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Centro sociale A.03 n.10-11. Inchieste sociali servizio sociale di gruppo educazione degli adulti

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Centro Sociale

inchieste sociali - servizio sociale di gruppo

educazione degli adulti

a- IH — 11 ■ 10-11, 1956 — un numero con tav. alleg. L. 400 — abbonamento a 6 fascicoli e 6 tavole 70X 100 allegate L. 2.200 - estero L. 4.000 abbonamento alle sole 6 tavole L. 900 — spedizione in abbonamento postale gruppo IV - c. c. postale n. 1/20100 - Direzione Redazione Amministrazione: piazza Cavalieri di Malta, 2 - Roma - telefono 593.455

S o m m a r i o

i

Silenzio

V. Olivetti 3 Cenni storici sulla dinamica di gruppo

N. Numeroso 5 Un seminario sulla dinamica di gruppo

A . Ossicini 2 2 I gruppi diagnostici

Mario Calogero Comandini

2 6 Inconvenienti del lavoro di gruppo

3 1 Indicazioni bibliografiche sulla psicologia sociale 3 5 D ocum enti 4 5 Notizie 5 4 Estratti e segnalazion i S t a t o d e l l a r i c e r c a e t n o l o g i c a - A b i t a z i o n e e s v i l u p p o e c o n o m i c o - A z i o n e s o c ia le e d i f f u s i o n e d e l la c u l t u r a . A llegati

La Costituzione Italiana : III. I principi fon­ damentali (tavola di G ianni P o lid ori, testo di A c h ille Battaglia e M a rcello C apurso)

Recensioni: D. Dolci, In ch iesta a P alerm o(L. B e n ev o lo ); D . R i e s m a n , N. G la z e r , R . D e n n e y , L a fo l la solitaria

(F. F err a r otti).

Periodico bimestrale redatto a cura del Centro Educazione Professionale Assistenti Sociali sotto gli auspici dell’ UNRRA CASAS Prima Giunta

Comitato di direzione: Achille Ardigò, Vanna Casara, Giorgio Molino, Ludovico Quaroni, Giorgio Ceriani Sebregondi, Giovanni Spagnoili, Angela Zucconi - Direttore responsabile:Paolo Volponi - Redattore:Anna Maria Levi

(3)

Silenzio

« ... tra i vizi più strami e più gravi della nostra epoca, va menzio­

nato il silenzio. Quelli di noi che oggi hanno provato a scrivere dei romanzi,

conoscono il disagio, l’infelicità che coglie quando è il momento di far

parlare dei personaggi tra loro. Per pagine e pagine, i nostri personaggi

si scambiano delle osservazioni insignificanti, ma cariche d’una desolata

tristezza.: ’’ Hai freddo?

— No, non ho freddo. — Vuoi un po’ di i è ? —

Grazie, no.

— Sei stanco? — Non so. Sì, forse sono un po stanco . I

nostri personaggi parlano così. Parlano così per ingannare il silenzio.

Parlano così perché non sanno più come parlare. A poco a poco vengono

fuori anche le cose più importanti, le confessioni terribili:

Lo hai

ucciso ? — Sì, l’ho ucciso ”. Strapipate dolorosamente al silenzio, vengono

fuori le poche, sterili parole della nostra epoca, come segnali di naufraghi,

fuochi accesi tra colline lontanissime, flebili e disperati richiami che

inghiotte lo spazio.

Allora, quando vogliamo far parlare tra loro i nostri personaggi,

allora misuriamo il profondo silenzio che s’è addensato a poco a poco

dentro di noi. Abbiamo cominciato a tacere da ragazzi, a tavola, di

fronte ai nostri genitori che ci parlavano ancora con quelle vecchie

parole sanguinose e pesanti. Noi stavamo zitti. Stavamo zitti per pro­

testa e per sdegno. Stavamo zitti per far capire ai nostri genitori che

quelle loro grosse parole non ci servivano più. Noi ne avevamo in

serbo delle altre. Stavamo zitti, pieni di fiducia nelle nostre nuove

parole. Avremmo speso quelle nostre nuove parole più tardi, con gente

che le avrebbe capite. Eravamo ricchi del nostro silenzio. Adesso ne

(4)

siamo vergognosi e disperati, e ne sappiamo tutta la miseria. Non

ce ne siamo liberati mai più. Quelle grosse parole vecchie, che servi­

vamo ai nostri genitori, sono moneta fuori corso e non l’accetta nessuno.

E le nuove parole, ci siamo accorti che non hanno valore, non ci si

compra nullo,. Non servono a stabilire rapporti, sono acquatiche, fredde,

inf econde. Non ci servono a scrivere dei libri, non a tener legata a noi

una persona cara, non a salvare un amico

».

,

« Di solito questo vizio del silenzio che avvelena la nostra epoca lo

si esprime con un luogo comune: ” Si è perduto il gusto della conver­

sazione

E’ l’espressione futile, mondana, di una cosa vera e tragica.

Dicendo ” il gusto della conversazione ” noi non diciamo niente che ci

aiuti a vivere: ma la possibilità di un libero e normale rapporto fra gli

uomini, questo sì ci manca, e ci manca al punto che alcuni di noi si sono

ammazzati per la coscienza di questa privazione. Il silenzio miete le sue

vittime ogni giorno. Il silenzio è una malattia mortale.

Mai come oggi, le sorti degli uowÀni sono state tanto strettamente

connesse l’una all’altra, così che il disastro di uno è il disastro di tutti.

Si verifica dunque questo fatto strano: che gli uomini si trovino stret­

tamente legati l’uno al destino dell’altro, così che il crollo di un solo

travolge migliaia d’altri esseri, e nello stesso tempo tutti soffocati dal

silenzio, incapaci di scambiarsi qualche libera parola. Per questo

perché il disastro di uno è il disastro di tutti

— i mezzi che ci sono

offerti per guarire dal silenzio si rivelano insussistenti. Ci viene sugge­

rito di difenderci con l’egoismo della disperazione. Ma l’egoismo non

ha mai risolto nessuna dispemzione. Siamo anche troppo avvezzi a

chiamare

malattie

i vizi della nostra anima, e a subirli, a lasciarcene

governare, o a blandirli con sciroppi dolci, a curarli come fossero malat­

tie. Il silenzio dev’essere contemplato, e giudicato, in sede morale. Non

ci è dato scegliere se essere felici o infelici. Ma

bisogna

scegliere di

non essere

diabolicamente

infelici. Il silenzio può raggiungere una forma

d’infelicità chiusa, mostruosa,

diabolica;

avvizzire i giorni della giovi­

nezza, fare amaro il pane. Può portare, come si è detto, alla morte.

Il silenzio dev’essere contemplato, e giudicato, in sede morale. Per­

ché il silenzio, come l’accidia e come la lussuria, è un peccato. Il fatto

che sia un peccato comune a tutti i nostri simili nella nostra epoca, che

sia il frutto amaro della nostra epoca malsana, non ci esime dal dovere

di riconoscerne la natura, di chiamarlo col suo vero nome

».

(5)

Cenni storici sulla dinamica di gruppo

di Vittoria Olivetti

Nella psicologia sociale ha assunto in questi ultimi anni particolare

importanza lo studio dei gruppi e in modo particolare lo studio delle

interazioni tra i membri di un gruppo, cioè delle modificazioni che avven­

gono nella struttura come totalità, come prodotti delle modificazioni di

ogni parte del gruppo.

Come è noto, gli studi sulla dinamica di gruppo traggono la loro

origine dalla Gestaltpsychologie o psicologia della forma, una scuola che

fiorì in Austria verso il 1910 e i cui esponenti maggiori furono Werthei­

mer, Köhler e Koffka. Il principio fondamentale della Gestalt secondo le

parole stesse di Wertheimer così si può formulare : « Le forme sono strut­

ture integrali il cui comportamento non è determinato dal comportamento

degli elementi singoli che le compongono, ma dalla natura intrinseca del­

l'insieme ». Questa teoria si opponeva pertanto alle concezioni atomistiche

e associazionistiche della percezione fino allora invalse, introducendo in

psicologia il concetto di campo, concetto che si dimostrò fecondissimo

di applicazioni. Si affermava con ciò che non esistono in psicologia sen­

sazioni pure senza condizioni di percezione, come non esistono in fisica

processi fisici puri. Gli elementi della forma in base alla Gestalt vengono

determinati dalla forma globale e non viceversa, così come in un campo

elettromagnetico ogni processo parziale dipende da ogni altro processo

parziale che si svolge nel campo. E Köhler estendendo questo concetto

affermava : « E’ giustificato applicare il concetto di campo al campo uni­

versale che abbraccia anche l’io e le tensioni che esistono tra l’io e il

suo ambiente ».

Ma fu propriamente Kurt Lewin che, emigrato negli Stati Uniti,

applicò i principi della Gestalt alla psicologia sociale costruendo la psico­

logia vettoriale.

Lewin fondava la sua teoria sul concetto che esista uno spazio

sociale che abbia le proprietà dello spazio fisico studiato dalla matema­

tica e dalla geometria, e venne pertanto ad applicare i principi mate­

matici e propriamente quelli della topologia o analysis situs (quella

branca della geometria che studia i rapporti di posizione indipendente­

mente dalla distanza, forme e direzione) ai rapporti umani, creando

nuovi mezzi di indagine e nuove tecniche nel campo dei rapporti sociali.

Soprattutto gli studi di Lewin, Lippitt e White dimostrarono l’impor­

tanza del fatto sociale in ogni tipo di comportamento : infatti l’individuo

dal primo giorno della sua nascita è membro di un gruppo : gli espe­

(6)

rimenti condotti sui processi di successo o di fallimento, sui livelli di

aspirazione, intelligenza, frustrazione, hanno dimostrato che i valori che

l’individuo si costruisce, i suoi scopi, il suo modo di vita, sono influen­

zati dagli standards sociali del gruppo cui appartiene o cui desidera

appartenere.

Importantissimi per lo sviluppo del fanciullo sono i processi con cui

assimila o si oppone al modo di vita del gruppo in cui vive, alle forze

che lo inducono a far parte di un gruppo o che determinano il suo stato

sociale e il suo senso di sicurezza all’intemo di questo. La scuola di

Lewin pose l’accento sull’utilità del lavoro e della discussione di gruppo

e sull’importanza di sviluppare la coscienza di partecipazione attiva nei

suoi membri. Soprattutto è stato dimostrato che è possibile sviluppare

notevolmente gli atteggiamenti costruttivi e lo spirito di collaborazione

se si lascia che i membri del gruppo partecipino ai processi di decisione.

Altri esperimenti rivelarono che il metodo della discussione collet­

tiva risulta da due a tre volte più efficace della semplice conferenza e

di efficacia quasi doppia del metodo della istruzione individuale.

Questi principi si dimostrarono assai fecondi nei metodi di adde­

stramento e nelle relazioni umane.

Anche per quanto riguarda i metodi educativi un metodo che si basi

sull’utilizzazione delle forze insite nel gruppo (metodo democratico) è più

valido del metodo autocratico in cui il leader non consente alle forze dei

membri di esplicarsi liberamente. Nell’esperimento compiuto da Lippitt

e White nel Iowa Cliild Welfare Research Station si studiò sperimen­

talmente l’atmosfera creata in un gruppo da parte di un leader demo­

cratico e quella creata da un leader autocratico : fu possibile in tal modo

osservare la differenza tra le due situazioni e si constatò che nel com­

plesso l’atmosfera autoritaria comporta una dominazione aggressiva da

parte del leader e una limitazione alla libertà di movimento dei membri,

mentre nei bambini si nota una maggiore dipendenza dal leader e un

atteggiamento ostile e critico verso i compagni, senza peraltro una

accentuazione di personalità. I risultati dell’esperimento dimostrarono

chiaramente anche per quanto riguarda il rendimento che il metodo

democratico è assai più proficuo.

Oltre i contributi notevoli di Lewin e della sua scuola allo studio

dei gruppi si deve inoltre ricordare l’importante lavoro condotto da

Moreno che, emigrato da Vienna negli Stati Uniti, vi fondò la sociome­

tría, la cui Bibbia è costituita da « Who shall survive? ». Con la sua

opera Moreno si propose di creare una nuova scienza religiosamente ispi­

rata o una religione scientifizzata che si fondasse sulla spontaneità e crea­

tività quali forze propulsive del progresso umano, forze che in opposi­

zione alla psicanalisi sono concepite come prelibidiche ed extralibidiche.

Con questa scienza e con le sue nuove tecniche (psicorappresenta­

zioni e psicoterapia di gruppo) Moreno intese creare una società « super­

dinamica » basata sul rapporto di spontaneità e d’amore tra i membri

dei gruppi. Moreno sentì d’aver raccolto l’eredità di Socrate il creatore

del dialogo e di Gesù il guaritore ed almeno nelle sue intenzioni la sua

opera dovrebbe avere valore soteriologico per una civiltà dominata ormai

dalle macchine e dai robot.

(7)

Un seminario sulla dinamica di gruppo

di Niccolò Numeroso

Dal 27 novembre al 6 dicembre

dello scorso anno si è svolto presso il

CEPAS (Centro Educazione Pro­

fessionale per Assistenti Sociali), or­

ganizzato da questo stesso ente, un

seminario psicopedagogico sulla « di­

namica di gruppo », diretto da tre

docenti americani (1). Questi, che fa­

cevano parte di un’équipe di 5 esperti

invitati dall’Agenzia Europea della

Produttività (Progetto 339) a svolge­

re, in varie città europee, programmi

relativi all’insegnamento delle Human

Relations,

erano : Mr. D. A. Nylen,

uno dei dirigenti in U.S.A. dei ser­

vizi di orientamento professionale e

di psicologia scolastica, Mr. H. A.

Thelen, professore di sociologia al

Department of Education

dell’Uni­

versità di Chicago e Mr. H. J. Lea-

vitt, professore incaricato alla School

of Business

dell’Università di Chica­

go e consulente industriale per i pro­

blemi di formazione, di selezione e

organizzazione.

Al seminario hanno partecipato un

gruppo di docenti del CEPAS, tra

cui tre psicologi ; la dirigente dello

stesso ente con la sua équipe di assi­

stenti sociali ; un altro gruppo di

as-(1) V. « Centro Sociale », n. 8-9, pag. 45.

sistenti sociali, monitori delle scuole

di servizio sociale di Roma e addetti

al lavoro di gruppo ; dirigenti di enti

assistenziali interessati a questi pro­

blemi e rappresentanti dell’IRl e

del Comitato Nazionale per la Pro­

duttività (tra questi ultimi su quat­

tro tre erano psicologi).

Scopo del seminario era non tanto

di fornire una panoramica informa­

tiva e culturale, sia pure approfon­

dita, dei principali problemi della

psicologia di gruppo, quanto di per­

fezionare in questo campo, su un

piano teorico-pratico, la formazione

professionale degli assistenti sociali

« group-workers » e degli educatori

degli adulti.

Prima di esporre, sia pure a grandi

linee, lo svolgimento del seminario è

opportuno fare alcuni cenni su que­

sta branca della psicologia sociale, che

in una prospettiva quanto mai fe­

conda di ricerche, di osservazioni e

di ipotesi considera l’uomo non più

monade psicologica, ma inserito nel

concreto tessuto del gruppo o dei

gruppi, del quale egli finisce con l’es­

sere, per un verso o per l’altro e in

misura differente, membro operante.

(8)

Cos’ è la dinamica di gruppo?

E’ un settore della psicologia so­

ciale, o meglio della psicosociologia,

che costituisce oramai un indirizzo

ed un movimento di ricerca e di ap­

plicazione ben definito, sviluppatosi

nel Nord-America ad opera di Kurt

Lewin e dei suoi allievi.

Il Lewin, oltre ad essere già noto

per Fimportante concezione psicolo­

gica della Fielet Theory (1) fu un

innovatore della Psicologia sociale

nordamericana del periodo 1935-1945,

portandovi rigore di metodo e origi­

nalità di pensiero. L’attività scienti­

fica sua e dei suoi collaboratori —

F. J. Brown, D. Cartwright, R. Lip-

pitt, L. Festinger, W. H. White ecc.

— portò nell’immediato dopoguerra

alla creazione di un centro di studio

presso l’Università di Michigan, che

(1) K

urt

L

ewin

,

psicologo tedesco, emi­

grato dalla Germania negli U.S.A. nel 1932

per motivi razziali e politici, fu, come è noto,

un geniale e audace innovatore anche nel

campo della psicologia generale. Di lui

come psicologo va ricordata l’opera Prin-

ciples of topological Psychology (Me Graw-

Hill, 1936, New York), che rappresenta un

tentativo di dare, in forma nuova, un’espres­

sione e descrizione matematica della psico­

logia, servendosi non dell’usuale apparato

di misura quantitativo della matematica, ma

del sistema concettuale topologico, spaziale,

non numerico. La topologia (settore della

matematica che della spazialità studia le

caratteristiche e le proprietà senza tener

conto di forze, distanze e direzioni), con­

sente, difatti, così come l’ha utilizzata Lewin,

che prima di divenire psicologo era fisico,

di descrivere una situazione psicologica an­

che complessa, mediante i suoi propri con­

cetti di campo, regione, posizione, confine,

percorso, connessione, ecc.; che non solo

non avrebbero minor rigore, ai fini descrit­

tivi, delle descrizioni esatte mediante nu­

meri, ma permetterebbero di afferrar meglio

la complessità dei fenomeni psicologici. Il

concetto di « campo psicologico », ad esem­

pio, esprime spazialmente il comportamento

di un individuo in rapporto ad un ambiente,

nel determinismo del quale entrano in stretta

interdipendenza fattori inerenti sia all’indi­

dopo qualche anno, nel 1949, si tra­

sformò in «Institute for Social Re­

search » (2), la cui attività attual­

mente si rivolge allo studio di feno­

meni sociali sempre più complessi in

una propettiva intelligentemente inte­

gratrice degli aspetti sociologici e

psicologici che li condizionano.

La dinamica di gruppo concerne

quel complesso di osservazioni sul « vi­

vo », di ricerche sperimentali, di teo­

rie, di tecniche psico-sociologiche, che

concorrono allo studio dei gruppi so­

ciali ristretti,

dei quali essa vuole in­

dividuare i momenti caratteristici e le

condizioni di costituzione come di svi­

luppo, di maturità come di dissoluzio­

ne, in una direttiva di pensiero che

sfocia in un ampio « carrefour », do­

ve il biologico, lo psicologico ed il so­

ciale s’incontrano senza più separarsi.

viduo sia all’ambiente: l’insieme di questi

costituisce una « totalità », che Lewin chia­

ma « spazio vitale » (Life space), che il

campo psicologico è in grado di rappresen­

tare meglio di qualsiasi sistema di descri­

zione matematica quantitativa.

La topologia, tuttavia, non basta ai fini

psicologici: essa fornisce difatti, solo una

descrizione statica delle strutture psicolo­

giche. Ogni comportamento umano, invece,

modifica queste, ed allora bisogna ricorrere

per la descrizione delle trasformazioni di

struttura, a concetti adeguati a questo li­

vello, e cioè dinamici, che Lewin mutua

anche dalla fisica: sono allora i vettori, le

valenze, le forze del campo, le permeabi­

lità, etc., che permettono di avere un’idea

delle direzioni, del senso, dell’intensità dei

movimenti psicologici e quindi anche dei

mutamenti di struttura. Questa trama con­

cettuale dinamica si trova esposta in un’al­

tra sua opera (cronologicamente la prima),

Dinamic Theory of Personality (Me Graw-

Hill, 1935, New York). Allo studio dei

grupni sociali, quindi, egli fu indotto, oltre

che dall’ambiente scientifico nordamericano

straordinariamente favorevole alla Sociolo­

gia e alla Psicologia sociale, dalla stessa

sua concezione tonologica e dinamica della

Psicologia.

(2) Quest’Istituto ha una sua propria ri­

vista, Human Relations pubblicata in colla­

borazione con l’Istituto Tavistock di Londra.

(9)

Presentandosi attualmente come un

vero e proprio « corpus doctrinae »,

diffìcilmente le si potrebbe contestare

il carattere di scienza dei gruppi

umani (a livello delle microstrutture

sociali), autonoma, dai propri metodi

d’indagine, dal definito oggetto di ri­

cerca. Scienza che non rifugge, sul

piano applicativo, dall’affrontare ope­

rativamente e con spregiudicatezza

vari problemi pratici delle piccole

collettività.

Problemi come i pregiudizi di

gruppo, i conflitti interpersonali nel­

l’ambito del gruppo, gli aspetti psico­

sociali della produttività, le caratteri­

stiche della leadership, il « morale »

dei gruppi di lavoro etc., sono esempi

delle preoccupazioni sociali e pratiche

dei ricercatori della « dinamica di

gruppo ». Un’idea delle originali te­

matiche di questa scienza è data dalle

ricerche sulle « comunicazioni » (la

« densità » e le caratteristiche delle

quali sono uno dei fattori di sviluppo

e di stabilizzazione del gruppo), sulla

« coesività » (grado di unione — af­

fettiva e funzionale — dei membri,

in rapporto alle finalità del gruppo),

sulla leadership (l’insieme delle fun­

zioni di direzione operativa di un

gruppo).

Il punto di vista, la prospettiva,

dalla quale si pongono gli studiosi

della group dinamics è quello di con­

siderare il gruppo ristretto vera e

propria microstruttura, isolabile nel­

l’intricata realtà sociale, « campo vi­

tale » dell’azione degli individui, cro­

giuolo nel quale si fondono, per assu­

mere nuova forma, da un lato, gli

individui, portatori del loro personale

mondo di valori, opinioni, sentimenti,

etc., e dall’altro le istituzioni e cioè

le leggi, le norme di costume, le pecu­

liarità della « cultura » nazionale, etc.

Punto di vista importante di questa

scienza, dunque, è la concezione del

gruppo come unità originale, auto­

noma, che si comporta come « un

tutto », inscindibile, non riconducibile

alle unità che sono i suoi membri.

Questa concezione del gruppo come

istanza psico-sociologica unitaria si

riflette anche attraverso l’adozione di

una terminologia, che al gruppo ap­

plica termini simili a quelli che defi­

niscono le condotte individuali. Si

parla, difatti, di « comportamento »

del gruppo, allo stesso modo con cui

si parla di comportamento del singolo.

Il gruppo ha forze e pulsioni originali

proprie, propri bisogni

( groups

needs),

e così pure propri scopi

(groups goals)

diversi da quelli dei

singoli membri. Osservando e stu­

diando i gruppi, sia « in vivo », sia

in situazioni sperimentali determi­

nate, da « laboratorio », s’identificano

le possibili evenienze concrete della

loro vita, i loro « conflitti » interni

(tra i membri), od esterni (con altri

gruppi), le loro « frustrazioni », le

loro modalità reattive in rapporto a

situazioni-stimolo del più vasto am­

biente sociale etc.

Di tutti questi eventi la group

dinamics

esplora, indaga le condi­

zioni e lo sviluppo da un punto di

vista « dinamico », cioè tendente a

cogliere le strutture in movimento ed

in evoluzione e a determinarne le

leggi, così come la psicologia detta

dinamica tende a cogliere dell’indi­

viduo le sue strutture psicologiche —

motivazionali e strumentali — in una

prospettiva dinamica (che è quella,

poi, che permette allo psicologo l’ap­

proccio, concreto e scientifico al tempo

stesso, allo studio del singolo). Più

pregnante diviene il raffronto tra

queste istanze comuni della psicologia

dinamica e di quella di gruppo, se si

pone mente, come già si è accennato

avanti, all’uso dei termini, che la se­

conda ha mutuato dalla prima (moti­

vazioni, bisogni, comportamenti, con­

flitti, frustrazioni etc.).

Non che, da un lato, le peculiarità

proprie alla psicologia di gruppo non

(10)

abbiano carattere di vera originalità

(e ciò risulta sufficientemente chiaro

da quanto finora si è venuto dicendo,

sia pure a grandi linee) e, dall’altro,

non vi siano istanze di ricerca, che

pongono l’accento sull’individuo anzi­

ché sul gruppo. Ma, a questo riguardo,

il « singolo » nella psicologia di grup­

po viene osservato in una prospettiva

nuova e densa di implicazioni. Di esso,

difatti, vengon sottolineati i « ruoli »

nell’ambito del gruppo (di cui è mem­

bro o « leader »), in rapporto alle fina­

lità da esso perseguite.

I « ruoli » implicano dei comporta­

menti individuali, che evidentemente

nella realtà concreta realizzano la sin­

tesi tra caratteristiche personali, nelle

quali sono travasate in differente

forma e quantità le istanze socio-

culturali generali (razza, nazione,

cultura, costumi etc), e tra quelle pro­

prie del gruppo o dei gruppi in cui il

singolo opera con la sua funzione,

col suo ruolo. Questi « comporta­

menti » definiscono nel loro insieme

la personalità del singolo, che è quindi

personalità socializzata nel gruppo.

Ma cos’è la « personalità-ruolo » se

non quella che è adombrata nello

stesso significato etimologico della

parola personalità, « persona » in

senso la tin o , cioè maschera? La

« dinamica di gruppo » si collega

per questo punto (e non solo per

questo) (1) a quell’altro movimento

psico-sociologico, che fa capo a I. L.

Moreno : per entrambi la personalità

si può considerare — al limite — un

ruolo-maschera. Il ponte così è lan­

ciato, in maniera suggestiva, da en­

trambi i movimenti, tra noi, uomini

del 2000, e l’antichità classica in un

originale accostamento ideale, teatro

greco — socio-psicologia moderna.

Non le persone singole agiscono sul

(1) La dinamica di grupno mutua dalla

psico-sociologia moreniana i metodi socio­

metrici e, ancor più, le tecniche sociodram­

matiche.

proscenio della storia umana, ma i

personaggi, intricati composti in sé,

portatori di « ruoli » in funzione di

scopi collettivi.

Son questi « ruoli » che importa

conoscere e che danno, in rapporto

appunto alle finalità collettive, la di­

rezione della ricerca nello studio dei

comportamenti sociali degli individui.

Una serie di problemi nuovi si

vengono così enucleando, che impon­

gono nuovi punti di vista, e conse­

guentemente nuove tecniche.

Nuovi punti di vista : essi si riflet­

tono anche su questioni che hanno

costituito fino a pochi decenni fa

specifico oggetto di studio della psico­

logia. Si prenda, ad esempio, il pro­

blema della percezione. E’ lo studio

della percezione in una prospettiva

« sociale » quella che conta, in defini­

tiva, nell’affrontare e studiare le mo­

dalità concrete con cui l’individuo

afferra e comprende la realtà imme­

diata di cui fa parte. « Come » il sin­

golo percepisce significa esaminare in

qual modo il suo mondo di valori (che

è un derivato, un « a posteriori », la

cui coordinata sociale — istituzioni,

tradizioni, cultura etc. — è premi-

minente) seleziona e organizza, per

finalità condizionate dalle microstrut­

ture di cui fa parte, la realtà circo­

stante. Processo intricato, ma non

inconoscibile alla scienza umana, e,

entro certi limiti, sperimentabile.

Sotto nuove prospettive vengono

visti altri problemi fin allora di na­

tura prevalentemente psicologica: la

motivazione, l’apprendimento (lear-

ning)

etc.

Nuove tecniche : chi potrebbe di­

sconoscere che l’importanza data al

feed-back

(termine letteralmente in­

traducibile : feed, nutrirsi ; back, in­

dietro, da ciò che ritorna ; che tuttavia

potrebbe tradursi con « azione di ri­

(11)

tomo », « eco »), non sia una vera e

propria tecnica — indispensabile — ,

più che un suggerimento di metodo?

Anche se, per certi aspetti, richiama

alla mente dello psicologo certe con­

dizioni una volta prescritte dalla

classica psicologia per realizzare una

buona introspezione, quel porsi, cioè,

in autosservazione vigile nell’atto

stesso dell’agire, quasi uno sdoppiarsi

della propria personalità, un affac­

ciarsi alla finestra di se stesso? Il

feed-back

è però più che un richiamo

all’autosservazione di sé : è una di­

sposizione della sensibilità propria

non soltanto a « vedersi » agire, ma

a vedersi agire tra gli altri e con gli

altri, nell’accoglienza di questi ultimi

in una dimensione nuova della com­

prensibilità altrui; che l’eco, il feed­

back

soltanto — questo ritorno tra­

sformato a noi, attraverso le altrui

reazioni, di ciò che agli altri si comu­

nica e si dà — può fornire, e talvolta

fornisce in maniera creativa, matrice

del nuovo.

E, può dirsi, anche più che tecnica

è il f eed-back, perché mentre qualsiasi

tecnica -diviene, quando si voglia,

oggetto di apprendimento, questa ri­

chiede una particolare sensibilità di

fondo, vera e p r o p r ia attitudine

« specifica », ovviamente educabile,

ma non travasabile in chi ne sia

sfornito. Ed ancora, potrebbe so­

stenersi in una diversa prospettiva,

atteggiamento filosofico e morale, più

che tecnica, d’ispirazione socratica :

di un Socrate che al « conosci te

stesso » avesse aggiunto « e gli altri »

in una dimensione che al di là dell’in­

dividuo avesse considerato il suo cir­

costante mondo sociale, nell’intreccio

composito dei rapporti tra i singoli.

Non stupisce che uno dei suoi cul­

tori, il Thelen, nel definire la dinamica

di gruppo si esprime « questo movi­

mento controverso, seducente e quasi

religioso ... ».

Un’altra delle tecniche adottate

dalla dinamica, conseguentemente al

modo con cui essa concepisce il sin­

golo come membro del gruppo, e

quindi portatore di un « ruolo », è

quella già citata del role-playing ov­

vero del sociodramma, scoperto dal

Moreno. Laddove il feed-back non

perviene per intricata complessità di

situazioni, per relativa efficienza dei

singoli nel praticarlo, per interferen­

za di conflitti interpersonali palesi o

latenti etc., l’adozione e lo scambio di

ruoli fittizi, riproducenti i personaggi

della situazione da chiarire e la conse­

guente azione drammatica, avente per

trama — vero canovaccio — i termini

generali della situazione-problema,

permette di rendersi conto delle vere

istanze motivanti di questa e quindi

di rimuoverle, chiarendole e affron­

tandole, se in esse si ravvisano osta­

coli alle finalità del gruppo.

Quanto sopra, vuole essere solo

un’esposizione dei principali aspetti

di questo movimento psico-sociologico,

e più pertinenti al fine di far meglio

cogliere al lettore le caratteristiche

del nostro seminario.

Svolgimento del seminario

Trattandosi di un seminario di « di­

namica di gruppo », i metodi di adde­

stramento non potevano non essere a

loro volta « dinamici », cioè impron­

tati al principio di far scoprire al

gruppo stesso, sia pure con la guida

del docente, gli aspetti pertinenti dei

problemi (esempio : come si sviluppa

l’interazione reciproca tra i membri,

quali i « ruoli » degli stessi, le fun­

zioni del « leader » etc.). Tuttavia ciò

non escludeva le lezioni dei consulenti

americani. Questi dedicavano soltanto

un’ora e mezza sulle otto quotidiane,

che per ben nove giorni hanno impe­

gnato i partecipanti al seminario. Le

nozioni essenziali venivano fornite con

esemplare metodo didattico, oltre che

attraverso un perfetto gioco delle

(12)

parti. D’altra parte nessun « allievo »

era del tutto sfornito di nozioni di

psicologia, in quanto questa materia,

come è noto, viene largamente inse­

gnata nei corsi delle scuole per assi­

stenti sociali : e ciò ha certamente

reso più vivace, più interessante, e più

« creativo » lo svolgimento del semi­

nario.

Anche gli psicologi, nonostante, è

il caso di dirlo?, la loro psicologia,

si sono dimostrati allievi di notevole

levatura, impersonando ottimamente,

e con estrema diligenza, questo ruolo

e depositando in soffitta le tentazioni

di aprire un dialogo « scientifico »,

« teorico », coi docenti americani :

cosa che, se fosse avvenuta, avrebbe,

sì, certamente contribuito ad accele­

rare le tappe della conoscenza dei pro­

blemi della dinamica di gruppo, e a

dare, forse, una sistematicità mag­

giore alle nozioni che via via s’impar­

tivano, ma avrebbe impedito proprio

quello che si voleva persuasivamente

far vivere, oltre che insegnare, attra­

verso l’esperienza di una situazione

di addestramento, dinamicamente vis­

suta alla luce del feed-back : e cioè

come il gruppo si origina, come si

sviluppa e si trasforma, e come è

possibile, in sede di addestramento,

realizzare tecniche e procedimenti,

tali da far « jaillir les idées », in una

« concordia discors » utile e fruttuosa

per il raggiungimento dei « fini » pro­

pri al nostro gruppo. Allievi esem­

plari quindi anche gli psicologi, atte­

nutisi con costruttività alle regole del

gioco.

Come si è svolto in concreto l’adde­

stramento ? Se ne può avere idea dalla

strutturazione del programma gior­

naliero. Al mattino, come si è detto,

la prima ora e mezza era dedicata alla

lezione teorica. In questa si affron­

tava, generalmente, un solo argomen­

to, che veniva esposto non tanto con

l’abituale tecnica di una conferenza

universitaria, quanto trattato col ri­

ferire in maniera viva e discorsiva,

talvolta con la partecipazione degli

uditori, procedimenti e risultati di

ricerche sperimentali o d’indagini

psico-sociali, di cui alcune compiute

dagli stessi docenti; le quali avevano

la caratteristica di essere paradigma­

tiche dell’argomento che si voleva

esporre, in maniera didatticamente

persuasiva e completa.

Esemplare rimane nella memoria

una lezione del Leavitt, che nel rife­

rire certe sue esperienze sul problema

delle « comunicazioni » (e nel ripe­

terne qualcuna, avendo per soggetto

l’intero gruppo), espose di questo pro­

blema aspetti inediti e di grande im­

portanza ai fini del funzionamento

ottimale di un gruppo. Si comprese

come il processo di comunicazione do­

vesse studiarsi nelle sue varie dimen­

sioni (contenuto, direzione, pattern o

schema di informazioni etc.), e come

di queste la direzione (es, bilateralità

delle comunicazioni) e lo schema

(strutturazione delle stesse in un

gruppo) costituissero delle vere e

proprie «variabili indipendenti», iso­

labili e sperimentabili, che avevano

decisiva influenza su aspetti impor­

tanti della vita di un gruppo. Venne

messo in evidenza, ad es., attraverso

il resoconto di esperienze significa­

tive, in che modo tipi di schema di

comunicazioni (che l’analisi matema­

tica dimostra esser numerosi, esisten­

done, ad es., per un gruppo di sole

5 persone ben 23) potessero influen­

zare la direzione di un gruppo, la sua

plasticità di fronte ai problemi, lo

spirito d’iniziativa, — in definitiva la

sua creatività e il suo « morale ». Fu­

rono così dimostrati con persuasiva

efficacia gli svantaggi ai fini delle

comunicazioni delle strutture grup­

pali di tipo autoritario ed i grandi

vantaggi, invece, delle strutture di

tipo democratico, in cui fossero rea­

lizzati circolarità e scambio di opi­

nioni e di proposte.

(13)

Ed ancora una lezione del Nylen

sugli atteggiamenti e i comportamenti

del docente nel rapporto di addestra­

mento con l’allievo : la fine disamina

descrittivo-causale, esposta sulla scor­

ta di ineccepibili ricerche sperimen­

tali, delle condotte errate e giuste

degli insegnanti poneva in rilievo, a

volte quasi drammatico, le conse­

guenze positive o negative sull’allievo.

Fu chiaro a tutti quali conseguenze

derivassero sulla capacità di memo­

rizzazione e di apprendimento nonché

sulla situazione emotiva dell’allievo da

certi comportamenti purtroppo più

frequenti negli insegnanti di quanto

s’immagini (tipo di critica non co­

struttiva, modo di dare un comando,

mancanza di fiducia verso lo studente,

assenza di chiarificazione etc.). Le

considerazioni fatte in proposito as­

sumevano particolare rilievo quando

si fece osservare che le condotte er­

rate si devono collegare molte volte

ad un complicato intreccio di fattori

psicologici. « Il fatto è » — ebbe a

dire il Nylen a conclusione della sua

lezione — « che gli atteggiamenti

interiori del leader, derivanti, ad es.,

da preoccupazioni personali, si riper­

cuotono sempre, in maniera più o

meno intensa, sul comportamento

totale. Ed è difficile per coloro che

non hanno conoscenza dei fenomeni

psicologici, non pagare uno scotto

alle proprie dinamiche psicologiche

anche inconsce ». Infine anche le le­

zioni del Thelen furono di grande in­

teresse. Merita citare, sia pure in

breve, la sua ultima lezione a chiusura

del seminario. La tesi da lui sostenu­

ta — che esistono cioè dei principi

generali di azione comuni a tutti i

gruppi ed a tutti i livelli di intervento

(problemi scolastici, sociali etc.) — è

stata esemplificata dal racconto di

un’esperienza in grande stile da lui

personalmente diretta, iniziata a Chi­

cago nel 1949 (ed ancora sotto certi

aspetti in atto) : per essa attraverso

l’organizzazione di gruppi cittadini,

moltiplicatisi nel giro di un paio di

anni e reggentisi mediante strutture

a tipo comunitario, riuscì a risolvere

in un quartiere residenziale di 72.000

abitanti della periferia di Chicago,

una situazione sociale-razziale, dovuta

alla tumultuosa espansione industria­

le della città ed al conseguente af­

flusso di bianchi e di negri da varie

parti degli USA, situazione estrema-

mente difficile, conseguenza del dopo­

guerra e nella quale autorità locali

ed interventi politici avevano com­

pletamente fallito.

In generale queste lezioni non da­

vano informazioni o nozioni, che do­

vessero poi essere travasate meccani­

camente durante il lavoro che il grup­

po svolgeva nel pomeriggio o nei

giorni successivi, ma contribuivano

a determinare una serie di atteggia­

menti personali, un modo di pensare

circa le evenienze che via via si pre­

sentavano durante lo svolgimento del

seminario, è circa le « condotte » da

seguire, che, in misura più o meno dif­

ferente e a seconda del grado di com­

prensione e di risonanza suscitate

nei singoli, modificavano via via le

reazioni, i comportamenti all’interno

del gruppo, sì da renderne più facile

la reciproca integrazione. Non sembri

arrischiata questa affermazione, ma

tale è l’impressione riportata durante

e alla fine del seminario da colloqui

con diversi partecipanti.

Il gruppo di applicazione

Alle lezioni seguiva, dopo un quar­

to d’ora d’intervallo, il « gruppo di

applicazione ». Vi partecipava Tin­

tero seminario guidato, come s’è det­

to, dal prof. Thelen. iScopo del gruppo

era quello di esaminare, mediante

discussione, un problema concreto, di

interesse comune, del quale i parteci­

panti avessero per necessità profes­

sionali, sia pure in misura differente,

già una certa precedente esperienza.

Nella trattazione di esso veniva con­

(14)

sigliata l’osservanza di un certo sche­

ma concettuale, derivato, con qualche

modifica, dalla job^analysis : tre in­

terrogativi — Chi lo fa? Come lo fa?

Con chi lo fa? — dovevano esser te­

nuti sempre presenti nella disamina

del caso. Il « come lo fa » bisognava

intenderlo non soltanto nel senso di

«come agisce », ma anche in quello

di « come reagisce ». La discussione

avrebbe dovuto approfondire non sol­

tanto le attività dei personaggi im­

plicati nel problema e i loro rapporti,

ma anche, entro certi limiti, i loro

sentimenti, le loro opinioni, i loro

eventuali conflitti, etc.

Quale fu il tema di discussione du­

rante ben 7 giorni del seminario?

Per sceglierlo si seguì il criterio di

tener conto del fatto che la maggio­

ranza dei partecipanti era costituita

da assistenti sociali. Quindi il pro­

blema venne così formulato : « Quali

sono i compiti dell’assistente sociale

e quali le difficoltà concrete che in­

contra nell’espletamento del suo la­

voro ».

Risparmio al lettore la differen-

ziatissima e lunga discussione, inizia­

tasi mediante la suddivisione dell’in­

tero gruppo in sottogruppi e conden­

sata in brevi relazioni lette e di­

scusse nella sessione plenaria del

gruppo. Breve: si vide ad un certo

momento che per chiarire il proble­

ma delle difficoltà concrete incontrate

dall’assistente sociale nelle sue fun­

zioni, e per ben definire queste ul­

time, sarebbe stato opportuno ricor­

rere ad una rappresentazione dram­

matica. Il mettersi nei panni dei pro­

tagonisti di una vicenda immaginata,

ma analoga ad una situazione reale,

da cui non fosse lontana qualche

esperienza personale, avrebbe fatto

emergere, con saliente rilievo, i pro­

blemi posti alla radice delle difficoltà,

e di ciò il gruppo avrebbe preso atto

ai fini di una sintesi significativa

dell’intera questione. S’immaginò

quindi una tematica, dalla quale po­

tessero s ca tu rir e « sociodrammi »,

elargitori di lumi sulla questione e

scopritori sagaci dei possibili ostacoli

nei quali i personaggi si fossero im­

battuti nel loro agire nella contin­

genza prospettata.

La contingenza era questa : un en­

te assistenziale, proprietario di molte

case di un rione, date in fitto a prez­

zo molto basso, lire 300 in media, ha

deciso di raddoppiare il fitto ma di

ciò non ha ancora dato comunicazione

agli assistiti. Un’assistente sociale

dell’ente che opera in quel rione è

avvicinata da un assistito, bracciante

disoccupato, che, dopo averle esposto

certe esigenze familiari, le domanda

se la notizia risponde a verità. L’as­

sistente sociale, affatto informata del­

la cosa, non sa cosa rispondere, e alle

rimostranze dell’assistito e alla ri­

chiesta che essa si occupi della que­

stione presso i dirigenti, qualora la

notizia fosse vera, risponde, reagisce

in maniera generica, con un certo

imbarazzo, facendo tuttavia intrave­

dere un favorevole intervento. L’assi­

stente sociale si sfoga in serata con

un amico cui non di rado confida pene

e gioie della sua giornata di lavoro,

esponendogli il timore, che, forse,

spetterà proprio a lei fare ingoiare

il rospo agli assistiti, col bel risultato

di metterla in conflitto con ciò che ri­

tiene suoi doveri e responsabilità pro­

fessionali e morali. L’indomani si reca

all’ente ed ha un colloquio con il di­

rigente (che le conferma la notizia),

prospettandogli quanto è accaduto il

giorno precedente. Nello stesso giorno

il dirigente incontra un amico, al

quale, anche lui, si rivolge, sia per

confidarsi, sia per avere un consiglio

sulla soluzione di « grane » di que­

sto tipo, che non possono, in certo

qual modo, non angustiarlo. Il giorno

prima, intanto, anche il bracciante

ha avuto, a proposito della faccenda,

un’animata discussione con la moglie.

(15)

I sociodrammi quindi furono cin­

que : bracciante-assistente sociale ;

bracciante-sua moglie ; assistente so­

dale-amico

; assistente sodale-diri­

gente dell’ente; dirigente dell’ente-

amico. Gli « attori » (è il caso di dir­

lo : l’elogio degli esperti americani

fu veramente incondizionato al ri­

guardo ; la rappresentazione fu dram­

maticamente ineccepibile), si susse­

guirono nel piccolo spazio loro con­

cesso per due mattinate di seguito.

Ne emersero problemi di natura così

varia e con sfumature psicologiche

così diverse, con implicazioni sociali

così rilevanti, con situazioni conflit­

tuali così evidenti, a tutti i livelli,

personali e di gruppo, che al profes­

sor Thelen non dovette certamente

esser facile tirare, alla fine, le fila

della conclusione. La quale tuttavia

ci fu, e molto chiara, e accompagnata

da una serie di disegnini alla lavagna,

con i quali vennero, in certo qual

modo, semplificati i complessi rap­

porti tra le persone in questa vicen­

da; rapporti ovviamente non soltanto

psicologici, ma implicanti istanze so­

ciali, formali ed etiche di gruppi più

0 meno complessi, di cui i singoli pro­

tagonisti erano anche, per una certa

parte, i portatori. Discorso molto se­

rio, che ciascuno alla fine forse mo­

dificava un po’ a suo modo, ma che

Thelen strutturò in maniera soddi­

sfacentemente obiettiva per tutti, riu­

scendo a mettere in evidenza aspetti

concreti delle generalizzazioni che la

dinamica di gruppo formula al ri­

guardo.

1 gruppi diagnostici

I gruppi diagnostici furono due;

vale a dire i 30 partecipanti si divi­

sero in due gruppi di 15 che sotto

la guida rispettivamente del sig. Ny-

len e del sig. Leavitt, si riunivano

ogni pomeriggio dalle 16 alle 18,30.

Mentre lo scopo del gruppo di ap­

plicazione era quello, come si è detto,

di esaminare un problema di gruppo

di carattere pratico, seguendo la di­

rettiva di metodo delle tre domande

(chi lo fa, come lo fa, con chi lo fa),

e quindi l’interesse dei partecipanti

era prevalentemente investito nelle

varie dimensioni concrete del caso in

discussione — condotte personali,

sentimenti prevalenti, istanze sociali

in azione, caratteristiche del costume

— lo scopo del gruppo diagnostico

era del tutto differente.

Si trattava per questo gruppo di in­

dividuare, scoprire le condizioni (di

struttura e di funzioni) grazie alle

quali un gruppo può collaborare nel

miglior modo possibile per realizzare

l’insieme di azioni più idonee per il

raggiungimento dei propri fini. Come

procedere in quest’apprendimento o

addestramento che dir si voglia?

« Ci sono tre metodi » — disse il

Leavitt nel breve discorso del matti­

no del primo giorno, quando vennero

spiegati dai tre consulenti la tecnica

di svolgimento del seminario e il si­

gnificato dei vari raggruppamenti, in

cui i partecipanti venivano ripartiti

durante il giorno — « per lo studio

e l’analisi delle condizioni della col­

laborazione ottimale dei gruppi. Il

primo consiste nel pensare introspet­

tivamente, sulla base della propria

esperienza e delle proprie conoscenze,

al gruppo modello o ideale. Il secondo

è basato su esperimenti di laborato­

rio : verifichiamo cioè se nostre ipo­

tesi in rapporto al problema sono

confermate, e in che misura, da grup­

pi sperimentali posti in date condi­

zioni. Il terzo si fonda sul metodo di

partecipazione sperimentale nel seno

stesso del gruppo: vivere nel gruppo

ed osservare, come se fossimo al­

l’esterno, la condotta propria e degli

altri, mediante il processo dell’azione

di ritorno del feed-back; il che equi­

(16)

vale creare, costruire consapevolmen­

te il proprio gruppo. Procedimento

difficile — soggiunse con allusivo

sorriso — che noi tuttavia seguire­

mo; vi saranno anche momenti di

” non amore ” tra noi, di tensione, di

conflitti che ci ostacoleranno nel la­

voro ».

Linguaggio sibillino, al primo sen­

tire, per molti, la cui curiosità, mi­

sta, è il caso di dirlo, ad un certo

stato di ansietà, raggiunse l’acme do­

po il discorso di Leavitt. Cosa si vo­

leva da noi?

Il senso concreto del metodo venne

per tutti chiarito il pomeriggio, alla

prima riunione dei gruppi diagnosti­

ci, ai quali i rispettivi « leaders »,

cioè i due consulenti americani, fe­

cero un altro discorsetto in chiave

esplicativa.

In sostanza, come si è già accen­

nato, era a noi stessi, in quanto

gruppo di persone di cui alcune riu­

nite insieme per la prima volta, che

veniva affidato il compito di scoprire

le condizioni di funzionamento e strut­

turazione ottimale di un gruppo, at­

traverso lo studio e l’analisi dell’in­

sieme dei processi, che avrebbero con­

sentito al nostro gruppo di definirsi

« gruppo di studio della dinamica di

gruppo ». Quel primo giorno noi non

potevamo definirci « gruppo » in tal

senso, nonostante avessimo già lo sco­

po comune di diventarlo, proprio per­

ché non avevamo creato ancora gli

strumenti organizzativi e funzionali

di un gruppo. « Gruppo di studio »

saremmo divenuti verso la fine del

seminario, quando, cioè, per un verso

fossimo stati concordi nell’adozione

di una struttura e di una procedura

e, per l’altro, avessimo risolte le

eventuali difficoltà interpersonali, le

situazioni conflittuali. Nel far ciò,

avremmo, al tempo stesso, compreso

le modalità dinamiche dello sviluppo

di un gruppo in generale.

Tecnica

da seguire per realizzare questo dop­

pio scopo, di costituzione del gruppo

per un fine e di comprensione dei fe­

nomeni che la determinano, era l’au­

toanalisi implicita nell’adozione del

feed-back.

Questa avrebbe permesso

di far la diagnosi delle condizioni

( da ciò la denominazione di « grup­

po diagnostico ») di sviluppo del

gruppo in qualsivoglia momento del­

la sua evoluzione.

« Si deve pensare » — era press’a

poco il senso del discorso al pomerig­

gio del sig. Nylen, al cui gruppo ap­

parteneva l’A. del presente scritto —

« che in un gruppo v’è influenza re­

ciproca tra i membri e tra i membri

e il gruppo : le decisioni da adottare

vengon prese in funzione della risul­

tante psicologica delle sfere d’influen­

za dei singoli, e cioè della loro inte­

razione.

Le sfere d’influenza, a loro volta,

si determinano in funzione del modo

dì ” percepire ” i problemi via via

enucleantisi, le motivazioni e le con­

dotte altrui e in funzione dei senti­

menti (feelings), delle emozioni, dei

moventi propri e del modo, infine, con

cui tutti questi processi si trasfon­

dono nel comportamento. Per cui, vo­

lendo conoscere le ” dinamiche ” del

gruppo, bisogna prendere in esame la

condotta interna al gruppo dei sin­

goli, e gli effetti che essa determina

sullo stesso (oltre all’azione che il

gruppo, poi, potrà svolgere all’ester­

no). Tuttavia è da tener ben presente

che bisogna evitare il più possibile

di fare una diagnosi del comporta­

mento dei singoli, perché l’essenziale

è rendersi conto dell’effetto delle con­

dotte singole sul gruppo : ad es. non

importa conoscere i motivi che han­

no indotto un membro ad assumersi

l’onere di una relazione riassuntiva,

ma bensì quale effetto può avere

avuto il riassunto fatto da Tizio sulla

necessità da parte del gruppo di

averlo avuto... ».

(17)

Proseguendo il discorso, il profes­

sor Nylen ebbe a precisare circa i

procedimenti da adottare : « Per ana­

lizzare questi fenomeni, come già or­

mai sapete, è il principio dell’eco, del

feed-back,

che va seguito. Ci sono

vari modi, che vedremo, i quali fa­

ciliteranno la sua applicazione. Tut­

tavia ognuno dovrebbe sforzarsi di

mettersi in una situazione di aumen­

tata sensibilità, cercando di realiz­

zare, introspettivamente, una situa­

zione dissociativa (del tipo di quella

schizofrenica — ebbe a precisare),

che consenta di agire e di vedersi

agire tra gli altri. Con questa tec­

nica e procedendo poi ad un esame

obiettivo di quanto messo in evi­

denza, con lo stesso tipo di proce­

dimento seguito dal medico al letto

deH’ammalato, che dai sintomi osser­

vati costruisce una diagnosi, il grup­

po acquisterà man mano consapevo­

lezza dei suoi problemi e vi sarà

quella ” comprensione ” tra i mem­

bri che ne faciliterà la maggiore par­

tecipazione al raggiungimento dei

fini ».

Non è da dire, tuttavia, che dopo

questo discorso, il nascente gruppo

fosse in una situazione di pacifico

inizio di lavoro. Tutt’altro. La per­

plessità, l’autentico shock emotivo ap­

pena dominato di alcuni, gli sguardi

significativi tra noi, quasi a ripeterci

ancora « Che si vuole infine? Cosa

dobbiamo fare? » caratterizzavano lo

« stato emotivo » in cui era venuto

a trovarsi l’intero gruppo. La situa­

zione fu risolta subito dal Nylen, che

ci propose, per iniziare (ecco, era pro­

prio l’inizio estremamente compli­

cato, difficile!) di dividerci in 3 sot­

togruppi di 5 componenti ciascuno,

e di discutere per 10 minuti sull’ar­

gomento « quali sono i comportamenti

di una persona che si presenta per

la prima volta in qualità di membro

di un gruppo ». Al termine del tempo

stabilito, due membri di ciascun sot­

togruppo si sarebbero spostati ed

avrebbero discusso sullo stesso argo­

mento con i tre del gruppo seguente

e via di seguito, fino ad esaurire le

possibilità d’incontro tra tutti i 15

partecipanti.

L’ « escamotage » didattico per to­

glierci dalla difficoltà iniziale era stato

esemplare. Vari scopi venivano così

raggiunti :

1) attraverso la discussione si

realizzava una migliore conoscenza

reciproca : ciascuno dava — e a cia­

scuno venivan dati — idee, senti­

menti, modi di percezione e di com­

prensione, ...oltre che silenzi più o

meno allusivi;

2) il tema della stessa poneva

implicitamente questioni di linguag­

gio ; i termini più « psicologici » del

quale avrebbero cominciato ad assu­

mere — nei limiti del possibile —

un significato comune per tutti;

3) con la discussione si « ester­

nava », cioè si rendeva obiettiva l’esi­

genza di cominciare a trattare argo­

menti specifici contenuti nella formu­

lazione del tema (ad es. « cosa signi­

fica il fatto che un estraneo entri in

un gruppo per diventarne membro »,

da cui i primi approcci alla elabora­

zione di certi concetti quali gruppo,

membro etc.).

Lo scopo finale dell’esperimento si

chiarì ancor più alla fine, quando,

dopo le rotazioni dei sottogruppi, il

nostro consulente fece una tabellina

alla lavagna con una serie di doman­

de del seguente tipo : « In quale dei

sottogruppi avete identificato un lea­

der? Dove vi è riuscita più facile la

espressione delle vostre idee? In qua­

le gruppo vi siete sentito più a di­

sagio? etc. ».

Al gruppo intero, cioè, venivano

« esternati », ancora una volta, una

serie di problemi, provocati da di­

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