esso stesso produce perché lo possa finalmente sostituire”.114 Divenuti

merce “non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità che non sono altro che affari serve loro da ideologia”.115 L'industria culturale insomma “può vantarsi di avere

realizzato […] la trasposizione […] dell'arte nella sfera del consumo”.116

La ripetitività dell'espressione artistica standardizzata si giustifica attraverso il gusto dei consumatori dei quali si erge, ideologicamente, a benefattrice. Risucchiata nella riproducibilità tecnica l'arte scompare poiché scompaiono le reali distinzioni al suo interno, espunte attraverso il ricorso a cliché “che sono interamente definiti […] dallo scopo che assolvono nello schema complessivo. Confermarlo, mentre lo compongono è tutta la loro vitalità”.117 Così facendo l'industria culturale assimila anche forme e modelli

nobili alla stregua di quanto fatto con oppositori e possibili avversarsi, riciclati come innocui outsider risolti nelle maglie della sua sistematicità. Lo strumento cardine di questa neutralizzazione, dello stile come del dilettantismo, risiede nell'“amusement”, la capacità di divertire e intrattenere lo spettatore spinto ad adeguarsi, anche nel tempo

112 Le citazioni provengono da Peppino Ortoleva, Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale

nel mondo contemporaneo, Nuova Pratiche Editrice, Parma, 1995, p. 87 e p. 98. Il breve riassunto

storico è invece basato su: Giovanbattista Fatelli, Sociologia dell'industria culturale, Carocci, Roma, 2007; Asa Brigs e Peter Burke, Storia sociale del media. Da Gutemberg a Internet, Il mulino, Bologna, 2002; Gorman e McLean, Media e società nel mondo contemporaneo, cit., e sul già citato libro di Ortoleva.

113 Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino, 2010, p. 126. 114 Ibid., p. 33.

115 Ibid., p. 127. 116 Ibid., p. 143. 117 Ibid., p. 131.

libero, al ritmo e alla disciplina del processo lavorativo, sia esso impiegatizio o operaio. È uno svago la cui obbligatorietà (d'altronde nessun prodotto gli sfugge) si traduce in manipolazione: “l'interiorità […] è già sempre stata […] soggetta ai padroni esterni. l'industria culturale finisce per ridurla a menzogna palese”.118 Manipolazione ancor più

grave perché funzionale al perpetrarsi dello stato presente di cose: “l'affinità originaria del mondo degli affari e di quello dell'amusement si rivela nel significato proprio di quest'ultimo: che non è altro che l'apologia della società. Divertirsi significa essere d'accordo”.119 Concentrandosi sui quiz a premi, i film e la musica jazz, Adorno e

Horkheimer pronunciano insomma nei confronti della cultura di massa una doppia condanna: essa è non solo il sostegno ideologico al modello del capitalismo consumistico trionfante, ma ne rinnova anche le basi materiali, promuovendo una forzata omologazione nelle vite degli uomini.

Come si è già potuto osservare, le riserve e le analisi avanzate dai due studiosi provenienti dall'Institut für Sozialforschung non sorgono dal nulla e anzi riprendono in parte alcuni dei timori che già avevano caratterizzato la riflessione riguardo il meccanizzarsi della vita e dell'arte. In una panoramica del genere non si può tralasciare di citare quantomeno L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin, apparso nel 1936 per l'appunto sulla «Zeitschrift für Sozialforschung» e poi passato per altre stesure fino al 1939. In questo saggio l'autore tedesco suicida nel 1940 concepisce la celebre tesi secondo cui: “ciò che viene meno nell'epoca della riproducibilità tecnica è l'«aura» dell'opera d'arte”,120 sarebbe a dire l'hic et nunc

dell'originale artistico che ne garantiva l'unicità poiché legava l'opera ad un contesto di fruizione e produzione ben preciso. Le tecniche che dalla stampa alla fotografia, passando per la litografia, consentono invece una copia veloce e precisa dell'arte vengono incontro al fruitore “nella sua particolare situazione”,121 rendendo il prodotto

sempre attuale. In questo modo si perde il legame che l'arte intratteneva potremmo dire con la ritualità e giocoforza si rimodula anche “il rapporto delle masse con l'arte”,122 che

però non si modifica, secondo Benjamin, in senso necessariamente deteriore e pessimista, anzi. Per il nostro, quella “secondo cui le masse cercano soltanto distrazione,

118 Ibid., p. 153. 119 Ibid., p. 154.

120 Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2000, p. 23.

121 Ivi. 122 Ibid., p. 38.

mentre l'arte esige dall'osservatore raccoglimento” è “un'accusa vecchia”, luogo comune.123 Sul terreno dell'uso e della ricezione dell'arte di massa si gioca infatti la

partita che Benjamin sembra in fondo ritenere fondamentale, ovvero quella della politicizzazione dell'arte in funziona antifascista; fascismo che invece procede estetizzando la politica. Assistendo alla violenza perpetrata dall'apparecchiatura tecnica asservita al regime Benjamin ripone nell'arte massificata la speranza di una risposta alla barbarie, speme che al contrario Adorno e Horkheimer già vedono soffocata nell'epoca di quello che si è tentati di chiamare “tardo capitalismo”.124

La felice formulazione data dagli intellettuali francofortesi otterrà risonanza tale da divenire quasi iconica: ad esempio l'edizione italiana di L'esprit du temps, uno studio pubblicato su questo tema da Edgar Morin nel 1962, è intitolata L'industria culturale, nonostante l'autore francese non solo si serva raramente del termine, ma nemmeno citi in bibliografia La dialettica dell'illuminismo, pur includendo, invece, Horkheimer, Löwenthal, Kracauer e Renato Solmi. In effetti, nonostante l'interesse di Morin si rivolga al “prodotto industriale strettamente determinato dal suo carattere industriale da una parte e dal suo carattere di consumo quotidiano dall'altra”125, egli non vuole ridursi

ad opporre aprioristicamente alla cultura di massa una presunta cultura colta e spiritualmente raffinata. Ciò non gli impedisce di toccare molti dei punti già portati sul banco degli imputati (e contemporaneamente su quelli dell'accademia) da Adorno, Horkheimer e Benjamin, come la tendenza al sincretismo, all'omogeneizzazione, all'happy end, il riciclo di matrici folcloriche, la perdita del “hic et nunc”, l'assolutizzazione di valori come il possesso materiale e la giovinezza. Simile è anche l'interpretazione del nuovo svago, chiamato “loisir”, un nuovo tipo di tempo libero, sottratto alla ricorrenza festiva ed iscritto invece nella scansione lavorativa, della quale si costruisce come negazione e insieme celebrazione dedicata al consumo. È interessante notare che Morin traccia una parentela stretta fra romanzo popolare e cultura di massa. Quest'ultima infatti, “erede di un movimento iniziato con la stampa”,126 riprenderebbe il percorso di contaminazione fra immaginario fantastico

popolare e realismo borghese iniziato dal feuilleton, approfondendone e adattandone temi e gusti al nuovo mondo tecnologizzato e cosmopolita. Al culmine di questa

123 Ibid. p. 44.

124 Theodor Adorno, Tardo capitalismo o società industriale?, in Id., Scritti sociologici, Einaudi, Torino, 1976, pp. 314 - 330.

125 Edgar Morin, L'industria culturale. Saggio sulla cultura di massa, Il mulino, Bologna, 1969, p. 11. 126 Ibid., p.53.

traiettoria si pongono ovviamente radio e televisione, che rendono la cultura di massa “onnipresente […] dappertutto per tutti” tanto che essa “accompagna anche l'uomo solo, che porta il transistor a tracolla”.127 Qui, sul farsi degli anni Sessanta, l'esposizione di

Morin si ferma per necessità. Sarà un altro studioso francese, questa volta sul finire del decennio, a riprendere in senso critico la riflessione sui mass media e sul ruolo che occupavano, insieme al loro portato culturale, nella società.

Ci riferiamo ovviamente a quel testo di culto che è La società dello spettacolo di Guy Debord, saggio oracolare per paragrafi che, partendo dalla fantasmagoria delle merci di Marx, sosteneva che “tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di

spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una

rappresentazione”.128 Quello che Debord coglieva, senza definirlo con rigorosità, era che

il meccanismo dello spettacolo (quindi in sé dell'intrattenimento massificato) stava transitando dai mezzi tecnologici alla vita vissuta: “la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l'essenza e il sostegno della società esistente”.129 La società dello spettacolo dunque procede verso una sostituzione

definitiva del reale con l'illusorio, promette qualcosa che non solo non fornirà (come poteva essere per Adorno e Horkheimer) ma che ha provveduto a far scomparire. Ciò vale anche per il divenire temporale: “lo spettacolo, come organizzazione sociale presente della paralisi della storia e della memoria, dell'abbandono della storia eretto sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo”.130 In quanto tale lo

spettacolo è allora un'ideologia totalizzante che va combattuta, “è materialmente «l'espressione della separazione e dell'estraniarsi dell'uomo all'uomo»”.131

Non ci si spingerà forse troppo in là se si nota che alcune pagine di Debord hanno una parentela stretta con alcune di quelle riflessioni, più vicine a noi a partire dagli anni '80, che hanno postulato la definitiva trasformazione del mondo in simulacro e immagine, contribuendo alla sparizione del corpo, diventato avatar virtuale oppure

cyborg postumano.132 E ugualmente non credo si esca troppo dal seminato nel fare un

127 Ibid., p.56.

128 Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 1997, p. 53. 129 Ibid., p. 55.

130 Ibid., p. 145. 131 Ibid., p. 180.

132 Lo stesso termine “cyborg” prende spunto dalla cibernetica, campo di studi avviato nel 1948 da Norbert Wiener e alla base dell'avvento dell'informatica e dell'interesse per l'intelligenza artificiale. Per una ricostruzione storica del contesto e dei rapporti fra le varie discipline coinvolte si veda Steve

passo ulteriore, ovvero rintracciando in tante delle immagini che costellano la fantascienza cyberpunk la matrice di queste idee. Il robot, di volta in volta aiutante, sostituto, replicante, macchina ribelle oppure nemico destinato a sostituire i lavoratori, ha una lunga storia e sarebbe certamente interessante percorrerne i sentieri biforcati, dal golem ebraico fino ai robot di Čapek e Asimov per giungere all'ibrido cyborg che mette in crisi ogni distinzione naturale.133 Già prima di giungere agli ambienti postmoderni di

William Gibson, tuttavia, i robot portano nel consesso umano le ambiguità della cultura di massa.

Nei libri degli anni Sessanta di Philip K. Dick, ad esempio, la confusione fra l'uomo ed il suo doppio meccanico appare come l'eco della nuova dialettica introdotta nel campo dell'arte dalla possibilità della sua riproduzione. In un mondo di copie il falso non è più solo lo strumento di una truffa, ma anche la reiterazione di un originale che assume valore, proprio a causa della sua unicità, come le prime edizioni libresche dopo l'avvento della stampa. In Ma gli androidi sognano pecore elettriche, ad esempio, possedere animali, dopo che il loro numero si è drasticamente ridotto a causa delle precarie condizioni ecologiche, è divenuto simbolo di distinzione sociale, benessere economico e religiosità. Non tutti però, possono permettersi tale lusso. Così esistono specialisti nella fedele riproduzione di capi di bestiame e animali da compagnia che fanno della discrezione un valore fondamentale; fra i clienti anche il protagonista Rick Deckard.

“Rick [...] salì in terrazzo, al pascolo pensile coperto, dove la sua pecora elettrica “brucava”. Dove quel complesso marchingegno automatico ruminava ebbro di soddisfazione simulata, riuscendo a infinocchiare gli altri inquilini del palazzo.”

J. Heims, I cibernetici, Editori Riuniti, Roma, 1994.

Una discussione critica sulla “dematerializzazione” della realtà ad opera del virtuale si trova invece ad esempio in Thomás Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 1993, pp. 9 - 78; dove vengono citati diversi autori di fantascienza fra cui Stanislaw Lem, che fu sensibile al tema del cyborg e della virtualità, chiamata “phantomology”, già negli anni Sessanta nel suo Summa

Techonologiae.

133 Nel 1991 è stata Donna Haraway a declinare in senso “post-femminista” e postmoderno gli interrogativi posti dal cyborg in Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1995.

Un altro testo importante sul tema è quello di N. Katherine Hayles, How We Became Posthuman.

Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, University of Chicago Press, Chicago –

London, 1999. Libro che ha il pregio di interrogarsi sulla radici fantascientifiche della categoria discussa.

Se le repliche animali sono in fondo una necessità, un male minore, forse una vergogna ma non una minaccia, il discorso è diverso per quanto riguarda gli umanoidi artificiali. Evitare che si confondano fra i terrestri è compito di figure come quella di Rick, addetto delle forze dell'ordine specializzato nel rintracciare ed eliminare i replicanti. Fedele strumento di identificazione è il “misuratore d'empatia”, un apparecchio chiamato “Voigt-Kampf” in grado di rilevare le risposte inumane alla somministrazione di determinati stimoli emotivi.

– Questo – fece Rick, prendendo in mano un discoide adesivo con dei fili pendenti, – misura la dilatazione capillare nell’area facciale. Sappiamo che questa è una risposta autonoma primaria, la cosiddetta reazione di rossore o di vergogna a uno stimolo di natura morale. Non può essere controllata volontariamente, come pure la conducibilità della pelle, la respirazione e il battito cardiaco. – Le mostrò poi un altro strumento, uno stilo che emetteva un sottile raggio di luce. – Questo registra la variazione di tensione dei muscoli oculari. Simultaneamente col fenomeno del rossore, generalmente si osserva un piccolo, ma registrabile movimento...

– E tutto questo, gli androidi non l’hanno – concluse Rachel.

– Le loro risposte non sono generate da stimoli, no. Non da