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I personaggi minori dell'Orestea di Eschilo (Aesch. Ag. vv. 1-39; Choeph. vv. 730-782; Eum. vv.1-63)

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Academic year: 2021

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Indice

Indice 1

Introduzione 3

Parte prima: Il testo 4

Capitolo primo: La vedetta dell'Agamennone (v. 1-39) 4

1.1. L'attesa del segnale: v. 1-7. 5

1.2. Il duro incarico imposto da Clitemestra: v.8-20. 8 1.3. L'apparizione del segnale e la gioia della guardia: v. 22-34. 11

1.4. I segreti del palazzo: v. 35-39. 14

Capitolo secondo: La nutrice delle Coefore (v. 730-782) 16

2.1. L'ingresso in scena di Kilissa: v. 730-734. 16 2.2. La disperazione di Kilissa e la gioia di Clitemestra: v. 734-746. 18 2.3. Il grande dolore per Oreste: v. 747-765. 20

2.4. Il dialogo con il Coro: v. 766-782. 23

Capitolo terzo: La sacerdotessa delle Eumenidi (v. 1-63) 26 3.1. L'invocazione alle divinità maggiori: v. 1-20. 27 3.2. La menzione delle divinità minori: v. 21-33. 30 3.3. La vista orribile di Oreste: v. 34-35. 33 3.4. La vista orribile delle Erinni: v. 46-63. 35

Parte seconda: La caratterizzazione dei personaggi 38

Capitolo primo: La costruzione dei personaggi nella letteratura greca 38 1.1. I vari livelli di interpretazione di un personaggio. 38 1.2. La concezione del personaggio in Omero. 39 1.3. La caratterizzazione dei personaggi nella tragedia greca. 42 1.4. Incongruenze ed evoluzione psicologica in Eschilo 45

Capitolo secondo: La fedele sentinella 51

2.1. La caratterizzazione contraddittoria della vedetta. 51

2.2. Il modello omerico. 55

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Capitolo terzo: Kilissa 60

3.1. Kilissa, non una balia qualunque. 60

3.2. Kilissa e le altre donne della tragedia. 65

Capitolo quarto: La Pizia 69

4.1. Due prologhi a confronto. 69

4.2. Il prologo come spunto di riflessione politica. 73

Parte terza: Il linguaggio dei personaggi minori dell'Orestea 77

Capitolo primo: Proverbi, sentenze, colloquialismi in Eschilo 77 1.1. Il linguaggio come strumento caratterizzante. 77 1.2. Il colloquialismo secondo i critici. 78

1.3. Espressioni colloquiali in Eschilo. 81

1.4. Gli aspetti comici del linguaggio tragico 83

Capitolo secondo: La parola ai personaggi 85

2.1. Il φύλαξ 85

2.1.1. Le espressioni colloquiali della vedetta. 85 2.1.2. Τρὶς ἓξ βαλεῖν: il gioco della πέττεια. 87 2.1.3. Il bue sulla lingua che gli impedisce di parlare. 88

2.1.4. Il linguaggio misterico. 90

2.2. Kilissa 92

2.2.1. Il lessico e la sintassi del linguaggio della nutrice. 92

2.3. La Pizia 95

2.3.1. Il lessico comico e metaforico della Pizia. 95

Conclusione 98

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Introduzione

Il presente lavoro si pone l'obiettivo di analizzare i personaggi minori dell'Orestea dal punto di vista di una loro possibile caratterizzazione psicologica. I personaggi presi in esame sono la sentinella nell'Agamennone, la nutrice nelle Coefore e la Pizia nelle Eumenidi. L'analisi è volta a capire se in Eschilo è presente l'intenzione di costruire una caratterizzazione psicologica di questi personaggi e, in caso positivo, attraverso quali modalità. È anche oggetto di analisi il linguaggio utilizzato dalle tre figure letterarie nelle loro rispettive sezioni.

Il lavoro consta di tre parti. Nella prima si analizza il testo delle sezioni in cui compaiono i personaggi: il prologo dell'Agamennone (v. 1-39); parte del secondo episodio delle Coefore (v. 730-782); il prologo delle Eumenidi (v.1-63). Si fornisce l'analisi filologica e il commento delle tre sezioni seguendo le principali edizioni critiche ed i commenti, cercando di fornire delle soluzioni nel caso in cui il testo presenti delle lacune o dei problemi di interpretazione.

Nella seconda parte, nucleo del lavoro, si affronta il problema della caratterizzazione dei personaggi. Nel primo capitolo si fornisce un quadro generale sui vari livelli di interpretazione di un personaggio che vede contrapposti gli studiosi che sostengono e quelli che negano l'intento di un autore di voler raffigurare i personaggi con una loro psicologia. Dal piano generale si passa ad analizzare l'intento omerico di caratterizzare i suoi personaggi fino ad arrivare alla tragedia greca ed in particolare alle opere eschilee. Negli altri tre capitoli che costituiscono questa parte ci si concentra sulla sentinella, la nutrice e la Pizia e si cerca di capire la modalità seguita da Eschilo per rappresentare le tre figure e l'importanza del loro ruolo per lo svolgimento della trama.

La terza ed ultima parte della tesi è dedicata all'aspetto linguistico. Si analizza il linguaggio usato dai tre personaggi e la possibile alternanza di più registri linguistici facendo particolare attenzione alla presenza di termini colloquiali nelle loro parti recitate.

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Parte prima: Il testo

Capitolo primo: La vedetta dell'Agamennone (v. 1-39)

In questa prima parte del lavoro si fornisce l'analisi e il commento del testo dell'Orestea1 in cui compaiono i personaggi minori, oggetto di questo studio, dei quali si

analizza la caratterizzazione ed il linguaggio nelle parti successive. I soggetti di interesse sono la vedetta nell'Agamennone, la nutrice nelle Coefore e la Pizia nelle Eumenidi.

Il prologo di tutte le tragedie dell'Orestea contiene una preghiera da parte del προλογίζων: la guardia nell'Agamennone, Oreste nelle Coefore e la Pizia nelle Eumenidi.

I prologhi dell'Agamennone e delle Eumenidi possono essere paragonati sia per i loro punti in comune sia per le loro differenze. Il punto in comune più importante di tutti è il fatto che entrambi i personaggi ricoprono il ruolo di πρόσωπον προτατικόν ed in quanto tali, una volta portato a termine il loro monologo, non compaiono più all'interno delle rispettive opere. In secondo luogo i loro monologhi possono essere considerati l'uno l'inverso dell'altro in quanto quello della vedetta può essere definito, inizialmente, un soliloquio2 perché la guardia, attraverso una preghiera rivolta ad una

divinità, si lamenta della condizione in cui si trova. La Pizia, invece, apre il prologo delle Eumenidi con un'invocazione particolare alle divinità delfiche fissando sulla scena una condizione di tranquillità. Solo successivamente il monologo della Pizia si trasforma in un soliloquio nel quale la sacerdotessa si lamenta per la sventura in cui si trova3 . Veniamo ora all'analisi dell'Agamennone.

1 Il testo di riferimento è quello di Page 1972.

2 Eschilo usa questa forma di monologo anche in Prom.88 ss.

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1.1. L'attesa del segnale: v. 1-7 Φύλαξ θεοὺς μὲν αἰτῶ τῶνδ᾽ ἀπαλλαγὴν πόνων φρουρᾶς ἐτείας μῆκος , ἣν κοιμώμενος στέγαις Ἀτρειδῶν ἄγκαθεν, κυνὸς δίκην, ἄστρων κάτοιδα νυκτέρων ὁμήγυριν, καὶ τοὺς φέροντας χεῖμα καὶ θέρος βροτοῖς 5 λαμπροὺς δυνάστας, ἐμπρέποντας αἰθέρι ἀστέρας ὅταν φθίνωσιν, ἀντολάς τε τῶν·4

L'Agamennone si apre con l'immagine della facciata del palazzo degli Atridi ad Argo. Sul tetto del palazzo si trova una guardia che ha il compito di vegliare in attesa del segnale luminoso che indica che la città di Troia è stata conquistata. Al contrario della tradizione, Eschilo rappresenta Agamennone e Menelao uniti sotto lo stesso tetto, mentre normalmente Agamennone è presentato come il re di Argo e Menelao come il re di Micene o Sparta. Probabilmente questa scelta è volta ad evidenziare che il motivo della guerra, ossia il ratto di Elena, coinvolge non solo Menelao, ma anche il fratello e addirittura la Grecia intera5.

In questa prima sezione del prologo il lavoro di osservazione della vedetta sembra essere una sorta di maledizione da cui il guardiano chiede di liberarsi. Solo una divinità potrà esaudire il suo desiderio e permettere che questo suo incarico, che dura ormai da un anno intero, abbia fine. Questo anno di veglia ha permesso alla guardia di scrutare e conoscere a memoria la volta celeste tanto da darne una descrizione completa e precisa. Secondo Bollack6 la vedetta paragona l'insieme delle stelle alle popolazioni; gli astri più

potenti e luminosi ai prìncipi i quali decidono le sorti dei popoli e si succedono l'uno dopo l'altro proprio come sorgono e tramontano ciclicamente queste potenze luminose.

Il primo punto che ha creato difficoltà agli studiosi è la costruzione di μῆκος.

4 Vedetta.“Chiedo agli dei la liberazione da queste fatiche, da questa guardia che dura ormai da un anno,

durante la quale, sdraiato sulle mie braccia sulla casa degli Atridi, a guisa d'un cane, ho imparato a conoscere l'insieme delle stelle notturne, le potenze luminose che portano l'inverno e l'estate ai mortali, gli astri che brillano nell'etere, quando tramontano e quando sorgono (il loro sorgere).”

5 Cfr. Fraenkel 1950 nota al v. 400. 6 Bollack 1981 p. 6

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Ritengo nel giusto Fraenkel e Denniston-Page che considerano che φρουρᾶς ἐτείας μῆκος sia apposizione di τῶνδε πόνων e non un complemento di durata legato al verbo αἰτῶ come sostengono invece Mazon e Groeneboom. Infatti, secondo quest'ultima interpretazione, φρουρᾶς ἐτείας μῆκος sarebbe una semplice indicazione di durata, mentre mi sembra più corretto dire che si tratta di un'ulteriore specificazione di πόνων. Inoltre il verbo αἰτέω non può indicare una preghiera che dura da un certa quantità di tempo, ma il momento esatto in cui il personaggio inizia a parlare. Per di più l'uso della specificazione e della ripetizione è comune in Eschilo e serve per dare maggiore intensità ad un dettaglio che, in questo caso, fa trasparire lo stato d'animo del personaggio. Infatti la vedetta, evidentemente turbata, esterna i pensieri che gli attanagliano la mente dando loro una forma discorsiva. Inoltre ἔτειος non indica un tempo prolungato, ossia una veglia che dura da molti anni, ma semplicemente da un anno: da quando Clitemestra ha affidato questo incarico alla sentinella, ossia dall'ultimo anno della guerra di Troia.

Rispetto alla lunghezza della guerra un anno non è molto, ma per la vedetta sembra un'eternità7. É proprio questo il senso che esprime l'ennesima specificazione

della durata del compito della sentinella espresso da μῆκος che non è un'aggiunta oziosa, ma serve appunto a sottolineare la lunghezza infinita dell'incarico della sentinella.

Un secondo elemento, oggetto di numerosi dibattiti da parte degli studiosi, è la presenza della parola ἄγκαθεν al verso 2. Questo termine non compare spesso in Eschilo8 e, per la forma particolare della parola, è stato interpretato in modi diversi.

La maggior parte della critica moderna, come per esempio Hermann, che segue Triclinio, attribuisce al termine il senso generale di ἐν ἀγκάλαις, ossia fra i gomiti o sulle braccia e lo lega alla radice di ἀγκών9. La critica ottocentesca10, invece, ha

proposto una lettura completamente diversa del termine: dall'alto del tetto11. Questa 7 La durata annuale dell'incarico della vedetta è ripresa da Hom. Od. IV 526.

8 Oltre a trovarla in questo passo la troviamo in Eum.80.

9 Ogni studioso pensa ad una diversa posizione assunta dalla vedetta che renda il paragone con un cane da

guardia. Per esempio Fraenkel ritiene che la testa del guardiano sia proiettata in avanti fra i gomiti piegati. Bollack pensa che abbia il capo appoggiato sulle mani. Neitzel pensa che appoggi la parte alta del corpo sui gomiti come fa Nestore in Il. X 80 per parlare con Agamennone.

10 Denniston-Page 1957 hanno rilanciato questa lettura ormai superata.

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proposta è legata all'interpretazione dello scoliasta di M che sostiene che ἄγκαθεν sia la forma sincopata di ἀνέκαθεν. Mazon, invece, propone un'interpretazione temporale del termine traducendo così: “la vedetta sdraiata senza tregua sul tetto del palazzo, a mo' di un cane, ha imparato a conoscere gli astri”. Ritengo che la prima interpretazione di ἄγκαθεν sia la più adatta, oltre che per il passo parallelo delle Eumenidi citato in nota, per il fatto che rende chiaro il paragone fra la guardia e il cane.

Il terzo ed ultimo elemento problematico di questa sezione è il verso 7.

Questo verso è stato più volte ritenuto non autentico da numerosi editori tra cui Fraenkel, Paley, Wilamowitz per la disimmetria fra le due proposizioni subordinate che contiene. La prima è espressa tramite una temporale (ὅταν φθίνωσιν) e la seconda mediante un gruppo nominale (ἀντολάς τε τῶν).

Non tutti, però, sono d'accordo con questa opinione. La maggior parte dei difensori del verso, infatti, hanno interpretato la prima dipendente come una proposizione interrogativa indiretta retta da κάτοιδα, cosa che per Fraenkel non è accettabile12. Seguendo questa linea di pensiero ὅταν è inteso come ogni volta che le

stelle sorgono e tramontano ed è legato solamente a τοὺς φέροντας [...] ἀστέρας, ossia al secondo gruppo di astri che la sentinella descrive.

Non credo, come Bollack13, che questa sia una soluzione felice, in quanto il

participio sarebbe separato dal termine con cui è concordato da troppi elementi. Inoltre penso che κάτοιδα regga tutto ciò che è espresso di seguito, ossia i versi 5,6 e 7 in cui sono nominati tutti i gruppi delle stelle ed il loro sorgere e tramontare. Ritengo anche, come Bollack e Medda14, che si deve mantenere la lezione dei manoscritti per quanto

riguarda ἀντολάς, non ammettendo la correzione di Page in ἀντολαῖς dal momento che, essendo tutto retto da κάτοιδα, non ci sarebbe più il problema della costruzione dubbia dell'accusativo.

nessun riferimento specifico, ma credo che l'immagine più immediata sia quella della vedetta distesa sul tetto.

12 Cfr. Fraenkel 1950 pp. 6-7. 13 Cfr. Bollack 1981 p. 13

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1.2. Il duro incarico imposto da Clitemestra: v. 8-20. καὶ νῦν φυλάσσω λαμπάδος τό σύμβολον, αὐγὴν πυρὸς φέρουσαν ἐκ Τροίας φάτιν ἁλώσιμόν τε βάξιν· ὧδε γὰρ κρατεῖ 10 γυναικὸς ἀνδρόβουλον ἐλπίζον κέαρ, εὖτ᾽ ἂν δὲ νυκτίπλαγκτον ἔνδροσόν τ᾽ ἔχω εὐνὴν ὀνείροις οὐκ ἐπισκοπουμένην ἐμήν φόβος· γὰρ ἀνθ᾽ ὕπνου παραστατεῖ, τὸ μὴ βεβαίως βλέφαρα συμβαλεῖν ὕπνῳ· 15 ὅταν δ᾽ ἀείδειν ἢ μινύρεσθαι δοκῶ, ὕπνου τόδ᾽ ἀντίμολπον ἐντέμνων ἄκος, κλαίω τότ᾽οἴκου τοῦδε συμφορὰν στένων οὐχ ὡς τὰ πρόσθ᾽ ἄριστα διαπονουμένου. νῦν δ᾽ εὐτυχὴς γένοιτ᾽ ἀπαλλαγὴ πόνων 20 εὐαγγέλου φανέντος ὀρφναίου πυρός.15

In questi versi è descritto l'incarico che ogni notte la vedetta deve compiere. Egli aspetta con impazienza che appaia una luce, ma non un bagliore naturale come quello delle stelle. La vedetta attende il segnale di fuoco che porta la notizia della caduta di Troia e di conseguenza la liberazione dalla veglia che non gli permette di dormire ormai da un anno. La sentinella cerca di placare la sua sofferenza attraverso il canto che è considerato un rimedio contro il sonno. La sofferenza è provocata anche dal fatto che è costretto ad alzarsi dal proprio letto, o meglio dal giaciglio sul pavimento, per controllare se all'orizzonte compaia il segnale per ordine di Clitemestra.

Al κρατεῖ del verso 10 è stato contestato, da parte di Fraenkel e Denniston-Page, la traduzione di ordinare o comandare in senso stretto. Il verbo sta ad indicare

15 “E ora attendo il segnale della fiaccola, il raggio di un fuoco che porta la parola da Troia, la notizia

della conquista: così infatti comanda il cuore speranzoso di una donna dai pensieri di un uomo. Ma quando sto sul mio giaciglio che mi fa vagare di notte, bagnato di rugiada, non visitato dai sogni -infatti la paura mi sta accanto al posto del sonno affinché gli occhi a causa del sonno non si chiudano completamente- quando mi viene voglia di cantare o di accennare un motivetto, antidoto fatto di musica contro il sonno, piango, lamentando la sventura di questa casa che non è più ben governata come un tempo. Ora finalmente che giunga la liberazione da queste fatiche tramite un fuoco che appare nella tenebra e che porta la buona notizia”

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un'imposizione alla quale il servo non può sottrarsi e per cui è costretto a passare le notti insonni. Questa imposizione gli è stata affidata da Clitemestra, una donna ἀνδρόβουλος16, ossia che dimostra di avere la volontà di un uomo. Il termine usato da

Eschilo è raro e non può essere interpretato come fa Mazon come irrazionale o impaziente poiché in questo modo non mette l'accento sulla freddezza e la razionalità del piano ordito da Clitemestra. Tramite l'uso di questo termine Eschilo probabilmente lascia intendere che la regina stia tramando qualcosa. Impressione che è confermata dalle ultime parole ambigue con cui la vedetta lascia la scena17.

Un altro attributo del cuore della regina è ἐλπίζον che è stato oggetto di varie congetture da parte degli studiosi del XIX secolo. Questi interventi sono tutti volti ad attribuirgli il senso di pieno di speranza. Il termine è stato anche inteso come nome del predicato di κρατεῖ. La questione rimane aperta nel senso che da una parte questo termine conserva la sua forza di participio, perché non denota semplicemente una qualità del soggetto, ma la situazione in cui l'azione si svolge, e dall'altra il suo uso senza un oggetto non è comune18.

Il passo di questa sezione su cui i critici hanno discusso maggiormente è la costruzione dei versi 12-19, non per l'organizzazione del periodo, ma per il rapporto logico fra le due temporali e la principale espressa da κλαίω. Il verbo sembra legarsi più facilmente alla seconda proposizione: quando la sentinella si mette a cantare per non addormentarsi, piange.

Al verso 10 il termine νυκτίπλαγκτον19 offre una chiara immagine della condizione

in cui è costretta a vivere la guardia, ossia in uno stato perenne di insonnia e di movimento. L'epiteto attribuito al suo letto, infatti, dà l'idea di una persona che attende con ansia qualcosa. Non sono totalmente convinta, come Fraenkel, che la sentinella possa addirittura balzare per scrutare l'orizzonte e per non perdere di vista il posto in cui si aspetta che il segnale venga acceso. Immagino che, come chi soffre di insonnia, la

16 Nelle Coefore compare γυναικόβουλος al v. 626. 17 Cfr. Aesch. Ag. vv. 37 ss.

18 Hermann (cfr. Fraenkel 1950 p. 11) interpreta il pensiero della vedetta come un qualcosa di più

profondo che non vuole dire. Magari che Clitemestra si preoccupa di stare all'erta per un improvviso ritorno di Agamennone che potrebbe scoprire l'adulterio. Infatti il termine non evoca nessun evento particolare ed è possibile che la sentinella faccia un'allusione velata a questo.

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vedetta cammini nervosamente e sia costretta ad alzarsi dal suo giaciglio per verificare se all'orizzonte compaia il segnale.

Contro il sonno la vedetta usa un vero e proprio antidoto: il canto. Blomfield interpreta bene ἀντίμολπον che non è semplicemente una sostituzione del sonno, ma sta ad indicare un remedium quos contra somnum cantando fit.

Il canto è paragonato dagli studiosi ad un medicinale contro il dolore ed ἀντίμολπον è inteso come l'ἀντιτέμνειν dell'Inno a Demetra di Omero20 e della Pitica IV

di Pindaro21, nel senso di preparare un qualcosa contro qualcos'altro22. Bollack sostiene

che per analogia semantica con ἀντίτομον, sia stato inserito in questo verso ἀντίμολπον in un contesto in cui l'idea di un'incisione efficace espressa da -τομον è racchiusa dal participio di ἐντέμνειν. Sul significato del verbo ci sono state varie interpretazioni. Ahrens, convincente per Bollack e Fraenkel ma non per Denniston-Page, afferma che questo termine sia usato in Teofrasto e Sofocle23 per indicare l'incisione delle radici al

fine di ottenerne il succo24. Come il succo estratto dalle radici è un medicinale per un

malato così il canto è l'antidoto contro il sonno. Infatti, tradizionalmente, il potere calmante del canto è paragonato a quello di un'erba. Non bisogna dunque scollegare il participio dalla frase principale che specifica il suo significato in quanto nel canto o nel canticchiare la guardia trova il suo rimedio contro l'insonnia.

A questo punto, dopo aver illustrato le sofferenze che gli procura il suo incarico, la sentinella ripete la preghiera che ha pronunciato all'inizio del suo discorso, rimarcando ancora una volta il desiderio che il compito abbia fine.

Subito dopo la preghiera un piccolo intervallo precede l'apparizione della fiaccola: scena chiave del prologo. L'inserimento di questa piccola pausa è un espediente che si ritrova anche nel prologo delle Eumenidi prima che la Pizia faccia il suo l'ingresso nel tempio.

20 Cfr. Hom. h. Cer. 229. 21 Cfr. Pind. P. 4 v. 221.

22 Cfr. Bollack 1981 pp. 22-23 e Fraenkel 1950 p. 13.

23 Teofrasto Storia delle piante IX, 1, 5-7 e Sofocle fr. 534, 4s. Radt. 24 Nel LSJ9 è presente questo significato del verbo: cut in, shred in.

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1.3. L'apparizione del segnale e la gioia della guardia : v. 22-35. ὦ χαῖρε λαμπτήρ, νυκτὸς ἡμερήσιον φάος πιφαύσκων καὶ χορῶν κατάστασιν πολλῶν ἐν Ἄργει τῆσδε συμφορᾶς χάριν. ἰοὺ ἰοὺ· 25 Ἀγαμέμνονος γυναικὶ σημαίνω τορῶς εὐνῆς ἐπαντείλασαν ὠς τάχος δόμοις ὀλολυγμὸν εὐφημοῦντα τῇδε λαμπάδι ἐπορθιάζειν, εἴπερ Ἰλίου πόλις ἐάλωκεν, ὡς ὁ φρυκτὸς ἀγγέλλων πρέπει· 30 αὐτός τ᾽ ἔγωγε φροίμιον χορεύσομαι, τὰ δεσποτῶν γὰρ εὖ πεσόντα θήσομαι τρὶς ἓξ βαλούσης τῆσδέ μοι φρυκτωρίας.25

Dopo tanto patire il segnale tanto atteso è accolto dal guardiano con un'estrema contentezza espressa dall'esclamazione ὦ seguita dall'imperativo χαῖρε che sembra appartenere al linguaggio colloquiale e che ha tanti paralleli in tragedia e in commedia26.

Come ritengono nei loro commenti Fraenkel, Medda, Bollack, al contrario di Denniston-Page, l'interpunzione è da inserire fra λαμπτήρ e νυκτός e non fra χαῖρε e λαμπτήρ e dunque νυκτός assume un valore avverbiale e non attributivo. Tutto questo è coerente con il fatto che in questo modo si mette in risalto l'avvenimento appena accaduto. La vedetta, infatti, saluta il segnale che nella notte illumina a giorno grazie all'importanza del messaggio che porta e non una luce qualsiasi della notte.

Il termine λαμπτήρ non è usato in attico, ma è ripreso dall'Odissea con il significato di torcia. Molto probabilmente è usato dalla sentinella per rendere λαμπάς dei versi 8 e 28, ma non è semplicemente un sinonimo. Λαμπτήρ ha, infatti, il vantaggio

25 “Salve fiaccola, che nella notte annunci una luce diurna e fai cominciare molte danze ad Argo per

questo evento!Evviva, evviva! Alla moglie di Agamennone voglio dare con voce chiara il segnale che si levi dal letto e innalzi al più presto nella casa un grido di gioia per questa fiaccola, se davvero la città di Ilio è stata conquistata, come annuncia il falò che brilla. E io stesso danzerò il preludio, allora giocherò io dal momento che i miei padroni hanno fatto una buona mossa, poiché questa guardia per me ha lanciato tre volte sei.”

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di produrre un suono più soft, non attico ed un significato non specifico.

Non appena il segnale è apparso all'orizzonte, la guardia avvisa Clitemestra tramite un grido di gioia sia per il ritorno del re vittorioso, del quale vanta il buon governo del regno27, sia perché dopo tempo è arrivata la fine del suo faticoso incarico.

Σημαίνω, verbo al presente, ha causato dei problemi ai critici dato che al verso 31 c'è il futuro χορεύσομαι. Il presente è conservato solo in M, mentre negli altri manoscritti è presente il futuro σεμανῶ che è stato introdotto per congettura per eliminare la differenza di tempo presente nel manoscritto. Presso i moderni però il problema si è trasformato in una questione di messa in scena. Per sostenere il futuro si pensa che la guardia, una volta terminato il suo incarico, debba preparare la sua partenza e quindi si prepari ad annunciare alla regina l'accaduto dicendo: “ora andrò ad annunciare il fatto a Clitemestra”. Sostenendo il presente, invece, si pensa che le grida di gioia appena pronunciate dalla sentinella siano destinate ad essere sentite dalla donna perché il guardiano si rivolge direttamente a lei. In effetti, dato che la guardia ha la ferma intenzione di annunciare la lieta novella alla padrona affiché si levi dal letto, non è necessario accogliere la lezione tradita dagli altri manoscritti, ossia il futuro dato che l'azione è immediata.

Il levarsi della regina dal letto corrisponde all'apparizione della fiaccola che è simbolo del dramma, non c'è, infatti, un paragone fra l'ergersi di Clitemestra e quello di un astro nel cielo, come ritengono alcuni. Anzi dato che la luce annuncia il ritorno del re, la fiaccola scatena l'azione di Clitemestra che si leva dal suo letto per compiere i suoi piani.

Per quanto riguarda il verso 30, Bollack propone una lettura più accurata e approfondita rispetto agli altri commentatori. Egli afferma che è più corretto separare il participio ἀγγέλλων da πρέπει per evidenziare non solo che il messaggio che la fiaccola porta è chiaro, ma che la luce, grazie alla portata del suo messaggio, si distingue nettamente brillando nella notte. Anche Fraenkel sottolinea che il verbo si riferisce alla

27 Al verso 19 la vedetta lamenta il mal governo della regina e del suo amante velatamente. Afferma,

infatti, che la casa degli Atridi non è più ben governata, come quando c'era Agamennone. Da quest'affermazione si potrebbe sospettare che la guardia sia a conoscenza di certi intrighi che avvengono all'interno del palazzo e che non vuole raccontare, come si vedrà negli ultimi versi del prologo.

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luce vista come contrasto dell'oscurità circostante28.

La condizione della vedetta è totalmente cambiata. Fino a qualche istante fa piangeva, ora si sente libero di ballare da solo prima che sia dato l'ordine di aprire le danze: modo usuale di festeggiare una vittoria. Secondo Fraenkel gli studiosi moderni hanno stabilito troppo facilmente che la vedetta muovesse dei piccoli passi di danza sul tetto durante il suo monologo29, cosa che secondo lui, ed a mio avviso correttamente,

non traspare dal testo. Non è necessario pensare né che la sentinella passi immediatamente dalla parola all'azione facendo capriole e movimenti di danza sul tetto, né che debba proporre questa danza davanti a Clitemestra non appena sarà presente in scena. La danza della vedetta non celebra, in questo momento, solo la distruzione di Troia, ma soprattutto la liberazione dal suo incarico. Questa sua mossa indica che egli si è liberato da una costrizione che solo l'apparizione di questa fiaccola avrebbe potuto sciogliere. Tuttavia egli non può essere considerato totalmente privo di vincoli. Infatti, come si vedrà nella sezione successiva, egli è obbligato a tacere su certi avvenimenti che conosce perfettamente.

La contentezza della vedetta è espressa ai versi 32ss, tramite un'espressione proverbiale. Egli, infatti, paragona la fine delle sue fatiche al risultato più alto che si possa ottenere durante il gioco della πεττεία o κυβεία. I giocatori muovono delle pedine su una scacchiera in base al lancio di tre dadi e dunque il suo <<tre volte sei>> rappresenta

il risultato migliore che si possa ottenere. Penso che il riferimento a questo gioco sia usato dalla vedetta per esprimere la felicità di aver raggiunto il suo successo personale. Non sono d'accordo, infatti, con alcuni studiosi che interpretano questo paragone come il successo di Agamennone o addirittura di Clitemestra30.

28 Cfr. Fraenkel nota al v. 242.

29 Il primo a proporre questa lettura è stato Peile seguito poi da Conington, Paley fino a Wilamowitz. 30 Cfr. la citazione di Van Heusde e di A. Platt in Fraenkel 1950 p. 21. Anche Denniston-Page interpretano

in questo senso, spiegando χορεύσομαι come una manifestazione di gioia legata al successo degli Atridi. Discuto più ampiamente questo aspetto alle pp. 53 ss.

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1.4. I segreti del palazzo: v. 35-39. γένοιτο δ᾽ οὖν μολόντος εὐφιλῆ χέρα ἄνακτος οἴκων τῇδε βαστάσαι χερί. 35 τὰ δ᾽ ἄλλα σιγῶ: βοῦς ἐπὶ γλώσσῃ μέγας βέβηκεν· οἶκος δ᾽ αὐτός, εἰ φθογγὴν λάβοι, σαφέστατ᾽ ἂν λέξειεν· ὡς ἑκὼν ἐγὼ μαθοῦσιν αὐδῶ κοὐ μαθοῦσι λήθομαι31.

Dopo un lungo anno di veglia ed un breve momento di euforia, la sentinella è pronta a condividere con gli altri sudditi il momento del ritorno del padrone in un momento in cui nel palazzo spadroneggiano Clitemestra ed Egisto.

La situazione, però, cambia nuovamente. La guardia ricade subito in un momento di sconforto poiché è costretta a nascondere determinati avvenimenti che accadono nel palazzo e che mettono fine al suo momento di euforia. Il φύλαξ è ancora costretto a tenere dentro di sé il motivo del suo turbamento poiché non tutti sono a conoscenza di ciò che accade nella casa32.

Questa sezione si apre con un gesto particolare da parte della guardia. Egli vuole stringere la mano del suo padrone come se fosse un amico che non vede da tanto tempo e non vuole lasciarlo andar via subito. La stretta di mano non è il segno di un semplice saluto, ma rappresenta un gesto più profondo: il φύλαξ vuole dimostrare al padrone che la sua fedeltà è rimasta salda nonostante la sua assenza. Questo è un gesto estremamente sincero che spicca in un contesto fatto di intrighi e vendette nel quale non c'è posto per la sincerità.

La sentinella lascia la scena con un altro proverbio che ha molti paralleli nella letteratura greca33 che indica, ancora una volta con un'espressione popolare, 31 “Allora che io possa stringere in questa mia mano la cara mano del signore della casa, finalmente

rientrato. Taccio sul resto: un gran bue mi è salito sulla lingua. La casa stessa, se avesse voce, potrebbe parlare chiaramente; poiché io parlo volentieri a coloro che sanno, invece dimentico per coloro che non sanno”.

32 Presumibilmente si riferisce al rapporto instauratosi fra Clitemestra ed Egisto durante la lontananza di

Agamennone ed agli intrighi organizzati da entrambi.

33 Teognide 815; Soph. Oed. C. 1051ss e in Aesch. fr. 36 R. in cui c'è una piccola variante, la cosa che

impedisce di parlare è una chiave, non un bue. Inoltre dal parallelo con Sofocle si può collegare quest'espressione così forte ai culti di Eleusi e molto probabilmente il κλήις di Sofocle è stato sostituito da βοῦς per accentuare ancora di più la pesantezza di questo silenzio.

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l'impossibilità di rivelare ciò che conosce che, a quanto pare, ha un peso importante. Inoltre il guardiano aggiunge una certa rilevanza a questo suo silenzio incuriosendo maggiormente il lettore tramite l'espressione “οἶκος δ᾽ αὐτός, εἰ φθογγὴν λάβοι, σαφέστατ᾽ ἂν λέξειεν, ossia “se la casa potesse parlerebbe”. Il nesso che usa per esprimere ciò, φθογγὴν λάβοι34, è ripreso probabilmente dalle fiabe o dai racconti

popolari per indicare avvenimenti speciali di questo tipo35.

Gli ultimi due versi pronunciati dal nostro personaggio non sono facilmente comprensibili. Fraenkel nel commento a questi versi pone una corretta domanda: chi sono i μαθόντες? I commentatori molto spesso non danno risposta.

Alcuni affermano che la vedetta si rivolge al pubblico del teatro, anche se non c'è testimonianza nella tragedia attica di un personaggio che si rivolge al pubblico. Secondo Fraenkel una risposta convincente è stata proposta da Leo36 che immagina che questi

μαθόντες non siano da identificare con il pubblico del teatro, ma siano degli interlocutori immaginari del personaggio che parla in primis riferendosi a se stesso e allo stesso tempo si rivolge ad altri.

La guardia ha due interlocutori immaginari: coloro che sanno e coloro che non sanno. Questa distinzione ha creato delle discussioni all'interno della critica. Si può pensare, da una parte, che l'opposizione riguardi il modo di parlare della guardia, intellegibile per il primo gruppo di persone, enigmatico per l'altro37. Dall'altra però si

può ritenere che la guardia abbia voluto dimenticare volontariamente ciò che ha da dire38. Oppure, più semplicemente, il participio ἑκὼν può essere associato sia ad αὐδῶ

sia a λήθομαι per rimarcare ancora una volta la reticenza della vedetta a dire ciò che conosce. Infatti, proprio dicendo che è pronta a parlare con coloro che già sanno ed a tacere con quelli che non sanno, il φύλαξ trova un altro espediente per evitare di parlare.

34 Cfr. Soph. El. 548.

35 Vedi anche Eur. Hec.836 ss.

36 Cfr. la citazione di Fraenkel 1950 p.24 di Leo, F. Der Monolog in Drama.

37 Così interpretano Karsten, Wilamowitz, Herman che danno a λήθομαι il senso di parlare in maniera

oscura.

38 Così pensano invece Paley, Fraenkel, Blomfield grazie anche al parallelo del testo di Hdt. Hist. 3.75.1 e

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Capitolo secondo:

La nutrice delle Coefore (v. 730-782)

La seconda figura presa in analisi è Kilissa, la nutrice di Oreste che ha una parte abbastanza lunga all'interno della tragedia, cosa insolita per un personaggio minore. La nutrice entra in scena dopo che Oreste e Pilade si sono fatti riconoscere da Elettra ed hanno spiegato il loro piano di vendetta a lei ed al Coro. I due si fingono esuli focesi che cercano ospitalità dopo un lungo cammino. Il finto focese (Oreste) si fa anche portavoce di una notizia sconvolgente: deve far credere a Clitemestra ed Egisto che Oreste sia morto, in modo che si possa compiere la vendetta di Agamennone. La nutrice non è a conoscenza del piano del figlio del re ed è infatti molto addolorata per la morte del bambino che ha allevato fin dalla nascita. Essa è incaricata dal Coro delle portatrici di offerte di annunciare ad Egisto questa notizia, ma facendo in modo che egli esca dalle sue stanze da solo, in modo che Oreste possa affrontarlo tête-à-tête.

2.1. L'ingresso in scena di Kilissa: v.730-734. Χορός

ἔοικεν ἁνὴρ ὁ ξένος τεύχειν κακόν· 730

τροφὸν δ᾽ Ὀρέστου τήνδ᾽ ὁρῶ κεκλαυμένην. ποῖ δὴ πατεῖς, Κίλισσα, δωμάτων πύλας;

λύπη δ᾽ ἄμισθός ἐστί σοι ξυνέμπορος.39

La corifea introduce a questo punto del dramma la figura di Kilissa la quale erra in lacrime nel palazzo. La serva è l'unico personaggio minore, ad esclusione dei prigionieri che provengono da famiglie nobili, come Cassandra, a cui è attribuito un nome in tragedia40. Per questo motivo al contrario di Page, Robortello e Garvie, scelgo, come

Sommerstein e Battezzato, di segnalare le battute della nutrice usando il suo nome e non il semplice τροφός.

39 Coro: “A quanto sembra lo straniero sta facendo del male: vedo qui in lacrime la nutrice di Oreste.

Dove vai Kilissa, tu che calpesti le soglie del palazzo? Tu non l'hai richiesto, ma il dolore ti accompagna nel tuo viaggio”.

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I primi due versi41, che annunciano l'ingresso della nutrice, instaurano, secondo

Taplin42, un clima di confidenza e di familiarità sulla scena in linea con il monologo

successivo della balia in cui essa esprime tutto il suo dolore per Oreste, dato che non è a conoscenza del suo piano di vendetta.

Il fatto che la nutrice sia all'oscuro delle macchinazioni ordite da Oreste è confermato dall'affermazione del Coro che sottolinea, stranamente, che lo straniero sta causando del male. Questa osservazione della corifea potrebbe risultare ambigua dal momento che il Coro sa benissimo che Oreste sta per compiere un omicidio. Da una parte quest'espressione del Coro potrebbe essere giustificata dalla visione della nutrice in lacrime, ma dall'altra mi sembra che, nelle parole del Coro, ci sia un velato riferimento al κακόν che Oreste sta architettando. La corifea, infatti, si rende complice della finzione non rivelando a Kilissa la verità e permettendole di dare sfogo ai suoi sentimenti introducendo sulla scena quel clima di familiarità di cui parla Taplin.

La sezione si chiude, difatti, con l'immagine di una donna straziata da un dolore così grande che sembra assumere l'atteggiamento di chi si appresta a partecipare ad un funerale. Il Coro usa un'espressione particolare per sottolineare questo errare sofferente della balia: afferma che, senza volerlo, la nutrice ha assoldato il dolore come suo compagno di viaggio43.

Dal punto di vista filologico in questi 4 versi sono da mettere in evidenza due punti sui quali gli studiosi dibattono. Il primo è la relazione fra i primi due versi espressa dal δέ. I due versi sono separati da un colon fissato dopo κακόν e si chiudono con un punto dopo κεκλαυμένην. Il problema è il valore del δέ del v. 731. Secondo la maggior parte degli studiosi il δέ equivale al γάρ. L'unico che propone un'interpretazioe diversa è Wilamowitz che afferma che, in questo contesto, il δέ potrebbe essere avversativo. Lo studioso non considera che i due versi siano correlati. Egli immagina che il v. 730 sia pronunciato dalla corifea in risposta alle grida sentite fuori dalla scena e

41 Tyrwhitt è stato il primo a ritenere che questi versi siano pronunciati dal capo coro dato l'uso solito di

Eschilo di introdurre l'ingresso in scena di un personaggio annunciandolo.

42 Cfr. Taplin 1977 p. 345

43 Sommerstein paragona questo passo, in cui Kilissa non desidera essere accompagnata da nessun

compagno in questo suo viaggio, e tano meno dal dolore, con un passo di Arist. Rane 165-177 in cui, invece, si dice che qualsiasi uomo durante un viaggio vorrebbe uno schiavo che gli porti le valige e potrebbe assumere chiunque per farlo.

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che al v. 731 la corifea veda Kilissa e si renda conto che non è successo niente di grave e dunque non c'è bisogno di porre attenzione a questo fatto44.

Il secondo oggetto di discussione è la mancanza del verbo nella domanda che il capo-coro rivolge alla nutrice al v. 732 poiché di conseguenza la dipendenza dell'accusativo πύλας da πατεῖς risulta strana ad alcuni studiosi che per questo motivo hanno proposto delle congetture. Paley, per esempio, propone περᾷς al posto di πατεῖς oppure Herwerden in luogo di πατεῖς propone πάρος. Come afferma Garvie45, ritengo

che, nonostante la domanda sia ellittica, il senso del testo sia chiaro e non ci sia bisogno di emendarlo.

2.2. La disperazione di Kilissa e la gioia di Clitemestra: v.734-746. Κίλισσα Αἴγισθον ἡ κρατοῦσα πρὸς ξένους καλεῖν ὅπως τάχιστ᾽ ἄνωγεν, ὡς σαφέστερον 735 ἀνὴρ ἀπ᾽ ἀνδρὸς τὴν νεάγγελτον φάτιν ἐλθὼν πύθηται τήνδε. πρὸς μὲν οἰκέτας θέτο σκυθρωπῶν πένθος ὀμμάτων, γέλων κεύθουσ᾽ ἐπ᾽ ἔργοις διαπεπραγμένοις καλῶς κείνῃ, δόμοις δὲ τοῖσδε παγκάκως ἔχει, 740 φήμης ὕφ᾽, ἧς ἤγγειλαν οἱ ξένοι τορῶς. ἦ δὴ κλύων ἐκεῖνος εὐφρανεῖ νόον, εὖτ᾽ ἂν πύθηται μῦθον. ὦ τάλαιν᾽ ἐγώ, ὥς μοι τὰ μὲν παλαιὰ συγκεκραμένα ἄλγη δύσοιστα τοῖσδ᾽ ἐν Ἀτρέως δόμοις 745 τυχόντ᾽ ἐμὴν ἤλγυνεν ἐν στέρνοις φρένα·46

44 La corifea parla al singolare, come indica ὁρῶ, ma ovviamente è portavoce di tutto il Coro. 45 Garvie 1986 n. al v. 732 p. 245.

46 Kilissa.“La padrona ha ordinato di chiamare il più velocemente possibile Egisto al cospetto degli

stranieri, perché venga e sappia con più precisione, uomo da uomo, questa notizia annunciata da poco. Presso i servi finse il dolore di occhi tristi, e nascose la sua risata per quel che era successo di buono per lei, invece questa casa è al fondo del male per la notizia annunciata chiaramente dagli stranieri. Certamente quello ad ascoltare avrà la gioia nel cuore,non appena saprà la storia. Povera me! Come i dolori del passato mescolati insieme, duri da sopportare, accaduti in questa casa di Atreo, mi addoloravano il cuore nel petto!”.

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Ιl primo verso del monologo della nutrice offre diverse interpretazioni. Il testo tradito da M τοὺς ξένους καλεῖν è una chiara ripresa del v. 574. Questo verso è pronunciato da Oreste mentre immagina di uccidere Egisto, che l'ha chiamato a quattr'occhi47, ancor prima che quest'ultimo possa chiedergli da dove viene. Ma in realtà

nel nostro verso si dice che è Egisto che deve essere chiamato per accogliere la notizia dagli stranieri. In quest'ottica Mazon, facendo dipendere un'infinitiva da ἄνωγεν interpreta in questo modo: “dà ordine che gli stranieri chiamino Egisto”. Pauw, invece, corregge l'accusativo in dativo anche se difficilmente καλέω regge il dativo48.

La correzione πρὸς ξένους proposta da Portus e accolta da Battezzato49 è più

adeguata delle altre per due motivi. In primo luogo perché l'accusativo tradito dai manoscritti è l'errore nel quale cade chi, leggendo καλεῖν, fraintende il significato del verso. Secondariamente perché il dativo, come detto, non è frequente dopo καλέω. Inoltre ritengo che l'uso della preposizione πρὸς metta in evidenza il desiderio incontenibile della regina che Egisto si rechi al cospetto degli stranieri per apprendere una notizia così felice cosa che, in realtà, gli costerà la vita.

I versi successivi, 737-39, sono anch'essi oggetto di dibattito50. Il testo di M

tramanda σκυθρωπὸν che, secondo Garvie51, non può essere legato a θέτο per indicare

che Clitemestra assume un sguardo di dolore. Non è corretta neanche l'interpretazione di Weil che pur eliminando l'asindeto (spezzando τὴν δέ) non risolve il problema. Weil, infatti, suppone che di fronte ai servi la regina guardi alla notizia come se fosse una cosa triste, spostando l'attenzione sul fatto in sé e non sull'atteggiamento di Clitemestra. A mio avviso, invece, l'aggettivo non riguarda la notizia, ma il comportamento di Clitemestra. Dunque la congettura di Victorius stampata da Page sembra essere la migliore. Infatti concordando σκυθρωπῶν con ὀμμάτων52 è chiarito il comportamento

falso di Clitemestra che con occhi tristi fa credere ai servi che la notizia della morte del figlio le dispiaccia53.

47 Cfr. Aesch. Choeph. 574 κατ' ὀφθαλμοὺς καλεῖ

48 Nonostante ciò Page e Garvie accolgono questa proposta. 49 Battezzato in Di Benedetto 1995 p. 432.

50 Per il senso generale cfr. con Eur. Or. 467-69; 1122; 1319-1320. 51 Garvie 1986 p. 245-46.

52 Cfr. E. Ph. 1333 oppure E. Or. 1319.

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Secondo Kilissa la regina è falsa perché esteriormente mostra un atteggiamento mesto e dispiaciuto, mentre in realtà nasconde una risata di soddisfazione per il trionfo che ha ottenuto54.

L'atteggiamento di Clitemestra, rilevato dalla nutrice, stride fortemente con la parte conclusiva di questa sezione. Kilissa chiude la prima parte del suo monologo con il ricordo delle sofferenze che ha dovuto patire in passato nella casa di Atreo che fanno da sfondo per un nuovo dolore che sta provando in questo momento e che è ancora più grande di quelli che ha già affrontato.

2.3. Il grande dolore per Oreste: v.747-765.

ἀλλ᾽ οὔτι πω τοιόνδε πῆμ᾽ ἀνεσχόμηνˑ τὰ μὲν γὰρ ἄλλα τλημόνως ἤντλουν κακά, φίλον δ᾽ Ὀρέστην, τῆς ἐμῆς ψυχῆς τριβήν, ὃν ἐξέθρεψα μητρόθεν δεδεγμένη, 750 καὶ νυκτιπλάγκτων ὀρθίων κελευμάτων < > καὶ πολλὰ καὶ μοχθήρ᾽ ἀνωφέλητ᾽ ἐμοὶ τλάσῃˑ τὸ μὴ φρονοῦν γὰρ ὡσπερεὶ βοτὸν τρέφειν ἀνάγκη, πῶς γὰρ οὔ; τρόπῳ φρενόςˑ οὐ γάρ τι φωνεῖ παῖς ἔτ᾽ ὢν ἐν σπαργάνοις, 755 εἰ λιμὸς ἢ δίψη τις, ἢ λιψουρία ἔχει· νέα δὲ νηδὺς αὐτάρκης τέκνων. τούτων πρόμαντις οὖσα, πολλὰ δ᾽οἴομαι, ψευσθεῖσα, παιδὸς σπαργάνων φαιδρύντρια, κναφεὺς τροφεύς τε ταὐτὸν εἰχέτην τέλος. 760 ἐγὼ διπλᾶς δὲ τάσδε χειρωναξίας ἔχουσ᾽ Ὀρέστην ἐξεδεξάμην πατρίˑ τεθνηκότος δὲ νῦν τάλαινα πεύθομαι.

54 Clitemestra ha infatti sognato di partorire un serpente che le morde il seno durante l'allattamento

facendo uscire del sangue. Questo serpente altri non può essere se non Oreste che giunge a vendicare il padre. Dunque la notizia che sia morto è per lei fonte di tranquillità.

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στείχω δ᾽ ἐπ᾽ ἄνδρα τῶνδε λυμαντήριον

οἴκων· θέλων δὲ τόνδε πεύσεται λόγον. 55 765

Il lamento per la condizione di Oreste inizia con un'espressione proverbiale tratta dal lessico marinaresco. Aggottare significa infatti <<togliere l'acqua accumulata sul

fondo della barca>> e dunque in un senso più esteso <<sopportare>>.

Kilissa ha sopportato tanto in passato, ma questo dolore è per lei troppo grande perché ha vissuto a stretto contatto con Oreste fin da quando egli era in fasce. Nella seconda parte del suo monologo, infatti, con un racconto dolcissimo la nutrice ricorda l'infanzia dell'eroe e tutte le attenzioni che essa gli riservava. Lo paragona ad un animaletto indifeso di cui lei si è presa cura come se fosse suo figlio. Per questo motivo la notizia della morte di Oreste le procura una sofferenza profonda non paragonabile a nessun'altra.

Un senso di disperazione profondo è ben espresso anche grazie alla sintassi frammentaria che contraddistingue il discorso della nutrice. Nel testo le affermazioni di Kilissa non hanno un ordine preciso, sembrano irrazionali, nel senso che essa dà forma di discorso ad alcuni pensieri che pian piano le vengono in mente in un momento di grande tristezza e turbamento56.

Il testo non presenta un filo logico nel complesso. La frase principale è, infatti, interrotta da una serie di parentesi che si aprono ogni volta che a Kilissa vengono in mente nuovi ricordi. L'anacoluto è usato spesso da Eschilo nei discorsi dei tre personaggi e soprattutto in quello della nutrice. Talvolta, però, una struttura anacolutica non è sufficiente per giustificare una costruzione del testo troppo incerta proprio come accade in questa sezione in cui gli studiosi sono concordi nel postulare una lacuna o

55“Ma una simile pena non l'avevo ancora sopportata, perché gli altri mali li aggottavo con pazienza, ma

Oreste caro, cura della mia anima, che ho preso dalla madre e ho allevato, e delle grida acute, richieste che fanno errare nella notte <...> e per me che ho patito molto e con fatica inutilmente; ciò che non pensa è necessario allevarlo come se fosse un animale facendo uso della nostra ragione (?). Come no? Infatti non dice nulla un bimbo che è ancora in fasce, se ha fame o sete o se deve fare la pipì; la pancia piccola dei figli è autonoma. Lo indovinavo, ma spesso, lo so, ingannata, pulivo le fasce del bimbo, lavandaia e nutrice avevano lo stesso compito. Avevo questo doppio incarico quando ricevetti Oreste da suo padre, e ora ho saputo che è morto, povera me. Vado dall'uomo che ha portato disonore in questa casa e che apprenderà volentieri la notizia”.

56 Questo accade anche nel prologo dell'Agamennone, in cui i pensieri della vedetta (v12ss.) non hanno un

ordine ben stabilito a causa dello stato di turbamento in cui si trova. Anche per quanto riguarda l'araldo in

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prima o dopo il verso 75157.

Nei versi successivi, 749ss , è evidente il contrasto fra la nutrice e Clitemestra. Kilissa fa riferimento alla φιλία, definendo Οreste φίλος e mostrando tutto l'affetto e la sincerità che nutre nei suoi confronti. Clitemestra non ha altro da mostrare se non la sua ipocrisia.

Il contrasto fra le due donne è presente anche grazie al ricorso di un termine particolare usato da Eschilo anche nel prologo dell'Agamennone58: νυκτιπλάγκτος. Nelle

Coefore il termine ricorre due volte. Una nel verso che si sta analizzando in riferimento al pianto del bimbo che faceva vagare nella notte Kilissa. L'altra al v. 524 in cui il Coro riferisce ad Oreste che la madre era scossa da sogni che fanno vagare nella notte e per questo ha mandato le libagioni per Agamennone. La relazione fra le due sezioni mi sembra indubbia ed il contrasto fra le due donne sta proprio nel fatto che Clitemestra si svegliava di notte a causa degli incubi e dei sensi di colpa, Kilissa, invece, si svegliava per tranquillizzare Oreste che piangeva.

Il verso 754 è di difficile interpretazione per la chiusa τρόπῳ φρενός ritenuta sospetta ed infatti emendata. Secondo Garvie, Sommerstein e Thomson la lezione di M, τρόπῳ φρενός, è difficilmente quella giusta in quanto non è chiaro a chi appartenga il φρήν che dovrebbe allevare chi non ce l'ha. Garvie sottolinea, a mio avviso giustamente, che τὸ μὴ φρονοῦν e φρενός siano in forte antitesi. Whittle interpreta τρόπῳ come direzione o attenzione. Il LSJ9 dà al termine il senso di a titolo di intelligenza: in luogo

della mancanza dell'intelligenza del bambino, l'intelligenza di qualcun'altro deve prendersene cura. Sommerstein intrepreta seguendo il LSJ9 ed accoglie a testo la

proposta di Thomson τροφοῦ φρενί. Entrambi, attraverso questa congettura, mettono in evidenza due aspetti. In primo luogo, il contrasto fra colui che non ha la ragione e dunque non può badare a se stesso e chi, invece, è dotato di una propria intelligenza e autonomia. Secondariamente riconoscono in Kilissa la figura che deve prendersi cura del soggetto non pensante59.

57 Schütz prima, Hermann dopo. Conradt propone una trasposizione del verso 751 dopo il 758, ma questo

comunque non risolve il problema. West prova a ricostruire il verso in questo modo <πολλῶν κλυούσῃ πράγματ' ἐμπέδως παρῆν>.

58 Cfr. v. 12.

59 Sommerstein 2008 traduce “a child without intelligence must needs be reared like an animal- how

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Nonostante mi sembra difficile pronunciarsi su una precisa interpretazione di questi versi60, penso che si possa conservare il testo di M che esprime un contrasto

generico fra i due soggetti della frase (il bambino che non è autonomo e colui/colei che se occupa) senza necessariamente dover trovare un'identità specifica al secondo soggetto. Mi sembra, infatti, che ai v. 756-7 Kilissa, da esperta del mestiere, descriva le classiche situazioni che si presentano ad una madre/nutrice alle prese con un bambino in fasce. Non credo che la balia si riferisca alla situazione particolare che riguarda lei stessa in quanto nutrice di Oreste come, invece, succede al v. 758. A mio avviso è dal v. 758 in poi che la nutrice torna a parlare nello specifico di Oreste abbandonando il piano generale della discussione61.

Sul finire del suo monologo Kilissa riprende il filo del discorso interrotto, come detto sopra, dalla moltitudine di pensieri che le vengono in mente durante questo suo piccolo lamento. Il verso 762 sembra chiudere il discorso lasciato a metà al verso 749. La balia, infatti, ripete ancora una volta che, non appena ha ricevuto il bambino dalle braccia del padre, le è stato affidato il doppio incarico di nutrice e lavandaia.

Con questa riflessione il flusso dei pensieri è interrotto. L'attenzione della nutrice ora si sposta verso il compito che le è stato affidato dalla padrona e la sua mente pone fine alle reminiscenze del passato.

2.4. Il dialogo con il Coro: v.766-782.

Χο. πῶς οὖν κελεύει νιν μολεῖν ἐσταλμένον; Ki. ἦ πῶς; λέγ᾽ αὖθις, ὡς μάθω σαφέστερον. Χο. εἰ ξὺν λοχίταις εἴτε καὶ μονοστιβῆ. Ki. ἄγειν κελεύει δορυφόρους ὀπάονας. Χο. μή νυν σὺ ταῦτ᾽ ἄγγελλε δεσπότου στύγει, 770 ἀλλ᾽ αὐτὸν ἐλθεῖν, ὡς ἀδειμάντως κλύῃ, ἄνωχθ᾽ ὅσον τάχιστα γηθούσῃ φρενί. ἐν ἀγγέλῳ γὰρ κυπτὸς ὀρθοῦται λόγος.

60 Per questa ragione ho inserito un punto interrogativo nella traduzione.

61 Cfr. vv. 758- 762 in cui Kilissa afferma: “τούτων πρόμαντις οὖσα, πολλὰ δ᾽, οἴομαι, […] ἔχουσ᾽

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Ki. ἀλλ᾽ ἦ φρονεῖς εὖ τοῖσι νῦν ἠγγελμένοις; Χο. ἀλλ᾽ εἰ τροπαίαν Ζεὺς κακῶν θήσει ποτέ; 775 Ki. καὶ πῶς; Ὀρέστης ἐλπὶς οἴχεται δόμων. Χο. οὔπω· κακός γε μάντις ἂν γνοίη τάδε. Ki. τί φής; ἔχεις τι τῶν λελεγμένων δίχα; Χο. ἄγγελλ᾽ ἰοῦσα, πρᾶσσε τἀπεσταλμένα. μέλει θεοῖσιν ὧνπερ ἂν μέλῃ πέρι. 780 Ki. ἀλλ᾽ εἶμι καὶ σοῖς ταῦτα πείσομαι λόγοις. γένοιτο δ᾽ ὡς ἄριστα σὺν θεῶν δόσει.62

Il dialogo con il Coro si apre con una congettura accolta dalla maggior parte degli editori. Al verso 767 M tramanda ἢ πῶς che riprende il πῶς del verso precedente pronunciato dalla corifea. Questa locuzione è più frequente in commedia ed appartiene al linguaggio colloquiale. Inoltre l'interrogativo ὅπως è più diffuso rispetto a ἢ πῶς e dunque il testo necessita di una correzione: o si deve emendare con ὅπως (Schütz) o meglio con τί πῶς (Canter) che attribuisce un tono di sorpresa alla domanda. Il Coro, che è consapevole che Oreste è vivo, consiglia alla nutrice di far in modo che Egisto si presenti agli stranieri da solo, affinché si trovi faccia a faccia con il vendicatore. Il termine usato, μονοστιβῆ, è un hapax utilizzato da Eschilo per evitare il semplice μόνος. Nei successivi quattro versi che interrompono la sticomitia, cosa insolita in Eschilo, Εgisto appare come il padrone odiato e come un tiranno che ha al suo seguito

62Co.“Come ordina che venga? Chi lo deve accompagnare?”

Ki. “Come sarebbe accompagnare? Ripeti, che capisca meglio.” Co.“Con le guardie del corpo o da solo?”

Ki. “Ordina che porti il seguito, armati di lancia”.

Co.“Tu non dare questo annuncio al padrone che odiamo, ma dì, senza paura, che venga lui da solo ad ascoltare più in fretta che può, con la gioia nel cuore. Dipende da chi annuncia se un racconto distorto ha successo.”

Ki. “Ma tu sei contenta per ciò ch'è stato ora annunciato? Co.“E se Zeus una volta soffierà via i nostri mali?” Ki. “Come? Oreste se n'è andato, la speranza della casa”

Co.“Non ancora; sarebbe cattivo profeta chi fosse sicuro di questo” Ki. “Cosa dici? Sai qualcosa di diverso da quello che è stato detto?

Co.“Vai a dare l'annuncio, e compi ciò che è stato ordinato. Agli dei sta a cuore ciò che a loro sta a cuore”

Ki.“Allora vado, e obbedirò a queste tue indicazioni; che vada nel miglior modo, come vogliono gli dei”

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guardie del corpo armate63. Il Coro vuole evitare che queste guardie intervengano a

favore di Egisto che dovrà giungere (ἀδειμάντως?) all'incontro con Oreste e Pilade. Il dubbio riguardo ad ἀδειμάντως è comune a molti editori. Secondo Garvie sembra illogico in riferimento ad Egisto. Egli ritiene che Egisto possa sentirsi più in pericolo se non è accompagnato dalle guardie piuttosto che il contrario. Hartung propone ἀδειμάντων riferendolo ad Oreste e Pilade, intendendo il verso come segue: “che (Egisto) ascolti la notizia da costoro che non abbiano paura”. Hartung crede che siano i finti stranieri a provare paura in presenza delle guardie di Egisto ed a non riuscire nell'intento. Tuttavia quello che interessa al Coro in questa circostanza è l'atteggiamento di Egisto, non quello di Oreste e Pilade.

Una soluzione più neutra è quella proposta da MacLaren che considera ἀδειμάντως come un avverbio indipendente dal resto della frase. L'avverbio è usato dal Coro per istruire Kilissa sulla modalità in cui deve riferire questo messaggio: senza paura, in modo da non risvegliare i sospetti del padrone.

Anche γηθούσῃ φρενί è da riferirsi a Kilissa, sempre in linea con il ragionamento fatto per ἀδειμάντως. Inoltre tutto questo si lega alla frase conclusiva del Coro (v. 773) nella quale si afferma che dipende da lei un annuncio convincente di un messaggio falso. Dunque l'interpretazione di MacLaren potrebbe essere presa in considerazione.

Kilissa, colpita da queste parole, chiede conferme alla corifea che velatamente risponde rassicurandola. Ritengo, come Battezzato e Garvie, che il verso 775 abbia più senso in questo contesto se racchiude un'interrogativa. Per questo è da aggiungere un punto di domanda come propone Murray, non seguito da Page.

La metafora del soffio benefico degli dei che spazza via i mali è molto comune nella trilogia ed anche all'interno della tragedia in generale64. La nutrice è sempre più

stranita da queste parole del Coro come appare dal 776 e 778, ma nonostante ciò decide di andare convinta da Egisto a riferire l'ordine della padrona mediato, però, dai consigli della corifea. Le ultime sue parole sono un augurio a se stessa di buona riuscita del suo compito, aspetto che caratterizza tantissimo la struttura della trilogia65.

63 Ὀπάονες è usato per la scorta data a Danao nelle Suppl. v. 492. 64 Cfr. Ag. 219; Sept. 706; E. El. 1147-8.

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Capitolo terzo: La sacerdotessa delle Eumenidi (v. 1-63)

L'ultimo personaggio che si andrà ad analizzare è la sacerdotessa di Apollo, la Pizia. L'ambientazione dell'ultima tragedia della trilogia cambia: non abbiamo più sullo sfondo il palazzo degli Atridi ad Argo come nelle prime due tragedie, ma ci troviamo davanti al tempio di Apollo a Delfi. La sacerdotessa, prima di entrare nel tempio per consultare l'oracolo, invoca tramite una preghiera le divinità che si sono succedute all'interno del tempio augurandosi che le concedano un buon ingresso nel santuario. Purtroppo, però, il suo desiderio non sarà ascoltato poiché, appena entrata nel tempio, una visione terribile la costringe a scappare via spaventata: un uomo con la spada insanguinata si trova presso il punto più sacro del santuario e di fronte a lui dorme un gruppo di creature difficili da identificare.

Tutta la trilogia si apre, come detto, con una preghiera che nel caso della vedetta dell'Agamennone e della Pizia delle Eumenidi è utile per cogliere degli aspetti importanti del carattere del personaggio che recita queste invocazioni. Anche nelle Coefore il prologo contiene una preghiera. Oreste, infatti, prega Hermes affinché stia al suo fianco e lo protegga durante l'incarico che il dio Apollo gli ha affidato. Inoltre all'interno dei tre prologhi succede all'improvviso qualcosa di estremamente importante che cambia, in meglio o in peggio, la condizione del personaggio: la vedetta, alla vista della fiaccola, passa da una condizione di tristezza e sofferenza alla liberazione. Oreste, scorgendo Elettra e le portatrici di libagioni, si colpevolizza per non essere stato presente durante l'omicidio del padre e si convince ancor di più della vendetta che deve compiere. La Pizia, alla vista di quel gruppo di stranieri empi, passa da uno stato d'animo di serenità e pace ad una condizione di terrore che solo una sacerdotessa può provare quando vede che il suo tempio, nel punto più sacro, è stato profanato.

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3.1. L'invocazione alle divinità maggiori: v. 1-20. Πρ. πρῶτον μὲν εὐχῇ τῇδε πρεσβεύω θεῶν τὴν πρωτόμαντιν Γαῖαν· ἐκ δὲ τῆς Θέμιν, ἣ δὴτὸμητρὸςδευτέρατόδ᾽ἕζετο μαντεῖον, ὡςλόγοςτις·ἐνδὲτῷτρίτῳ λάχει, θελούσης, οὐδὲπρὸςβίαντινός, 5 Τιτανὶς ἄλλη παῖς Χθονὸς καθέζετο, Φοίβη, δίδωσι δ᾽ ἣ γενέθλιον δόσιν Φοίβῳ· τὸ Φοίβης δ᾽ ὄνομ᾽ ἔχει παρώνυμον. λιπὼν δὲ λίμνην Δηλίαν τε χοιράδα, κέλσας ἐπ᾽ ἀκτὰς ναυπόρους τὰς Παλλάδος, 10 ἐς τήνδε γαῖαν ἦλθε Παρνησοῦ θ᾽ ἕδρας. πέμπουσι δ᾽ αὐτὸν καὶ σεβίζουσιν μέγα κελευθοποιοὶ παῖδες Ἡφαίστου, χθόνα ἀνήμερον τιθέντες ἡμερωμένην. μολόντα δ᾽ αὐτὸν κάρτα τιμαλφεῖ λεὼς, 15 Δελφός τε χώρας τῆσδε πρυμνήτης ἄναξ. τέχνης δέ νιν Ζεὺς ἔνθεον κτίσας φρένα ἵζει τέταρτον τοῖσδε μάντιν ἐν θρόνοις· Διὸς προφήτης δ᾽ ἐστὶ Λοξίας πατρός. τούτους ἐν εὐχαῖς φροιμιάζομαι θεούς66. 20

Ιn questi primi versi la sacerdotessa invoca le divinità più importanti del tempio di Delfi in ordine di successione. Inizia da Gaia che è definita la prima divinità oracolare67 e che di conseguenza testimonia l'antichità dell'oracolo di Delfi 66 Pizia: “Fra tutte le divinità voglio onorare per prima cosa, Gaia la prima divinità oracolare; dopo di

lei Temis, che per seconda occupò il trono profetico della madre, come dice il mito; per terza venne, per volontà di Temis, e non per costrizione di qualcuno, un'altra Titanide figlia della Terra, Febe, che lo donò, come regalo di nascita, a Febo, il quale ha il nome che deriva da Febe. Dopo aver lasciato il lago e le rocce di Delo approdò alle rive portuose di Pallade e giunse a questa terra e alle sedi del Parnaso. Gli fecero da scorta e lo onorarono grandemente i figli di Efesto che gli aprirono il cammino rendendo ospitale un luogo selvaggio. Una volta giunto, il popolo e Delfo, signore timoniere di questa terra, lo onorarono fortemente. Zeus instillandogli nel cuore l'arte profetica lo mise sul trono come quarto vate: il Lossia è dunque profeta del padre Zeus. Queste divinità io comincio ad invocare nelle mie preghiere.”

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conferendogli una grande importanza. L'ordine delle divinità prosegue con Temis68,

figlia di Urano e Gaia e sorella di Cronos che succede al padre spodestandolo, come fa Zeus con lui. Dunque Gaia è signora dell'oracolo di Delfi durante il regno di Urano, mentre Temis durante quello di Cronos e dopo la presa del potere da parte di Zeus, Apollo si sostituisce a Temis come divinità di Delfi.

La terza dea protettrice è Febe69, della stirpe dei Titani. La Pizia afferma al v. 5

che la Titanide, sorella di Temis, è succeduta a lei senza ricorrere a nessun tipo di violenza. É da notare che il tragediografo evita di menzionare episodi di spodestamento o di successioni burrascose al contrario di quanto tramanda la tradizione. Eschilo cambia la versione classica del mito secondo la quale Apollo ha preso possesso del santuario di Delfi con la forza sottraendolo ad un'entità ctonia o ad un serpente o ad una divinità. Il tragico propone, invece, una variante pacifica della successione per adattarla ai toni della preghiera e perché vuole mettere in evidenza la riconciliazione degli dei Ctoni e degli Olimpi ai quali la Pizia rivolge le sue preghiere indistintamente70.

Febe è associata solo in questo passo a Delfi e probabilmente è introdotta in questo punto dell'invocazione per rendere la successione più lunga e più venerabile, evidenziando che si tratta quasi di un'eredità familiare.

A Febe succede Apollo al quale la nonna ha donato il trono profetico come regalo per la sua nascita71 e di conseguenza il secondo nome di Apollo, Febo, è stato

attribuito in onore di Febe. Su Apollo, la Pizia si sofferma molto di più rispetto alle altre divinità. La sacerdotessa inizia con la narrazione della nascita del dio fino al suo arrivo a Delfi e all'instaurazione nel tempio come divinità ufficiale. Delo, luogo natale di Apollo, è spesso presentata come un paesaggio roccioso72 sul quale sorge un santuario,

seconda genealogia divina secondo Esiodo. Per il suo carattere ctonio, la dea Terra possiede poteri profetici e dunque è la prima divinità dell'oracolo di Delfi, come testimonia anche Paus. 10.5.5.

68 Θέμις può significare

<< responsi oracolari>> come testimonia Hom. Od. XVI 403 e Pind. Pyth. IV 54.

Θεμιστεύειν invece <<dare oracoli>>. Cfr. E. Ion. 371. Inoltre sembra che Temis non sia legata

esclusivamente a Delfi, ma che abbia poteri oracolari indipendentemente dal culto di Apollo, infatti in Aesch. Prom. 209 ss. trasmette la conoscenza del futuro a Prometeo, suo figlio.

69 Febe, la splendente, è anch'essa figlia di Urano e Gaia e madre di Leto, madre di Apollo. Cfr. Hes.

Theog. 404 ss. È notevole che la radice φοεβ- ricorra tre volte all'interno in due versi.

70 Questo aspetto è in contrasto con quanto si afferma in Ag. 168-175 in cui i predecessori di Zeus non

sono neanche nominati.

71 Il compleanno di Apollo cadeva nel settimo giorno del mese delfico Bisio (il nostro Febbraio). Plut.

Mor. 292 e-f testimonia che in tempi antichi questo era l'unico giorno in cui si poteva consultare l'oracolo.

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