Centro Sociale
inchieste sociali - servizio sociale di gruppo educazione degli adulti - sviluppo della comunitàa* V —n. 19-20, 1958 — un numero con tav. alleg. L. 400 - abbonamento a 6 fascicoli e 6 tavole 70 X 100 allegate L. 2.200 - estero L. 4.000 abbonamento alle sole 6 tavole L. 900 — spedizione in abbonamento postale gruppo IV — c. c. postale n. 1/20100 — Direzione Redazione Amministrazione: piazza Cavalieri di Malta, 2 - Roma - telefono 593.455
S o m m a r i o
Fiorita Botts 2 Shakespeare tra le galline
Luciano Lucignani 6 Osservazioni sul concetto di teatro popolare Paolo Chiarini 9 Breve storia dèi pubblico a teatro
L. L. 19 II teatro popolare in Europa e in America nell’età moderna.
44 Testi e documenti sul teatro popolare 66 Per un repertorio di teatro popolare
Allegati
Schede di repertorio (a cura di Vittorio Castagnola) :
Ruzzante, Menego
Anonimo elisabettiano, Arden da Feversham W. Shakespeare, Romeo e Giulietta L. de Vega, Fuenteovejuna Molière, Tartufo
N. Gogol, Il matrimonio
V. Padùla, Antonello, capobrigante calabrese A. Cechov, L'Orso
R. Bracco, Don Pietro Caruso J. Renard, Pel di carota G. Verga, La caccia al lupo L. Pirandello, Lumie di Sicilia
B. Brecht, Terrore e miseria del Terzo Reich C. Odets, Aspettando Lefty
F. Garcìa Lorca, La Casa di Bernarda Alba Teoria e pratica della scena per un teatro popolare: 1. Consigli agli amatori; 2. Cechov, L’ Orso - Testo con note di messinscena (2 tavole di G. Polidori, testi di L. Lucignani).
Periodico bimestrale redatto a cura del Centro Educazione Professionale Assistenti Sociali sotto gli auspici dell’ UNRRA CASAS Prima Giunta Comitato di direzione: Achille Ardigò, Vanna Casara, Giorgio Molino, Ludovico Quaroni, Giorgio Ceriani Sebregondi, Giovanni Spagnolli, Angela Zucconi - Direttore responsabile : Paolo Volponi - Redattore : Anna Maria Levi
“ il suo sentimento, sempre più forte e caldo, era rivolto irremovibilmente verso il teatro: e qual mera viglia? Immurato in una città, prigioniero della vita borghese, oppresso dalla vita casalinga, senza prospettive aperte sulla natura, senza libertà del cuore, com e scor revano i giorni consueti della settimana, cosi doveva egli accompagnarli al tramonto. La fatua noia delle domeniche e dei giorni di festa lo rendeva anche più inquieto e quello che per avventura una passeggiata gli permettesse di vedere del libero mondo, non Io penetrava mai completamente: egli era in visita presso la magnifica Natura, ed essa gli faceva un trattamento da visita. E quella sua pienezza d’ amicizia, di amore, quell’ ansietà di cose grandi, dove orientarla? Non doveva divenirgli la scena un santuario, nel quale egli a suo agio, in qualsiasi stagione e al coperto d’ un tetto, poteva con templare il m ondo com e in un nocciolo, e com e in uno specchio le proprie sensazioni e le proprie gesta future, gli aspetti dei suoi amici e fratelli, degli eroi, e gli abbaglianti splendori della natura? ”
Shakespeare tra le galline
« I Nemici », commedia per contadini, adattamento dalla tragedia
« Romeo e Giulietta », come è stata definita dagli autori, fu rappresen
tata due anni fa in un villaggio messicano, con attori dilettanti presi
tra i contadini. Lo spettacolo fu allestito sotto la direzione della Sezione
Arte Drammatica di un noto centro internazionale per specialisti del
l’educazione di base. Si trattava di un adattamento fatto (per citare
ancora gli autori) « per scopi educativo-ricreativi » e « al fine di con
sentire a un pubblico di contadini la massima comprensione », un adat
tamento libero al punto che della tragedia si era fatta addirittura una
commedia.
La scena, che nel dramma originale si svolge in Italia, è trasportata
nel villaggio-hacienda di Verona, nel Messico. La commedia narra la sto
ria di due famiglie: i Santacruz, la cui hacienda è stata scorporata in
conseguenza della riforma agraria messicana del 1917, e i Montes, che
di questa rivoluzionaria divisione della terra sono stati i locali fautori.
Il famoso antagonismo tra Caputeti e Montecchi si trasforma così in
uri aspra rivalità tra i Santacruz e i Montes dovuta a motivi economici
legati al possesso della terra.
Santacruz è ancora tra i più ricchi proprietari della zona; quando
la commedia incomincia, egli e la sua famiglia sono immersi in prepar
rotivi di una festa che si darà per celebrare il compleanno di sua figlia
Giulietta, arrivata da poco dalla città, dove viene educata in una scuola
privata.
Romeo Montes è un giovane contadino. Presentatosi alla festa in
onore di Giulietta mentre gli invitati stanno ballando un passo doppio,
egli danza con la ragazza e se ne innamora, subito ricambiato da lei.
La commedia prosegue, seguendo fino a un certo punto abbastanza
fedelmente la trama originaria. Giulietta viene fidanzata, contro la sua
volontà, a Lucio Perez (Paride), un damerino del posto, ma essa ama
Romeo, nonostante la rivalità e il sangue che è corso tra le loro famiglie.
Le scene comiche sono affidate ai servi delle due case, degli autentici
buffoni. Le loro pagliacciate e i loro scherzi grossolani contengono in
fondo un pizzico di morale, come ad esempio le molte allusioni, sparse
qua e là nel dialogo, tendenti a inculcare nei contadini — mediante rife
rimenti indiretti — l’idea della necessità del bagno quotidiano e dell’igiene
personale. E qua e là capita di sentire dai caratteristi battute come que
sta: « Adesso vado a darmi una ripulita... », ecc. L’adattamento in que
stione, non dobbiamo dimenticarlo, è stato fatto tenendo presente l’obiet
tivo dell’educazione di base: educare attraverso un presunto divertimento.
Lo shakespeariano Frate Lorenzo, diventa Padre Lorenzo, in abito
nero e collare bianco. Molte sono le scene fra lui e Romeo. Eccone ad
esempio una. Egli invita Romeo a seguirlo in chiesa e gli dice di aver
bisogno del suo aiuto per vaccinare certi polli.
Romeo Polli? E chi se ne intende, Padre?
Padre Lorenzo
Romeo
Dovresti imparare. Non lo sai che le galline ci ricompensano
generosamente del cibo che diamo loro? Bastano cento galline
a dare di che vivere discretamente a una famiglia. Ecco una
cosa che i contadini non hanno ancora voluto capire.
E bisogna vaccinarle?
Padre Lorenzo
Certo, per prevenire le malattie.
Romeo
Padre Lorenzo
Vi ripeto, io non me ne intendo affatto. Però forse sarebbe bene
atrh’Z 1™!'aSS.'1’
plu se sposerò Giulietta. Un giorno avrò
( e n t n n l i n ' c k H S S ' ' M
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V° C° ’ tenenii° ciascuno in mane una gallinate Vav™° d,etto? Queste bestie sono malate. Dobbiamo iso-
IcLvle iTYiTiiedi&tcLTìneTite dcdle altre.
dl c? rm, lu nutrice di Giulietta, e annuncia loro che
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giom ija deClS° Che Gmlietta sposi Lucio Perez di lì a
In un’altra scena della commedia, la nutrice ritorna dal mercato e
\IZ ?ITZemta T *
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*“ ■>lata, essa spiega allora che ha girato inutilmente
per ore in cerca di
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orna scarseggiano, e se la gente non si decide a far gualcom p e l Z Z I
tare la produzione, sono guai!...
aumen-quest’ar(Joment°, queste frequenti allusioni, si spie-
Z 1 !
proprio m quei giorni il centro stava per lanciare
p r o g e tta li lllliZ l vdU" \ mmVresi nella sua zona d’influenza un
z idi
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Arriviamo così alla scena finale de « I N em ici»: Giulietta come
e f f l t t l Z T T 6 ° n9malef el dramma, giace su un catafalco, immersa, per
morte (M a Z n art°** a ™ ^
Lorenzo> «* « « sonno simile alla
messo da r l r l V ?
***“ SMkesV ™ e verrà completamente
messo da parte) La famiglia e il fidanzato, Lucio Perez, piangono
accolto al suo cadavere; Romeo, che volge loro le spalle, tira fuori un
pugnale e sta per uccidersi; ma interviene Padre Lorenzo, uscito di chiesa
al momento giusto. Giungono i genitori di Romeo e subito, tra loro e i
Santacruz, avviene uno scambio d’insulti. Padre Lorenzo cerca di met-
Z n J T 6 i Í farJ oro comprendere la necessità di. finirla una buona
Donna Maria
(madre dì Giulietta) Padre! come potete associare il nome di
una santa che ora riposa in pace a un simile misfatto?
Padre Lorenzo Perché il misfatto, come voi lo chiamate, è stato consumato, e
perché soltanto vostra figlia può fare il miracolo che ho detto,
di riportare la pace tra voi.
Donna Maria
Eh? mia figlia... può fare il miracolo...
Padre Lorenzo Sì, solo lei... (si avvicina a Giulietta e le fa odorare una fiala
di essenza). Figlia mia, figlia mia, svegliati, è ora!
Meraviglia e gioia generale quando Giulietta si ridesta dalla «m orte».
I due acerrimi nemici, Santacruz e Montes, si stringono la mano mormo
rando: « Amico mio, carissimo amico mio! », mentre i due innamorati
si abbracciano.
Si tratta di un esperimento sul quale vale la pena di soffermarsi.
Ecco dei contadini che, nel proprio villaggio, mettono in scena un clas
sico con la maggiore semplicità possibile. I costumi sono i loro abiti di
tutti i giorni, lo scenario è costituito dalla piazza, tutto è perf ettamente
riconoscibile dal pubblico : sì tratta di Verona, villaggio del Messico, al
tempo della riforma agraria, un’ epoca di violente lotte che ogni contai
dino messicano ricorda bene.
I contadini della zona del Messico che sto descrivendo sono poveri e
il centro intemazionale di cui si è detto si propone di migliorare la loro
situazione economica. E’ gente ignorante, che non si cura minimamente
dell’igiene personale, nemica di tutte le innovazioni. Ecco quindi perché la
commedia insiste sulla necessità di fare il bagno tutti i giorni e di avere
delle galline sane, vaccinate, e che facciano delle belle uova nei nuovi
pollai razionali. Dato poi che questa gente è violenta per natura, e capita
spesso che tra di loro scoppino risse furibonde, con coltellate, spari e
morti, al centro si è pensato che la morale contenuta nel « Romeo e Giu
lietta » potesse servire a far capire quanto siano funeste le discordie e
le inimicizie tra due famiglie.
Per entrare in argomento, diciamo subito che questo tentativo è un
vero fallimento rispetto ai due obiettivi che si proponeva. Non potrà
servire né a insegnare ai contadini Higiene personale, o a f ar loro com
prendere l’importanza di incrementare gli allevamenti, e neppure a spie
gare perché non debbano continuare nelle loro risse e discordie. Da parte
degli autori di questo adattamento, aver preso una delle opere più, cono
sciute nel mondo intero, tanto famosa da essere divenuta la storia
d’amore pei• eccellenza, ed averla mutilata, apponendole un lieto fine e
liquidando in blocco tutti i problemi al solo scopo di lasciare il pubblico
soddisfatto perché alla fine tutto si è concluso nel più felice dei modi, è
addirittura delittuoso. Quello che essi hanno prodotto non è che un sopo
rífico infantile, irreale e del tutto antieducativo. I sostenitori del Lieto
Fine possono suonare le loro trombe quanto vogliono, ma chiunque abbia
gusto e coscienza non può permettersi di unirsi al loro concerto. La forza
del messaggio shakespeariano sta proprio nel duplice suicidio degli amanti
— è un tragico commento sulla fragilità dell’amore distrutto dalla insen
satezza delle rivalità e dell’ odio, e sul male che da essi si genera.
In questo adattamento, la forza del dramma shakespeariano è debi
litata al punto da divenire un’ombra indistinta. La storia di due fami
glie che per anni hanno tentato di distruggersi, animate da un odio
implacabile, e che improvvisamente, senza sviluppo dei caratteri, ma con
uno scioglimento artificioso e del tutto irreale, si abbracciano biasci
cando frasi amichevoli e proteste d’affetto, può essere una musichetta
gradita quanto si vuole, però non ha di certo l’amaro ma vigoroso suono
della verità.
Servirsi di Shakespeare per instillare nelle popolazioni delle cam
pagne i principi dell’igiene personale o per risolvere i problemi di una
miserabile economia è una vera assurdità, è come usare la cupola di
San Pietro per coprire una pentola. Poiché la sua arte tocca l’ essenziale,
essa può essere presentata tale e quale nacque nella sua mente, e chiunque
al mondo la capirà. Si può prendere Verona, città del Veneto, e trasfor
marla in un villaggio messicano, o siciliano, o sardo, o australiano, vestire
Romeo di un costume indio, o fargli indossare i « blue jeans », far svol
gere, se si vuole, tutta l’azione nella piazza del villaggio, ma la vera
sostanza shakespeariana non va toccata, mai, per nessuna ragione. La sua
cruda, severa, sublime, amara, estasiante poesia — non diluita, non
adulterata — non è soltanto per un’élite di letterati, come la sua univer
sale diffusione conferma. Egli ha comunicato al mondo sentimenti, desi
deri, passioni, valori capaci di portare tutti gli uomini all’azione. E ’ un
insulto all’intelligenza di quei contadini aver affermato (come hanno fatto
gli autori dell’adattamento) che essi « non avrebbero capito », quando
tutto il resto del mondo capisce e ha capito per tanti secoli.
E’ vero che si può (anzi si deve) usare un bel cartellone, un bel
disegno, una bella fotografia, o delle belle parole per scopi didattici, spic
cioli, per insegnare, cioè, fatti come la prevenzione delle malattie, come
i più moderni sistemi di aratura e di irrigazione, o la necessità di un’ali
mentazione nutriente e razionale — ma l’arte ha un compito di tutt’altra
natura da assolvere. L’arte è realtà autonoma, che stabilisce la sua
propria categoria d’importanza. Sua precipua funzione è quella di
aiutare l’uomo a vedere e ad esprimere ciò che vede; di illuminare e
intensificare la vita non mediante concetti, ma intuizioni: per questo
l’arte è educazione. Le intuizioni che si agitano in fondo ad ogni essere
umano non possono venire alla luce se non attraverso lo sviluppo del
l’espressione. Ed è appunto questa la chiave del nostro problema. Tutti
gli uomini sentono il bisogno di esprimere i sentimenti immediati della
loro vita emotiva, e cercano quindi i mezzi per poterli meglio chiarire e
definire. E’ l’esperienza estetica che consente tale liberazione e defini
zione per cui le passioni non rimangono più a lungo mute ed incompren
sibili forze introverse, ma acquistano forma e comunicabilità. Utilizziamo
Shakespeare con questo intento, e saremo sicuri di fare opera educativa;
e come Shakespeare, Euripide, Cechov, Lorca e tutti gli altri sommi
autori drammatici. Sono i problemi universali dell’uomo che attraverso
Vespressione drammatica (come attraverso ogni altra forma d’arte) par
lano a tutta l’umanità, perché la riguardano da vicino, sono la storia
stessa dell’uomo, il suo dramma, espresso in una serie di parole, di gesti
e di atti, che lo aiuta a dire di se stesso con limpida voce, e gli fa da
specchio perché possa vedersi riflesso nella luce più chiara, più eroda e
incandescente.
Osservazioni sul concetto
di teatro popolare
di Luciano Lucignani
Che cosa intendiamo, innanzi tutto, parlando di « teatro popolare » ?
L espressione si presta a troppi significati perché sia possibile adoperarla
senza chiarire l’accezione nella quale si usa (e, contemporaneamente, senza
correre il rischio di portar confusione proprio là dove si voleva mettere
ordine).
Cominciamo col distinguere due punti di vista: quello che possiamo
chiamare « industriale » e quello che diremo invece « ideale ». Dal punto
di vista industriale « teatro popolare » può significare due cose : teatro
fatto dal popolo (cioè teatro non-professionale, quindi teatro degli amatori,
teatro di propaganda, teatro universitario, ecc.) e teatro fatto per il popolo
(cioè teatro a buon mercato, il che equivale a teatro di qualità inferiore,
teatro d’appendice). Entrambe le accezioni implicano una particolare
nozione di « popolo », giacché nella società moderna il termine ha un valore
diverso da quello che gli si può attribuire riferendosi alla Grecia di Eschilo
o all’Inghilterra di Shakespeare.
Dal punto di vista ideale « teatro popolare » equivale a teatro
senza confini, né economici né estetici ; un teatro per tutti, per l’intellet
tuale e per l’operaio, per il borghese e per il proletario, per il ricco e per
il povero. In questo caso teatro popolare sarebbe sinonimo di teatro e
quell aggettivo avrebbe solo la funzione di sottolineare un’aspirazione (o
un’utopia, forse?).
Da quanto abbiamo detto si può trarre, intanto, una prima conclu
sione : « teatro popolare », in ogni sua accezione, è un’espressione che
sottintende la oggettiva constatazione di una società divisa in classi e,
conseguentemente, di forme d’arte e di cultura o anche semplicemente
di svago, differenziate; cioè di bisogni diversi (per gusto, possibilità eco
nomiche, disponibilità di tempo) che occorre soddisfare in modi diversi.
Che cosa significa allora, da circa due secoli, quell’insieme di proposte,
tentativi, appelli, che va sotto il nome di « questione del teatro popolare » ?
E’ una illusione di alcuni intellettuali romantici oppure ha un fondamento
reale, risponde alle concrete necessità d’un mondo civile?
Indubbiamente dire « teatro popolare » per indicare il teatro dell’epoca
di Eschilo, o i misteri medievali, o il teatro del « secolo d’oro » spagnolo,
o quello dell’età elisabettiana, è pleonastico; ma abbiamo riflettuto a
qual era, in quei tempi, lo sviluppo del teatro come industria? Dai d o cu
menti che ci restano sappiamo solo che verso la metà del Seicento si
incontrano le prime forme di « impresa teatrale » e che fino ad allora la
struttura economica delle compagnie è di due tipi : gestione sociale o
mecenatismo. L’intervento dell’impresario, cioè del capitale, accentua ine
vitabilmente il carattere commerciale della compagnia teatrale e da questo
momento la richiesta del pubblico è la legge che determina la sua attività.
La sempre più rigida divisione in classi della società fa il resto ed è co sì
che, nel giro di pochi decenni, il teatro senza aggettivi diventa sinonim o
di teatro della classe dominante, cioè di teatro borghese. Allora « tea tro
popolare » comincia ad assumere valore di teatro volgare, non elaborato
artisticamente, indica cioè, praticamente, un genere inferiore.
E’ in quello stesso momento tuttavia che si diffondono i primi g e rm i
di quella malattia che verrà poi chiamata « crisi del teatro ». L’arte dram
matica non porge più, come voleva Amleto, « lo specchio alla vita », m a
riflette solo una frazione di essa ; e non è più, quindi, in grado di « m ostrare
alla virtù la sua immagine, al vizio la sua guisa e alla società la sua stru t
tura, come il tempo la determina », per usare ancora le parole del P rin cip e
di Danimarca.
La produzione dei beni spirituali, e particolarmente di quelli connessi
con 1 industria, è costretta oggi ad adeguare il suo mercato alle condizioni
di sviluppo della società, il che significa produrre secondo i gusti di c h i
possiede i mezzi per questo indiretto finanziamento defl’arte e della cultura.
Nascono così i « piccoli teatri », organizzati secondo criteri che sono a metà,
strada fra il dilettantismo e il professionismo, teatri ai quali per so p ra v
vivere basta un piccolo numero di sostenitori, e nasce così quella p ro d u
zione drammatica estremamente raffinata, che è concepita proprio p er u n
pubblico di « iniziati » ; e poiché, malgrado tutto, le forme tecniche c o n ti
nuano, in certo senso, a progredire, ad evolversi, questa produzione a n d r à
sempre più allontanandosi, anche formalmente, dal linguaggio del g ra n d e
teatro popolare, fino a diventare incomprensibile a tutti coloro che n o n
hanno potuto seguirne il processo.
Senonché la progressiva riduzione di questo (già ristretto) p u b b lico
di « élites » pone a un certo punto la questione di procurarsi un m e rca to
più ampio; il numero dei consumatori sui quali si può contare non è più.
sufficiente a coprire le spese, come si dice in linguaggio superficialmente
economico. E a questo punto lo sguardo dei produttori si rivolge, con u n
senso di dolce rimprovero, al « popolo », a colui cioè che non fa nulla p e r
sostenere il livello artistico e culturale del proprio paese, che non sente il
dovere di frequentare i teatri, che non prova l’orgoglio di difendere il
patrimonio nazionale, ecc. Ma il « popolo », ahimè, ha perduto la n o z io n e
stessa di << teatro », dopo, naturalmente, aver ripiegato su una p rodu zion e
sempre più scadente, dopo aver provato a procurarsi da solo il modesto c i b o
spirituale di cui aveva bisogno, e dopo aver infine scoperto che il cin em a
tografo e, più recentemente, la televisione, erano quanto di meglio n e lle
sue attuali condizioni potesse toccargli. Così l’appello degli industriali del
teatro, cui si sono aggiunti gli specialisti e i tecnici, è restato inascoltato
e la « crisi », nel frattempo, si è aggravata.
Decisi comunque a non fare a meno della sua collaborazione econo
mica, essi sono oggi alla ricerca disperata di « come » riportare a teatro
il pubblico popolare (qui, è chiaro, l’espressione significa esattamente il
pubblico non abituale delle sale di spettacolo) : il divismo, il grande spet
tacolo messo in scena sfarzosamente, sono altrettanti aspetti di questa
campagna di reclutamento.
Sono tentativi che non hanno avuto, fino ad ora, esito alcuno e che
continueranno a non averlo ; il distacco non è casuale, né di data troppo
recente : ammesso che il paragone sia lecito, il teatro è un padre che ha
abbandonato il figlio quando costui aveva solo pochi mesi e adesso la voce
del sangue si è spenta e non esiste più alcun legame. Non ci sono interessi
comuni e le stesse necessità hanno trovato dei surrogati con cui soddi
sfarsi : perché mai dunque il popolo dovrebbe rispondere ad un appello
che non lo riguarda? Per contribuire, con i propri mezzi, allo svago altrui?
Francamente e onestamente, non vediamo perché questo teatro non
debba perire.
Noi sappiamo però che il teatro — un teatro davvero senza aggettivi —
non può essere prerogativa di una classe : innanzi tutto perché ripugna alla
nostra coscienza moderna che il godimento di un bene spirituale debba essere
privilegio di una ristretta cerchia di individui e che da esso siano escluse
grandi masse di popolo; in secondo luogo perché sappiamo che l’arte e la
cultura sono strumenti insostituibili del progresso civile e sociale e quindi
debbono stare particolarmente a cuore soprattutto a coloro i quali a questo
progresso sono direttamente interessati ; in terzo e ultimo luogo perché il
teatro è uno strumento molto più efficace di altri per contribuire alla
educazione, allo sviluppo del popolo, e questo per due motivi fondamentali :
può esser compreso anche dall’analfabeta (che, viceversa, non può leggere
il libro né il giornale) e può esser direttamente praticato da chiunque
(contrariamente al cinema, per esempio).
Per questi motivi, e per queste necessità, noi crediamo alla possibilità
d’un teatro popolare, intendendo quest’espressione come equivalente di
« teatro fatto dal popolo e per il popolo », elaborato direttamente dal basso,
secondo schemi e forme che, senza limitarsi al folklore, tengano tuttavia
il massimo conto dei modi e dei contenuti tipici delle espressioni popolari.
Può darsi anche che, in un primo tempo, l’ispirazione popolare si articoli
secondo forme che imitano il teatro professionale, ma il vero contributo
alla creazione d’un teatro popolare nel suo significato più pieno si avrà
soltanto quando queste forme saranno state completamente riassorbite e
ci troveremo di fronte ad una produzione originale ed autonoma.
Tutto questo, entro certi limiti che dipendono molto dalla capacità e
dalla buona volontà individuale, è possibile anche nell’attuale situazione
teatrale e può davvero segnare l’inizio d’una produzione popolare che
potrebbe, in avvenire, passando dal piano dilettantistico a quello profes
sionale, condurre ad una reale riforma del teatro nazionale.
Breve storia del pubblico a teatro
di Paolo Chiarini
C’è un problema, nella storia della nostra civiltà teatrale, che suona
un po’ come il quiz dell’uovo e della gallina : è nato prima lo spettacolo
oppure il testo teatrale? Una domanda, a tutta prima, che pare per lo
meno bizzarra e destinata a rimanere senza una convincente risposta,
anche se intorno ad essa storici del teatro, critici e teorici non hanno
risparmiato le loro fatiche : ultimo in ordine di tempo, se non sbaglio,
Silvio d’Amico, che in un felice volumetto di piana ed agevole divulga
zione rivendicava — pochi anni or sono — la priorità logica e cronologica
dell’opera drammatica sulla rappresentazione scenica intesa a fare, vera
mente, « teatro ».
Si tratta, in realtà, di una questione tutt’altro che di pelo caprino,
e d’importanza fondamentale per intendere anche oggi quali siano gli
aspetti più vivi e brucianti del teatro contemporaneo, quali gli elementi
in gioco da tener presenti e da sottolineare in un senso piuttosto che in
un altro. La stessa « crisi del palcoscenico », di cui si torna periodica^
mente a parlare senza procedere d’un solo passo sulla strada del suo
superamento, si riduce in fondo a questi due fondamentali e semplicissimi
termini della questione : perché la mancanza di un repertorio nazionale
veramente serio ed impegnato non presuppone di necessità il disinteresse
del pubblico, distolto dallo spettacolo teatrale verso altre forme di più
o meno elevato intrattenimento, quando a questo tanto sbandierato disin
teresse il pubblico medesimo dà una secca smentita, affollando quei teatri
che gli offrono la ripresa di un « classico » di sicuro valore realizzata
da attori e registi che abbiano la loro arte nel sangue, oppure una novità
straniera, per lo più — dotata di una pungente presa sulla realtà
contemporanea. Il problema è dunque un altro, e precisamente di « orga
nizzazione della cultura » : due espressioni — « organizzazione » e « cul
tura
che in genere si preferisce tener separate, con reciproco danno,
perché giudicate appartenenti a zone distanti ed opposte della vita sociale.
Organizzazione della cultura significa infatti, in questo caso, organico
inserimento del teatro e dei suoi più o meno stabili istituti entro il tessuto
connettivo della nazione : inserimento che non può fare a meno di tener
conto, se vuol essere l’espressione di una reale concretezza d’azione, di un
elemento decisivo e fondamentale, ossia del pubblico.
Il pubblico, infatti, costituisce — o dovrebbe costituire — il costante
punto di riferimento per lo scrittore che intenda non limitare la vita della
sua opera alla mera degustazione estetica in sede di lettura, facendo così
soltanto opera letteraria o, tutt’al più, di « letteratura drammatica » : ma
che a questa stessa opera vog'lia garantire una diversa dimensione di
vita, ponendola in contatto con una più larga cerchia di « lettori », anzi
di « ascoltatori » ed affidandole, per ciò stesso, una diversa destinazione
ed altra carica ideale, sentimentale ed emotiva. Giacché un’opera, per
poter vivere entro le mobili e dinamiche strutture dello spettacolo, deve
i ispondere a determinate condizioni e richieste ; non diversamente dalla
poesia o dalla pagina d’arte che, sebbene non inadatte alla recitazione
o declamazione ad alta voce, meglio si gustano ed assaporano, in tutte
le loro riposte finezze e nei pregi nascosti e sottili, in quella silenziosa
lettura individuale e personalissima che sprigiona da esse, per altro,
la più intensa e pura melodia interiore, il più spirituale e limpidamente
scandito dei ritmi.
Il pubblico, dunque, condiziona l’attività dell’autore drammatico :
spesso in un senso assai deteriore, sollecitandolo a quella produzione che
più agevolmente gli pare poter sollecitare i meno nobili sensi degli spet
tatoli, mentre dovrebbe indurlo sempre a trovare la giusta bilancia fra
il proprio mondo morale e intellettuale espresso nell’opera e quello del
« paitner », cioè del pubblico. Il quale in tal modo perde i suoi connotati
più ti adizionalmente commerciali di « pubblico pagante » e si trasforma
in simbolo vivente della collettività, in multiforme espressione di un com
plesso e ricco organismo sociale.
Che il pubblico sia un elemento attivo e determinante del fatto tea
trale, stanno a dimostrarlo le origini religiose di quest’ultimo : in Grecia
connesse al culto di Dioniso e alle diverse solennità — rurali o cittadine —
in cui anche in seguito lo spettacolo trovò la sua naturale collocazione;
nel Medio Oriente legate a ben precise credenze e antichissimi riti, come
stando alle più avanzate indagini del Gaster — testimonia l’Egitto;
nelle civiltà primitive — oggi largamente anche se non completamente
note sotto questo particolare punto di vista grazie agli importanti studi
dell Eberle
inserite in un preciso sistema di culti totemici e di riti
iniziatici. Questo dialettico rapporto fra « attori » e « spettatori » è fon
damentale, in quanto istituisce un comune denominatore di partecipazione
che influenza in larga misura i modi in cui di volta in volta lo spettacolo
si atteggia, la sua strutturazione nel tempo e nello spazio come intensità
e durata della rappresentazione e come esatto configurarsi dell’ambiente
in cui essa ha luogo. Sicché le caratteristiche « tecniche » di questo « luogo »
finiscono per essere, a conti fatti, lo specchio del rapporto istituito fra
scena e pubblico, fra attori e spettatori, cioè — in ultima analisi __ lo
specchio della funzione che il teatro è chiamato ad assolvere in una deter
minata società. Dalle origini del teatro sino ad oggi, infatti, si assiste a
un progressivo divorzio fra i due termini che — nello spettacolo vivo,
l’unico che qui ci interessi — lo compongono: la partecipazione, che in
determinati momenti storici di particolare passione religiosa (quando,
cioè, il nesso fra mito e rito è ancora ben saldo, e il ripetersi del primo
Il rituale civile e religioso dei popoli primitivi è all’origine del teatro, è esso stesso teatro, comprendente at tori e spettatori* a volte confusi nella stessa massa, a volte distinti. Quando nelle rappresentazioni che imitano il rituale si introduce l’elemento della fantasia, l’ arte del teatro è nata. A pag. 9 : Una danza indiana. Le prime forme artisticamente svi luppate di drammaturgìa e di spet tacolo sono costituite dal teatro greco, tragico e comico: l’edificio teatrale greco, egualmente, è il primo esempio di architettura scenica: si compone dell’ orchestra, spazio circolare dove il coro esegue le sue evoluzioni, della scena, in origine creata per consentire agli attori di truccarsi e travestirsi e solo in un secondo tempo passata a significare il luogo dell’ azione narrata, e della cavea, gradinata circolare, prima in legno, poi in pietra, che circonda per tre quarti l’ orchestra e sulla quale prende posto il pubblico. A sinistra in alto: Il teatro di Epidauro, del I V secolo a. C., ricostruito sulla base delle rovine esistenti. Il
Il teatro romano è soltanto una va riazione del modello greco, soprattut to per quel che si riferisce all’edificio teatrale. Esso riproduce la pianta greca, ma con maggiore rigore geo metrico: l’emiciclo è una semicircon ferenza esatta, avente per diametro l’ esterno del proscenio. Tuttavia questo tipo di teatro esiste solo dopo la conquista romana della penisola ellenica: Plauto e Terenzio, i due maggiori scrittori del teatro romano, furono rappresentati su scene assai più rudimentali. A sinistra in basso: Un teatro romano, basato in gran parte sulle rovine di Aspendos, nel l'Asia Minore.
La civiltà cristiana, nel Medioevo europeo, asse gna al teatro la funzione eminentemente popolare della divulgazione della liturgia, operando così la nascita d’un teatro reli gioso che si prolunga fino alle soglie del Rinascimen to, pur lasciando soprav vivere forme di teatro profano dalle quali pren derà l’ avvio la comme dia cinquecentesca. Di fianco: La scena medievale, divisa in « mansioni » (o « luoghi deputati ») com'era allestita per rappresentare il Mistero della Passioner nel 1547, a Valenciennes►
nel secondo è carico ancora di una sua intensa ieraticità : si pensi ai primi
passi del ditirambo, oppure, in quella vera e propria « rinascita » del
teatro europeo che fu il Medio Evo, al dramma liturgico) giunge sino al
livello della comunione totale, della mistica fusione, viene a mano a
mano raffreddandosi, si fa interesse, curiosità, intrattenimento* più o meno
piacevole. L’atteggiamento degli indigeni yàmana nella Terra del Fuoco,
che raccolti in circolo e ritmicamente scandendo una simbolica parola
( « cenalora ») assistono ad una rudimentale forma di rappresentazione
mimica, nella quale possono ad ogni momento inserirsi staccandosi dal
gruppo e unendosi agli « attori », sotto la sollecitazione suggestiva di uno
stimolo prepotente e primordiale alla « finzione », si trova esattamente
agli antipodi dell’animo con cui il pubblico borghese del Théâtre Libre
di Antoine o della Freie Biihne di Otto Brahm a Berlino si recava
ad uno di quegli spettacoli naturalistici che mettevano in scena una
« tranche de vie », offrendola all’attenzione dello spettatore come sotto
l’obbiettivo di un microscopio, « in vitro » : la teorizzata « quarta parete »,
infatti, non era altro che un trasparente vetro lenticolare, dietro il quale
si svolgeva un vero e proprio esperimento scientifico. Questi i punti estremi
entro cui si iscrive l’avventurosa parabola del teatro europeo ; e questi,
in fondo, anche i dialettici poli che, variamente combinandosi all’interno
di tale parabola, ne hanno di volta in volta determinato la direzione
e gittata.
Nelle civiltà primitive, l’organico ricambio anche fisico che esiste fra
attori e spettatori si riflette nella mancanza di qualsiasi impianto o appa
rato scenico, per non dire di un edificio : sono gli individui stessi a costi
tuire l’ambiente della rappresentazione, ed è il « materiale umano » l’unico
requisito a disposizione. Nel teatro del naturalismo, l’edificio teatrale ha
invece raggiunto il culmine della perfezione tecnica e dell’attrezzatura stru
mentale; le scenografie toccano il massimo di fedeltà realistica; gli ele
menti in scena (arredi, fabbisogno, trovarobato) rispondono a un criterio di
fotografica e minuziosa, addirittura pedantesca obbiettività. Ma la sepa
razione fra palcoscenico e pubblico è ormai radicale e definitiva; il teatro
ha completamente dimenticato le sue origini mistiche e religiose, si è
Il Rinascimento è l’età dell’ oro dello spettacolo teatrale: in Italia fiorisce la commedia erudita (Machiavelli, Aretino, Grazzini), accanto al teatro popolare del Ruzzante e alla commedia dell’ arte. In Inghilterra il teatro elisabettiano allinea drammaturghi come K yd, Marlowe, Jonson, Webster, e, primo fra tutti, Shakespeare; in Spagna Lope De Yega crea il primo grande teatro nazionale. Parallelamente si verifica una significativa evoluzione dell’ edificio teatrale: in Italia con il Teatro Olimpico di Vicenza nasce il nuovo teatro moderno di corte; in Inghilterra appare il teatro elisabettiano, nella Spagna il « corrai ». In alto: Il Teatro Farnese a Parma, primo esempio di teatro con proscenio e sipario (1618-1619).
secolarizzato, ha abbandonato gli abiti della fede per rivestire quelli della
scienza.
Differenti i presupposti di questi estremi e sintomatici esempi di
« teatro », e differente anche il pubblico : non solo perché l’evoluzione della
società e delle sue strutture ha portato con sé una differenziazione di ceti
e classi, passando dalla comunità amorfa — per così dire — e indiscri
minata alla sfumata complessità dell’attuale organizzazione collettiva e
alle sue varie manifestazioni; ma anche perché lo spettacolo non è più
centro di raccolta del popolo intero, dell’umana totalità.
Nelle epoche arcaiche, infatti, l’edificio teatrale — quando esiste —
è pronto ad accogliere un pubblico che si valuta nell’ordine delle migliaia
di unità, a masse compatte (anche se poi al suo interno esistevano limi
tazioni fra ceti più o meno abbienti, fra il ricco e il popolano, zone di
rispetto tenute ben ferme). Non solo, ma il tipo di edificio prevalente
— ad esempio — nelle zone di cultura classica, cioè l’anfiteatro, tende ad
eliminare il diaframma tra l’azione che si svolge al suo centro accompa
gnata dalle evoluzioni del coro nell’orchestra, e gli spettatori assiepati
sulle gì adiriate tutt intorno ; i due termini, in somma, fan corpo e orga
nismo. Sicché, ad esempio, l’attore delle commedie di Aristofane potrà
rivolgersi direttamente al pubblico e coinvolgerlo nello spettacolo come
« partner » attivo e partecipe.
Questo senso di viva partecipazione in seguito si perde, quando, nel
tai do pei iodo classico, il teatro si riduce sempre più a forme minori di
spettacolo, se non, addirittura, alla mera lettura individuale e raffinata
degustazione dei testi drammatici. E’ solo con la rinascita del teatro in
epoca medievale, infatti, che esso torna ad essere centro di raccolta di
masse larghissime intorno al mistero liturgico della fede : prima all’interno
delle chiese, dove esso nasce come progressiva e sempre più complessa
amplificazione e articolazione della messa e del rito liturgico, poi sui sagrati
e sulle piazze di mercato, sotto il libero cielo che faceva da cupola ai sacri
accadimenti, scanditi su di un tono ora jeratico ora drasticamente reali
stico da attori dilettanti (laici), posti a recitare su una scena multipla
tripartita.
Con la fine del Medioevo ha inizio la dissoluzione del « cosmo teatrale »
come specchio in cui tutti i diversi strati della società, nella loro totalità
indiscriminata, potevano riconoscersi ; e quindi anche del « teatro » in
Sotto: Uno dei celebri disegni di Callot sulla commedia dell’arte.
In alto: Una stampa riproducente una farsa popo lare del Rinascimento; in centro: La ricostruzione, a cura di C. Walter Hodges, d’ un teatro elisabettiano fra il 1580 e il 1590.
Dal ’ 600 ad oggi la storia del teatro in quanto spet tacolo non presenta modificazioni sensibili: uno dei motivi per i quali i teatri oggi non sembrano più rispondenti alle necessità della nostra epoca deriva proprio dal fatto che essi nella maggior parte sono ancora quelli che erano due o tre secoli fa. La sto ria della drammaturgia aduna nomi di grandi scrit tori e grandi interpreti, ma l’edificio teatrale e la stessa struttura dello spettacolo restano fermi a quell’epoca. In basso: L ’interno delVHotel de Bourgo- gne, il primo teatro costruito a Parigi, come doveva essere intorno al 1645.
quanto « fuoco » di questo specchio. Da quel momento, infatti, prende
ranno corpo due filoni più o meno paralleli di attività teatrale : popolare
l’uno, legato a forme minori e subalterne di spettacolo (giocolieri, saltim
banchi, mostratori da baraccone, ecc.) che trovavano la loro naturale
collocazione in occasioni più o meno frequenti di festività popolaresche
(fiere, mercati) e nei punti di più fìtto incontro della gente minuta (all’aria
aperta, sulle piazze, oppure nelle locande o in improvvisate baracche) ;
aulico e dotto l’altro, legato ai vertici della società, cioè a dire alle corti,
come offre esempio singolarissimo e decisivo l’Italia, dove al teatro di
corte di tipo strettamente cortigiano sono legati i prototipi rinascimentali
dell’edificio teatrale moderno (Firenze, 1585; Parma, 1618 e 1688; ecc.),
conservatosi nella sua sostanza, fino ai nostri giorni, fedele a quei primi
modelli.
L’edificio teatrale è concepito per accogliere un determinato pubblico
di alto livello, al quale si offre — grazie al sempre più forte sviluppo
della scenotecnica e degli impianti di macchine, che tocca il suo vertice
nelle messinscene dell’opera barocca e del teatro dei Gesuiti nelle scuole
e nei ginnasi dell’Ordine, — uno spettacolo teatrale compiuto e perfetto,
un delicato e complicatissimo gioco di luci, colori, figurazioni e materiale
umano ; mentre alle quattro assi di un elementare e rozzo palcoscenico, su
una piazza o nel chiuso di una locanda,, sono riservate le improvvisazioni
degli attori nomadi, ora divenuti professionisti e costretti a sopperire con
le caricate (ed eccezionali a volte) doti individuali di mimica e di recita
zione alla impossibilità di suggestionare il pubblico con tecnici artifici.
Questa situazione si protrae, con una certa omogeneità entro l’intero
àmbito europeo, sino alla prima metà dell’Ottocento, quando il nomadismo
ha sostanzialmente termine e i teatri più o meno cortigiani subiscono un
processo di lento ma sicuro « imborghesimento », rescindendo il legame
organico con la corte medesima, abbandonando spesso le sale dei castelli
o i parchi delle ville principesche dove a volte venivano ospitati, reclu
tando i propri quadri tecnici nei ceti medi della società. Accade però che
in questa maniera, mentre la nuova classe dirigente borghese si accampa
saldamente nella vita teatrale e spesso riesce a trasformare la scena e
gli istituti culturali a questa connessi in altrettanti « pulpiti » da cui pre
dicare i suoi ideali, il popolo ai livelli più bassi ne resti escluso e non
disponga neppure più (tranne che in rare eccezioni) dei surrogati di teatro
minore e minimo che gli abbiam visto propri — e a volte anche congeniali
— in epoche passate.
E’ questa, in sostanza, l’esigenza avvertita agli inizi del Novecento
da uomini di teatro della più diversa formazione ideologica e culturale
e della più disparata provenienza sociale; esigenza avvertita soprattutto
in Germania, dove Georg Fuchs progetta i suoi colossali edifici a pianta
circolare destinati ad accogliere, in una atmosfera di solenne e mistica
celebrazione collettiva di quella che egli chiama la « festa teatrale », tutti
gli strati sociali, dal vertice alla base; progetti che non trovarono, per
Il teatro orientale ha subito una evoluzione del tutto diversa da quella dei paesi occidentali; mentre rimandiamo per ciò che si riferisce alla drammaturgia e allo stile di spettacolo alle brevi note di pag. 41 e pag. 63, diamo qui due esempi di edifici teatrali orientali. Nell’illustra zione in alto: Un teatro provvisorio di bambù, in Cina, per spettacoli popo lari alV aperto. NeU’ilìustrazione in basso: Un teatro di « No » in Giap pone oggi.
Uno dei rarissimi esempi di struttura moderna fu quello che Jacques Copeau, scrittore, attore e regista, elaborò per il Vieux-Colombier di Parigi. Sotto: Due disegni di Louis Jouvet riproducenti il palcoscenico del Vieux-Colombier; a sinistra, la scena vuota, a destra, la scena preparata per recitarvi un adattamento dei « Fratelli Karamazov » di Dostoievski.
altro, pratica realizzazione. Più concreti gli esperimenti di Max Reinhardt,
il quale, a suo agio anche nei toni più discreti e sommessi del « Kammer-
spiel », mirò sempre — tuttavia — alla creazione di una « scena per tutti » ;
giungendo ad utilizzare, negli anni immediatamente successivi alla prima
guerra mondiale, la pista di un circo intorno al quale, disposto su gra
dinate ad anfiteatro, sedeva « il popolo ». Reinhardt, infatti, rappresenta
10 sforzo più consapevole per superare l’angustia del palcoscenico1
natu
ralista e restituire al teatro la sua antica funzione di luogo in cui le folle
si raccolgono per celebrare insieme una mistica comunione. Mentre d’altro
canto Bertolt Brecht costituisce l’esempio di un superamento di quell’an
gustia ma in senso tutto opposto : ricomponendo, cioè, la dialettica di
scena e di pubblico, di attori e spettatori sul piano di un « dialogo peda
gogico », nel quale il pubblico interviene attivamente prendendo posizione
di fronte a ciò che gli attori vanno rappresentando; mentre questi ultimi,
infranta la « quarta parete », si offrono all’occhio critico degli spettatori
e li coinvolgono nel loro gioco. Fra queste due soluzioni estreme, per
altro, si muove variamente combinandosi e atteggiandosi tutta una serie
di esperienze diverse : esperienze che — dal teatro di massa e dalla con
nessa esigenza di una nuova strutturazione dell’edificio teatrale, al teatro
in pista (di cui anche in Italia abbiamo avuto ed abbiamo tuttora esempi
significativi) — dimostrano quanto profondamente sia sentita la necessità
di ristabilire, nelle nuove condizioni della realtà contemporanea, un equi
librio fra i due termini organici che compongono, come si diceva all’inizio,
11 fenomeno teatrale.
Paolo Chiarini Illustrazioni dì Gerda Becker With, da: K. Mac Gowan e W. Melnitz, “ The Living Stage” .
Il teatro popolare in Europa
e in America nell’età moderna
di Luciano Lucignaui
I. T e a t r o fra n c e s e
I precursori : l’ Enciclopedia
In Europa la questione del « teatro popolare » ha origine in Francia,
nella seconda metà del 1700.
E ’ un’origine, naturalmente, illuminista, e il primo nome che s’incon
tra è quello del filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778),
autore della famosa Lettera a d’Alembert sugli spettacoli (1758, 1), con
siderata una delle più severe condanne pronunciate contro il teatro. In
realtà la Lettera di Rousseau ha piuttosto il carattere, tipicamente illumi
nista, del « paradosso », e si sa che fu scritta non tanto in polemica con
d’Alembert quanto contro Voltaire, allo scopo d’impedire l’istituzione d’un
teatro a Ginevra.
Quali che siano i principi in base ai quali Rousseau condanna il teatro,
resta il fatto che le sue conclusioni non sono contro il teatro in generale
e che anzi egli vede la possibilità d’un rinnovamento dell’arte drammatica
« purché le sia dato un carattere nazionale e popolare, sull’esempio dei
Greci » (R. Rolland).
Ai Greci si rifà anche Denis Diderot (1713-1784), contemporaneo di
Rousseau, e come lui collaboratore delYEnciclopedia, che nella seconda
delle Conversazioni sul figlio naturale (1757, 2) si scaglia contro gli
spettacoli del suo tempo ai quali sarebbe mancata quella risonanza « che
può crearsi unicamente in una grande folla unita da una medesima calda
passione ». Diderot chiedeva, come dopo di lui chiederanno Louis-Sébastien
Mercier, Bernardin de Saint-Pierre, Marie-Joseph Chénier ed altri, « tra
gedie che rievocassero, shakespearianamente, le vicende più significative
della storia patria » onde condurre il teatro ad essere « il mezzo più efficace
e più immediato per armare invincibilmente le forze della ragione umana
e per gettare d’un sol colpo una grande massa di luce sul popolo »
(L. S. Mercier).
I precursori : la Rivoluzione
Un primo tentativo pratico di tradurre nella realtà le dottrine degli
illuministi fu compiuto dalla Rivoluzione francese : un decreto del Comi
tato di Salute Pubblica del 10 marzo 1794 stabiliva che l’antico Théâtre
Français sarebbe stato consacrato esclusivamente alle rappresentazioni I
I numeri in corsivo si riferiscono ai testi e ai documenti di seguito citati.date da e per il popolo, un certo numero di volte al mese. « L’edificio »
dice il decreto « verrà fregiato, all’esterno, della seguente iscrizione :
Teatro del Popolo. Le compagnie dei diversi teatri parigini saranno requi
site, a turno, pefi le rappresentazioni che dovranno esser date col ritmo di
tre per decade. 11 repertorio da recitare nel Teatro del Popolo sarà
suggerito da ogni teatro di Parigi e sottoposto all’approvazione del Comi
tato. I municipi dei Comuni saranno incaricati di organizzare, sulla base
di questo decreto, spettacoli offerti al popolo gratuitamente, ogni de
cade » (3).
Al vigoroso indirizzo politico non corrispose, sfortunatamente, una
altrettanto vigorosa produzione degli scrittori : è stato constatato che il
fatto più rilevante, nella storia del teatro francese, dal 1793 in poi, è
« lo straordinario sviluppo del vaudeville » (R. R.).
Gli ideali teatrali della Rivoluzione dovevano esser ripresi, circa mezzo
secolo dopo, da uno scrittore che alla Rivoluzione aveva dedicato quasi
interamente la sua opera, Jules Michelet (1798-1874): nel suo corso di
Lezioni agli studenti (1847-1848, 4) egli definiva il teatro « lo strumento
più potente per l’educazione... forse la speranza migliore d’un rinnova
mento nazionale », e indicava per il futuro Teatro della Nazione argomenti
tratti dall’epoca patriottica, come Giovanna d’Areo, Austerlitz e soprat
tutto quelli che egli definiva i Miracoli della Rivoluzione.
I precursori : la Comune
Un breve capitolo, ignorato dai più, della storia di questo problema,
è costituito dalle decisioni prese in materia di teatro dalla Comune di
Parigi, il primo esperimento di potere del proletariato, che durò settan-
tadue giorni (18 marzo-29 maggio 1871), e il cui provvedimento più impor
tante fu quello che proponeva di trasformare il sistema di sfruttamento
dei teatri da parte di un direttore o di un gruppo di imprenditori, sosti
tuendolo con un sistema di associazione, introducendo, cioè, il principio
socialista nell’organizzazione delle imprese teatrali. Tali decisioni non
vennero poi realizzate perché le truppe di Thiers erano già alle porte di
Parigi ; ma è da notare, tuttavia, il fatto che « nel periodo della Comune
la maggior parte delle sale teatrali e da concerto erano affollate da mem
bri della guardia nazionale, dagli operai e dalle donne del popolo e i
teatri, vedendo la nuova composizione del pubblico, abbassarono notevol
mente i prezzi. Inoltre la Comune non dette alcuna disposizione per i
repertori, ma alcuni teatri ripresero lavori che avevano un carattere
patriottico e parlavano della difesa del paese e della lotta contro i nemici »
(P. M. Kergentsev).
Il teatro all’aperto di Bussang, nei Vosgi, creato da Maurice Pottecher
nel 1892 fu la prima realizzazione di teatro popolare in Francia.
Iniziative del genere, intanto, venivano prese anche all’estero : a Vienna,
nel 1889, era stato inaugurato il Volkstheater (Teatro del popolo), a Ber
lino, nel 1894, si apriva lo Schiller Theater, che dopo un anno contava
già 6.000 abbonati; lo stesso avveniva a Bruxelles, a Grad, a Liegi, a
Zurigo. L’esempio di Bussang fu seguito in molte altre parti della Francia,
nel Poitou, in Bretagna, in Fiandra, in Guascogna, ecc., e la questione
del teatro popolare fu nuovamente sollevata; finché, nel novembre 1899,
la Revue d’art dramatique la fece sua, stampando una lettera aperta al
ministro della pubblica istruzione perché patrocinasse la creazione d’un
teatro popolare a Parigi, e aprendo, al tempo stesso, un concorso per il
progetto migliore. La giurìa, composta, fra gli altri, da Anatole France,
Jean Jullien, Octave Mirbeau, Romain Rolland ed Émile Zola, scelse il
progetto di Eugène Morel, basato sul principio degli abbonamenti, che
prevedeva la possibilità di edificare tutta una serie di teatri popolari « in
virtù d’un sistema di proliferazione per il quale ogni teatro, una volta
affermato, avrebbe dovuto dar vita a un teatro nuovo » (G. R. Morteo) ;
allo Stato restava soltanto il compito di controllare il rispetto degli statuti
e l’amministrazione dei fondi.
Romain Rolland
Le condizioni morali e materiali del nuovo teatro furono stabilite
da Romain Rolland (1866-1944); è anzi a questa campagna e all’impegno
di tracciare le linee ideologiche per un repertorio che si deve il suo libro
Le Théâtre du Peuple (1903, 5) divenuto ormai un classico dell’argomento.
Il teatro popolare doveva essere per Rolland uno svago, una sorgente
d’energia, una luce per l’intelletto, e a questo teatro egli dedicò anche la
sua produzione drammatica, raccolta sotto i due titoli di Teatro della
Rivoluzione e Tragedie della Fede : di questa produzione furono rappre
sentati Danton, nel dicembre 1900 al Théâtre Civique di Parigi, presentato
da un discorso di Jean Jaurès, e II l i luglio, poco più di un anno dopo,
« allo scopo » diceva la prefazione « di resuscitare le forze della Rivo
luzione ».
Il progetto del Morel fu naturalmente insabbiato, malgrado l’assidua
campagna di stampa condotta da coloro che ne erano stati i sostenitori,
ed anche i tentativi ad esso ispirati, del Théâtre Populaire di Belleville,
e del Théâtre du Peuple di Clichy, alla periferia di Parigi, ebbero breve,
anche se gloriosa, esistenza.
Firmin Gémier e il Théâtre National Populaire
Debbono trascorrere quasi dieci anni perché siano fatti nuovi sforzi
di affrontare alle radici l’ormai antica questione, ed a compierli è Firmin
Gémier (1869-1933), un attore che aveva fatto le sue prime esperienze
in una scena d’avanguardia, il Théâtre Libre di Antoine, culla del natu
ralismo. A Gémier si deve un famoso allestimento del H luglio di Rolland
(1902) ed è sempre lui che nel 1911 crea il Théâtre National Ambulant,
ossia un teatro viaggiante, organizzato come un circo, allo scopo di portare
al pubblico di provincia gli spettacoli realizzati a Parigi. Il T.N.A., con
un repertorio assai vario che andava da Tolstoi at Fabre, girò il nord della
Francia ottenendo un grandissimo successo, ma incontrando ostacoli d’ogni
genere per le difficoltà, tecniche e finanziarie, di trasportare un complesso
così numeroso (1911-1912). Nel 1916 Gémier fonda la Société Shake
speare, che ebbe un lancio pubblicitario impressionante, per quell’epoca,
e mette in scena alcuni dei capolavori del grande scrittore inglese : II Mer
cante di Venezia, Antonio e Cleopatra, La bisbetica domata ; poi, nel 1919
e 1920 agisce al Cirque d’Hiver, dove offre « grandiosi spettacoli nei quali,
alla rappresentazione drammatica, vennero a mescolarsi esercizi atletici,
balli e canti » (G.R.M.) ; e finalmente, l’i l novembre 1920, gli è affidata
la direzione del Théâtre National Populaire, istituito dal governo fran
cese con una modesta sovvenzione annua. Il T.N.P. fu inaugurato con
una festa rievocativa della storia della democrazia in Francia, cui avrebbero
dovuto seguire, nei disegni di Gémier, grandi spettacoli classici e moderni,
di teatro, d’opera, di balletto, eec. Purtroppo il temperamento suo non
era tale da adattarsi convenientemente all’inevitabile burocrazia d’un
organismo del genere, ed infatti poco dopo cessò di occuparsene, e il T.N.P.
divenne « un teatro che poteva essere definito popolare solo nel senso che
offriva buoni spettacoli (buoni, almeno, nelle intenzioni) al popolo a prezzi
bassi » (G.R.M.). Tale la situazione del T.N.P. fino al 1951, anno in cui
ritorna alla sua vera funzione in seguito al conferimento della direzione
all’attore e regista Jean Vilar (6).
Tra Gémier e Vilar il teatro francese ha conosciuto altre interessanti
esperienze dal punto di vista tecnico e formale : c’è stato il primo dei
« piccoli teatri », il Vieux-Colombier di Jacques Copeau (1879-1949), e
ci sono stati gli spettacoli e gli scrittori rivelati dal gruppo del Théâtre
du Cartel, Georges Pitoeff, Charles Dullin, Louis Jouvet e Gaston Baty,
e c’è stata l’attività di Jean-Louis Barrault. La questione del teatro
popolare non è stata sollevata da costoro che genericamente o indiretta
mente, come necessità, cioè, per un artista, di rivolgersi al pubblico più
vasto, e solo Copeau, poco dopo l’occupazione, scrisse un opuscolo su
questo argomento (Le Théâtre Populaire, 1942, 7).
Jean Vilar e il nuovo T . N . P.