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Cittadinanza e appartenenza nella teoria politica di Kant

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione...2

I. Antropologie e appartenenza...9

1. Antropologia liberale...15

2. Antropologia comunitarista...24

3. Oltre nazione e città-stato...31

II. Antropologia in Kant...38

1. Antropologia pragmatica: la vocazione degli esseri umani...38

2. Finalismo e antropologia...43

3. Carattere empirico e intelligibile...46

4. Il carattere della specie...57

4.1 Esseri umani e animali...58

4.2 Esseri umani e esseri razionali in genere...60

5. Antropologia kantiana e antropologia comunitarista...64

6. Antropologia kantiana e antropologia liberale...72

III. Cosmopolitismo, popoli, stati...79

1. Il postulato del diritto pubblico: coesistenza e cosmopolitismo giuridico...80

2. Il carattere dei popoli...94

3. Stato e nazione...104

4. Le nazioni hanno un significato etico?...109

IV. Cittadinanza e appartenenza in Kant...113

1. Appartenenza a una cosa comune...113

2. Il contratto originario...116

3. La respublica noumenon...123

4. Il patriottismo nella repubblica...134

5. Legittimità democratica, rappresentanza, pubblicità...137

6. Eguale libertà, eguali diritti...151

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Introduzione

Cosa significa ‘appartenere’ a una comunità politica? In questo lavoro cercherò di cogliere il concetto di appartenenza come parte del concetto di cittadinanza. La cittadinanza è uno dei modi in cui possiamo pensare il rapporto che intercorre tra gli individui e la comunità politica alle cui leggi essi sono sottoposti. Come scrive T. H. Marshall: «Nella società feudale lo status era il contrassegno di classe e la misura della disuguaglianza. Non c’era nessun complesso di diritti e di doveri assegnati a tutti gli uomini (nobili e non nobili, liberi e servi) in virtù della loro appartenenza alla società. In questo senso, non esisteva nessun principio di eguaglianza dei cittadini da contrapporre al principio di diseguaglianza delle classi»1. La comunità politica moderna viene

edificata su una forma di uguaglianza fondamentale, ovvero lo status della cittadinanza: «Il contratto moderno è in sostanza un accordo fra uomini che sono liberi e che posseggono uno status di uguaglianza. Lo status non veniva eliminato dal sistema sociale. Lo status differenziato, legato alla classe, alla funzione e alla famiglia, veniva sostituito da un unico status uniforme della cittadinanza, che forniva le basi egualitarie su cui si poteva edificare la struttura della disuguaglianza»2. Il nostro problema è

pertanto ridotto: di tutti i rapporti che possiamo individuare tra individui e comunità politica, con la sua variabilità temporale e geografica, ci concentriamo sul significato che il termine ‘appartenenza’ può avere all’interno del problema della cittadinanza come

1 T. H. MARSHALL, Citizenship and Social Class and Other Essays, Cambridge, Cambridge University

Press, 1950, (trad. it. di P. MARANINI, Cittadinanza e classe sociale, Torino, UTET, 1976, p. 10).

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si è sviluppato a partire dalla metà dello scorso secolo in Occidente3. Esso diviene

pertanto: come si deve disegnare il legame di una persona con la sua comunità di appartenenza? Che cosa significa essere cittadini di uno stato? Quali sono i “confini” dell’appartenenza a uno stato? In questo lavoro affronterò queste domande esplorando la teoria politica di Immanuel Kant, cercando di situarlo all’interno di un problema dapprima inquadrato nel dibattito contemporaneo. Kant è un filosofo cosmopolita, nel cui pensiero si possono ritrovare tutti i significati del termine4. Tra i vari significati,

Kant è pioniere del cosmopolitismo giuridico, vale a dire dell’unione di tutti i cittadini e stati della terra entro relazioni di diritto. Mi sembra che questa impostazione cosmopolitica porti a particolare chiarezza i termini della questione e ci interroghi in maniera incisiva su cosa significhi per noi essere cittadini, vale a dire essere parte, appartenere allo stato. Allo stesso modo, il teorico che vuole studiare la cittadinanza si trova sfidato proprio sullo stesso oggetto che sta studiando: perché la cittadinanza di

uno stato, quando siamo in ultima istanza cittadini del mondo, Weltbürger? Per questo

motivo il pensiero kantiano è ed è stato considerato una risorsa necessaria per affrontare un tale problema. Certamente, il tema della cittadinanza e dell’appartenenza a uno stato è pressante e insidioso. Pensare la cittadinanza è motivo di smarrimento, le nostre intuizioni non ci possono guidare più di tanto e talvolta può sfuggire il senso proprio delle comunità politiche5. La globalizzazione economica, con la liberalizzazione dei

3 Cfr. D. ZOLO, La strategia della cittadinanza, in D. ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 3-46.

4 Con Kant si parla di cosmopolitismo morale, giuridico, politico ed economico. Si veda P. KLEINGELD, Kant and Cosmopolitanism: The Philosophical Ideal of World Citizenship, Cambridge, Cambridge

University Press, 2012, pp. 1-12.

5 Si pensi come esempio all’esistenza di zone sottratte alla giurisdizione pubblica. Come scrive Seyla Benhabib: «Whether it is the growth triangles of Southeast Asia or the maquilladores of Central America

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movimenti di capitale, rende difficile reperire le risorse fiscali necessarie agli stati per definire la nostra cittadinanza. Del resto alla globalizzazione non corrisponde neppure una qualche cittadinanza cosmopolitica. Allo stesso modo, la cittadinanza europea sembra solo embrionale rispetto all’integrazione giuridica ed economica raggiunta dagli stati membri. Come europei, vediamo la nostra comunità politica cambiare avendo l’impressione di non aver affatto contribuito a tale cambiamento. Questo risponde certamente alle insidie che permeano un dibattito pubblico che, piuttosto che svolgersi sulla base di considerazioni razionali, attinge risorse dalla retorica, quando non dalla aperta demagogia. Certamente l’integrazione giuridica avviene nonostante deficit democratici, talvolta molto pesanti e sentiti dall’opinione pubblica europea6. Di fronte a

questa situazione le opzioni possibili sono sostanzialmente tre: dedicarsi alla riforma dell’ordine internazionale; tornare a una statualità forte e a un ordine internazionale fondato sul mero diritto internazionale classico; vedere erodere la legittimità degli stati (e la nostra cittadinanza) giorno dopo giorno. La filosofia cosmopolitica kantiana ci può aiutare nella elaborazione della prima alternativa. Il fatto di avere di fronte a sé queste

(See Emcke 2004), this form of economic globalization results in the disaggregation of states’ sovereignty with their own complicity. There is an uncoupling of jurisdiction and territory in that the state transfers its own powers of jurisdiction, whether in full knowledge or by unintended consequence, to non-statal private and corporate bodies» (S. BENHABIB, Borders, Boundaries, and Citizenship, «PS: Political Science

and Politics», 38 (2005), n. 4, p. 676).

6 Molti studiosi considerano la governance dell’Unione Europea affetta da deficit democratico. Inoltre, anche gli interventi della cosiddetta troika (composta da rappresentanti della Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale) nel caso di crisi economiche nei paesi della Eurozona sollevano dubbi rispetto alla loro democraticità (Si veda Y. BERTONCINI, Democratic Crises in the EU: towards “New Frontiers”, Institut Jacques Delors, policy paper 207 (2017),

https://institutdelors.eu/wp-content/uploads/2018/01/democraticcrisesintheeu-bertoncini-oct17.pdf ). Gli interventi della troika sono stati condannati dall’opinione pubblica per questo motivo (si veda ad esempio

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tre opzioni – e sentirsi in qualche modo bloccati all’interno della terza – ha una conseguenza sul tema che vogliamo qui indagare. Quando siamo confusi sul senso di appartenenza a una comunità politica – quando mettiamo “appartenere” tra virgolette – è anche perché l’appartenenza è una funzione della comunità politica. Il nostro senso di appartenenza alla comunità politica cambia con il variare di questa. La nostra comunità politica sta cambiando e non sappiamo bene quali sono i suoi confini. Definendo in che modo essa deve essere, individuando la comunità politica (o meglio, le comunità politiche) sarà possibile avvicinarsi con meno smarrimento alla domanda su cittadinanza e appartenenza7.

Mi è sembrato di dover affrontare questo tema connettendolo all’antropologia. Ogni cittadinanza si giustifica di fatto a partire da qualche assunzione sulla nostra natura. Quello che chiediamo a noi stessi, come cittadini, è strettamente legato a ciò che pensiamo di essere, come esseri umani. Nel primo capitolo del lavoro (Antropologie e appartenenza), affronterò il legame che sussiste tra cittadinanza, appartenenza e antropologia. In particolare illustrerò due modelli di cittadinanza a partire dalla visione antropologica che li giustifica: ovvero la liberale e la comunitarista. Illustrerò anche il pensiero – che riprenderò anche nell’ultimo capitolo – di quei teorici, come Jürgen Habermas e i repubblicani civici (Quentin Skinner e Philip Pettit soprattutto), che sono andati oltre i due modelli, attingendo dall’uno e dall’altro e configurando una “terza via”. Nel secondo capitolo (Antropologia in Kant) affronterò gli scritti antropologici di Kant, cercando di fare un confronto tra l’antropologia kantiana, quella liberale e quella comunitarista. Kant ha tenuto lezioni di antropologia durante tutta la sua vita ed era

7 Cfr. G. A. KELLY, Who Needs a Theory of Citizenship?, in R. BEINER (ed. by), Theorizing Citizenship,

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avido lettore di resoconti di viaggi. Negli scritti antropologici sistematizza questo svariato materiale, che resta delimitato dalla chiara distinzione che egli fa tra il carattere empirico, che costituisce l’oggetto dell’antropologia, e il carattere intelligibile, che è il punto di partenza della sua filosofia morale. Questi sono i due punti di vista dai quali può essere considerata l’umanità. A partire dal punto di vista noumenico o intelligibile, e non da una prospettiva empirica, viene elaborata la filosofia politica kantiana, che è appunto a priori, elaborata per esseri che hanno la qualità della libertà. Come si relaziona ciò che dobbiamo fare con ciò che siamo? Il dato antropologico, l’«insocievole socievolezza» che contraddistingue la specie umana, segna la difficoltà della comunità politica, che resta nondimeno possibile e doverosa. Il terzo capitolo (Cosmopolitismo, popoli e stati) si occupa più propriamente della filosofia politica kantiana, quindi della elaborazione a priori di un ordine politico. Se nel capitolo precedente si può cogliere il cosmopolitismo morale kantiano nella sua portata, nel terzo capitolo tenterò di fare lo stesso con il suo cosmopolitismo giuridico. Per un verso, è qui che i teorici della cittadinanza devono mobilitare le risorse migliori per mostrarne il senso in una comunità particolare. Vedremo anche il significato delle nazioni nel pensiero kantiano. Kant è un filosofo del tardo illuminismo. Con il romanticismo, il concetto di nazione sarebbe divenuto il fulcro attorno al quale edificare l’ordine politico. Qual è il significato delle nazioni nel pensiero kantiano? Vedremo che, secondo Kant, il concetto di nazione non ha una importanza decisiva per la costruzione di un ordine giuridico secondo ragione, dunque per la nostra convivenza come esseri umani; tuttavia, le nazioni hanno un ruolo nella sua filosofia della storia. Infine, troviamo negli scritti kantiani anche le risorse per rispondere alla sfida dei teorici del “nazionalismo

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liberale”, che riportano in auge il concetto di nazione, ripulito dagli eccessi del secolo scorso. L’appartenenza a una nazione è una risorsa: riesce a motivare gli esseri umani a espletare le obbligazioni di cittadinanza. Nel quarto capitolo (Cittadinanza e appartenenza in Kant) cercherò di capire cosa significa per Kant essere cittadini. La cittadinanza kantiana è connessa alla repubblica8. Nei suoi testi di filosofia politica,

specialmente nello scritto Per la pace perpetua, Kant definisce la costituzione repubblicana come quella «scaturita dalla pura fonte del concetto di diritto»9. Il diritto è

il principio formale della coesistenza dei nostri liberi arbitrii, affetti da ciò che Kant chiama «male radicale» [radikale Böse]. La repubblica è l’apice del pensiero politico kantiano, la comunità politica che sola si addice a esseri dotati di un carattere intelligibile10 e che ha il compito allo stesso tempo di gestire la natura umana, la nostra

«insocievole socievolezza»11. Affrontando il repubblicanesimo kantiano si può cogliere

tutta la tensione insita nei due concetti di cittadinanza e appartenenza, ovvero il tentativo di portare a una qualche unità una pluralità di esseri umani con desideri e attitudini differenti12. La repubblica kantiana definisce la possibilità di un mondo

8 Si veda quanto scritto nella Pace Perpetua: «In una costituzione in cui il suddito non è cittadino e dunque non è repubblicana» (ZeF, AA VIII 351, trad. it. cit. p. 161).

9 ZeF, AA VIII 351, trad. it. cit. p. 160.

10 Cfr. N. DE FEDERICIS, Kants Theorie der Demokratie, in V. WEIBEL (hrsg. von), Natur und Freiheit. Akten des XII. Internationalen Kant-Kongresses 2015, Berlin-New York, De Gruyter, 2018, p. 2581.

11 Cfr. A. PINZANI, Il cittadino kantiano tra liberalismo e repubblicanesimo, «Filosofia politica», XVII

(2003), n. 1, pp. 109-125.

12 Si veda O. O’NEILL, Constructions of Reason. Explorations of Kant’s Practical Philosophy,

Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 3-27. Come sostiene Onora O’Neill, Kant usa metafore politiche (il tribunale, il dibattito, la comunità) per illustrare la ragione, la cui autorità è costruita da noi allo stesso modo in cui costruiamo l’ordine politico. L’ordine cognitivo di cui abbiamo bisogno (la critica della ragione) è quindi un compito “politico”, riflessivo e collettivo. O’Neill scrive che «The reason why Kant is drawn to explicate the authority of reason in political metaphors is surely that he sees the problems of cognitive and political order as arising in one and the same context. In either case we

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comune, senza ricorrere a visioni organiche o nazionalistiche. Nella repubblica siamo legislatori di noi stessi, ovvero ci impegniamo con gli altri a costruire una giustizia

comune, in cui tutti possiamo trovare la nostra eguale libertà e della cui autorità siamo

razionalmente convinti. Costruire questa comunità, come vedremo, ci richiede qualcosa. Come nella tradizione repubblicana, anche nel pensiero di Kant c’è una necessaria connessione tra libertà e patriottismo. Questo è un patriottismo civico, esclusivamente concentrato sulla propria comunità politica come res publica. Ciò che dobbiamo concretamente fare, del resto, dipende dalle nostre differenti attitudini e dalla comunità politica in cui ci troviamo. Il patriottismo kantiano, vedremo, fa rientrare tutti gli elementi che non associamo normalmente al termine ‘patriottismo’, come l’autonomia di scegliere in che maniera concretizzarlo, e la possibilità (la necessità, persino) della critica della propria comunità politica.

have a plurality of agents or voices) and no transcendent or preestabilished authority. Authority has in either case to be constructed. The problem is to discover whether there are any constraints on the mode of order (cognitive or political) that can be constituted. Such constraints (if they can be discovered)

constitute respectively the principles of reason and of justice. Reason and justice are two aspects to the solution of the problems that arise when an uncoordinated plurality of agents is to share a possible world» (p. 16).

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I. Antropologie e appartenenza

Uno dei motivi per cui usiamo la parola ‘cittadinanza’ per indicare ciò che ci lega a uno stato, e non ‘catalogo di diritti e doveri’, è il fatto che la cittadinanza implichi, oltre ad essi, qualcosa che chiamiamo appartenenza o membership1.

Il concetto di cittadinanza si può infatti articolare secondo tre dimensioni:

1. lo status giuridico della cittadinanza, quindi i diritti civili, i diritti politici e quelli sociali;

2. una dimensione partecipativa, che a partire dai diritti e doveri politici considera i cittadini come agenti che partecipano alle decisioni della propria comunità politica;

3. una dimensione identitaria: la membership o appartenenza a uno stato2.

Teorizzare la cittadinanza significa cercare di cogliere la dimensione dei diritti, della partecipazione politica e dell’appartenenza. Quest’ultima dimensione concerne la componente psicologica della cittadinanza3, ovvero il significato che ha per le persone

essere cittadini di un dato stato. Cosa significa per noi essere cittadini di uno stato? Quali sono i “confini” dell’appartenenza? Lo scopo di questo lavoro è indagare il rapporto tra cittadinanza e appartenenza nella teoria politica di Immanuel Kant. Come è noto, accanto alla dimensione statuale, sorge nel pensiero politico di Kant una

1 L. BACCELLI, Cittadinanza e appartenenza, in D. ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Editori Laterza, 1994, pp. 129-166.

2 “Citizenship”, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, https://plato.stanford.edu/entries/citizenship/#3. 3 Ibidem.

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dimensione cosmopolitica: l’identità politica delle persone deve essere considerata sia in quanto cittadini dello stato (Staatsbürger), sia in quanto cittadini del mondo (Weltbürger). Sebbene Kant mi porterà oltre, in questo capitolo partirò dalla comunità politica ristretta, lo stato, che ci fornisce un’appartenenza primaria e “piena”4. La

cittadinanza fornisce alle persone che la posseggono una fonte distinta di identità. Cercheremo di capire quale essa sia, quale essa possa e debba essere, nella teoria politica kantiana e nei due modelli attorno ai quali è andato strutturandosi il dibattito contemporaneo sulla cittadinanza, ovvero il modello repubblicano e quello liberale. Individuare il legame tra cittadinanza e appartenenza è cruciale proprio per il funzionamento della cittadinanza stessa. Se le persone si sentono parte dello stato, la sua “colorazione” cambia. In primo luogo, se la maggior parte dei cittadini considera l’appartenenza alla propria comunità politica come una delle fonti che costituiscono la sua identità – ovvero, se si sente cittadino di quello stato - è possibile pensare a uno stato integrato, in cui vige una certa solidarietà tra concittadini. Alla base di questa affermazione si trova l’assunto psicologico per cui le persone mostrano più facilmente solidarietà verso coloro che ritengono essere loro simili. Condividere almeno una parte di identità comune – sentirsi come gli altri cittadini dello stato x - agevola la solidarietà tra individui che sono tra loro estranei, che non solo non vivono legami profondi ma neppure si conoscono. In secondo luogo, anche il problema dell’obbligazione politica viene influenzato dal senso di appartenenza dei cittadini al proprio corpo politico. Perché un cittadino deve rispettare le leggi dello stato? Quale giustificazione normativa

4 È necessario partire da qui anche perché i nostri riferimenti quando parliamo di cittadinanza sono precedenti al cosmopolitismo giuridico, di cui Kant è pioniere, che apre la dimensione dell’identità di cittadino del mondo.

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è possibile darci quando ci chiediamo perché obbediamo alle leggi? Non è possibile trovare la giustificazione normativa del perché i cittadini dovrebbero obbedire alle leggi nel loro senso di appartenenza: non si può fondare l’obbligazione politica in qualcosa che si può avere o non avere, o che può mutare, come il sentirsi parte di uno stato. Il senso di appartenenza, il sentirsi membri di una comunità, fornisce piuttosto un incentivo alla lealtà verso lo stato, agevola il nostro conformarci alla legge. In breve, «se questa è la mia comunità politica, e mi trovo a pensare ai suoi interessi come qualcosa che noi membri condividiamo, e al suo governo come il nostro governo, allora sarà anche facile pensare di avere un’obbligazione a obbedire alle sue leggi»5. In

definitiva, se ci sentiamo parte dello stato, è più facile pensare ad esso come un’impresa stabile, fiorente e comune. Affrontare il problema dell’appartenenza significa interrogarsi su «che cosa riunisce i cittadini in una comunità politica coerente e stabilmente organizzata, e mantiene nel tempo questa fedeltà»6. Il senso di appartenenza

a una comunità politica si definisce con il termine ‘patriottismo’. Questo consiste in: (1) uno speciale affetto per il proprio paese,

5 “Political Obligation”, in Stanford Encyclopedia of Philosophy,

https://plato.stanford.edu/entries/political-obligation/ [traduzione mia]. Questo aspetto viene sollevato

come uno dei punti di forza della teoria contemporanea dell’obbligazione politica basata sulla

membership. Questa teoria fonda la nostra obbligazione politica nell’essere membri di una comunità,

quindi nel ritrovarsi in un dato ruolo. Al pari della famiglia, in cui siamo nati, l’essere membro di una comunità politica in cui siamo nati genera l’obbligazione politica. In questo caso non è giustamente il nostro senso di membership che genera l’obbligazione, ma è la nostra effettiva membership, il fatto che siamo membri di quello stato. Un’obiezione a questa teoria è che essa faccia fluire troppo facilmente il senso di identità dall’essere nati in una comunità politica (dalla effettiva membership), senza occuparsi del tipo di comunità cui si dovrebbe appartenere. Non sono sicura che ci sia un «senso di identità che i membri di una comunità politica normalmente condividono» (Ibidem).

6 R. BEINER, Introduction: Why Citizenship Constitutes a Theoretical Problem in the Last Decade of the Twentieth Century, in R. BEINER (ed. by), Theorizing Citizenship, Albany, State University of New York

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(2) un senso di identificazione soggettiva con esso, (3) un’attenzione particolare per il suo benessere,

(4) la disponibilità a sacrificarsi per promuovere il suo bene7.

Quindi si può dire che non solo il patriottismo ha una componente identitaria – chi è patriottico ama il proprio paese e se ne sente parte (1)(2) – ma che il patriottismo ci rende disponibili ad andare oltre il nostro immediato interesse per promuovere il bene comune. Per questo motivo, il patriottismo riesce a incidere sulla integrazione dello stato (4). Inoltre il patriottismo prevede un’attenzione particolare per il benessere del proprio paese. Questo implica che il patriottismo ha una rilevanza morale, e che genera doveri ulteriori specifici verso i nostri compatrioti: accanto ai doveri che abbiamo verso tutti gli esseri umani in quanto tali si aggiungono delle obbligazioni speciali (3). Per definire il patriottismo è necessario tuttavia precisare il suo oggetto, ovvero cosa si intenda per ‘patria’. Si può amare la patria come res publica, nella sua natura politica: in questo caso si ha un patriottismo civico, rivolto allo stato come impresa comune. Differentemente, il nostro amore può essere per la patria come nazione, ovvero l’insieme di persone che si riuniscono sotto la stessa lingua, la stessa storia, cultura, religione, discendenza. Questo è il tipo di identità alla base degli stati-nazione. In questo caso parliamo di patriottismo nazionalista. Infine possiamo amare la nostra patria per dei suoi tratti specifici, perché ci permette di vivere comodamente, perché ha un bel paesaggio, ci piace la sua cultura, il suo sistema sanitario, ecc.; in questo caso si parla di

trait-based patriotism8. Tutti questi sono “patriottismi” diversi, con oggetti diversi,

implicazioni molto diverse, una diversa rilevanza morale, che è opportuno tenere

7 “Patriotism”, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, https://plato.stanford.edu/entries/patriotism/. 8 P. KLEINGELD, Kantian Patriotism, «Philosophy & Public Affairs», 29 (2000), n. 4, pp. 313-341.

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distinti. È possibile tuttavia trovare questi diversi patriottismi assieme: una persona che ha la cittadinanza italiana si può sentire italiana perché si sente parte dell’Italia come repubblica; oppure, in quanto italiana è la sua lingua, cultura, storia. Infine, ci si può sentire italiani in quanto si ama il paesaggio italiano, la cultura italiana, o perché quando si va all’estero è piacevole avere una cittadinanza italiana che evoca, appunto, bei paesaggi, un preciso patrimonio culturale ecc. È difficile trattare il patriottismo come qualcosa che segue inevitabilmente a qualcos’altro, quindi come qualcosa che possiamo generare. Si può tuttavia andare a vedere che spazio ha il patriottismo in uno stato, come esso si inserisce all’interno della cittadinanza. Dei tre tipi di patriottismo considerato, il

trait-based patriotism è sicuramente quello più soggettivo e variabile. È inoltre comune

da riscontrare: come pensare che qualcuno non ami il proprio stato almeno per un singolo aspetto? Allo stesso tempo, proprio per questi motivi, è difficile individuare il suo spazio politico. Tuttavia, quando consideriamo gli altri due tipi di patriottismo, questi si inseriscono diversamente nei modelli di cittadinanza che è possibile elaborare. Sul piano teorico, ogni cittadinanza prevede che per noi essere cittadino significhi qualcosa, prevede per noi una certa membership o appartenenza: lo spazio del patriottismo è diverso, a seconda dei modelli di cittadinanza, ed è diverso anche il suo oggetto. Quando si considerano i modelli di cittadinanza, sono due che vengono solitamente opposti: quello repubblicano e quello liberale. Questi modelli insistono su dimensioni diverse delle tre che abbiamo visto, ovvero la dimensione legale, quella della partecipazione politica e quella dell’appartenenza. I repubblicani insistono sulla dimensione partecipativa, condensata nell’immagine della città-stato greca, dell’autogoverno civico, in cui i cittadini prendono parte direttamente alle decisioni

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della comunità considerata, attraverso la rotazione delle cariche, ad esempio. Differentemente, la tradizione liberale riprende la sua concezione di cittadinanza dalla cittadinanza romana, pensata per estendersi sugli ampi territori conquistati. La cittadinanza liberale smette di essere primariamente partecipazione alla formazione delle leggi, per divenire uno strumento in mano al cittadino per la sua protezione, nei confronti degli altri e rispetto allo stato. Il peso della cittadinanza liberale cade sulla dimensione legale della cittadinanza, sui diritti. Questi diversi concetti di cittadinanza esprimono una diversa idea di libertà elaborata a partire da una diversa concezione di individuo. Si può dire che «il regime dell’appartenenza e dei diritti, comunque organizzato, è retto da una soggiacente antropologia, da un’idea di soggetto che detta il senso dell’appartenenza e quindi le caratteristiche della posizione giuridica del soggetto stesso»9. Qual è la natura dell’uomo? I pensatori politici hanno teorizzato diversamente

la cittadinanza, in tutte e tre le sue dimensioni, a partire da una diversa immagine antropologica. Essi hanno illuminato tipologie di diritti piuttosto che altre, assegnato più o meno importanza alla partecipazione politica, concepito diversamente l’appartenenza. Come sostiene Charles Taylor, l’obiettivo di una tesi ontologica – di una affermazione sulla natura dell’essere umano – è strutturare un campo di possibilità rispetto alle posizioni politiche o morali che si possono consistentemente sostenere. Sostenere, esplicitamente o implicitamente, una precisa immagine della natura umana, rende impossibile teorizzare certe tipologie di cittadinanza. Questo è il legame che sussiste tra antropologia e appartenenza, che analizzerò nei prossimi paragrafi10.

9 P. COSTA, La cittadinanza: un tentativo di ricostruzione archeologica, in D. ZOLO (a cura di) La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, pp. 84-85.

10In definitiva: «L’ontologico ci aiuta a definire le opzioni che ha senso sorreggere per mezzo della

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1. Antropologia liberale

Ciò che fonda la cittadinanza liberale, al di là delle motivazioni contingenti per preferirla11, è la concezione liberale12 della natura umana. L’antropologia liberale

«rifiuta come illusoria l’idea che la ragione abbia dei fini suoi»13, che ci siano fini

oggettivi che ci definiscono. Tradizionalmente, la razionalità liberale è strumentale, la

nostra ragione ci fornisce gli strumenti per realizzare i nostri fini soggettivi. Possiamo, a partire dalla nostra razionalità, scegliere tra tutte queste preferenze e realizzarle. Questa visione della natura umana ha conseguenze precise sul piano politico. In primo luogo, l’elaborazione della libertà dell’uomo come libertà negativa, ovvero non interferenza

Comunitarismo e liberalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 140).

11 Ci sono delle motivazioni contingenti che ci spingono verso un modello di cittadinanza liberale e ci allontanano dal modello della città-stato. Queste motivazioni sono espresse da Benjamin Constant nella conferenza del 1819 su La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni. Secondo Constant, l’esercizio della libertà degli antichi, di una cittadinanza repubblicana, non è più praticabile per quattro ragioni: in primo luogo l’estensione dello stato, che non rende più possibile la partecipazione politica che poteva avvenire in comunità piccole; in secondo luogo il fatto che tutti debbano lavorare (mentre nel mondo greco la schiavitù permetteva una quantità di tempo libero da dedicare alle attività politiche); in terzo luogo la capillarità del commercio, attività che assorbe gli individui; infine l’amore per la libertà individuale di soddisfare i propri desideri che l’attività del commercio si porta dietro. Queste quattro ragioni sono tuttavia legate a condizioni sociali, che possono cambiare o essere adattate. (Si veda M. C. PIEVATOLO, La libertà degli antichi e la libertà dei moderni,

http://bfp.sp.unipi.it/ebooks/mcpla/ch02s03.html).

12 Tranne dove esplicitato, uso la parola ‘liberale’ come calco della parola inglese ‘liberal’. In particolare, mi riferisco al dibattito innescatosi in seguito al libro di John Rawls A Theory of Justice (J. RAWLS, A Theory of Justice, Cambridge, The Belknap Press of Harvard University Press, 1971, (trad. it. di

U. SANTINI, riv. da e a cura di S. MAFFETTONE, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 2008).

L’opposizione di antropologia liberale (quindi liberal) e antropologia comunitarista, così come di cittadinanza liberale e comunitarista, costituisce inoltre una semplificazione che può essere perdonata solo se si considera il bisogno di ricorrere a dei modelli per orientarsi. Questi modelli non sono pertanto (per definizione) esaustivi, e certamente non considerano la varietà e sfumature delle posizioni sostenute dagli autori che si cerca di farvi rientrare.

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nel pacifico perseguimento dei propri interessi. In secondo luogo, la figura politica del contratto, istituito virtualmente attraverso il consenso dei partecipanti, una figura derivata dal diritto privato che ha a che fare con il perseguimento dei propri interessi soggettivi. In terzo luogo, una precisa concezione di cittadinanza, incentrata sui diritti come dotazione dei soggetti. In ogni caso, la conseguenza sulla costruzione di uno stato possibile, una comunità politica a partire dalla natura umana liberale, non si pone come un’impresa semplice. Come scrive O’Neill: «Se i fini sono soggettivi, l’azione secondo ragione [reasoned action] di individui differenti non ha bisogno di convergere, così l’egoismo, la razionalità economica e la competizione saranno i paradigmi dell’azione secondo ragione. L’etica e le scienze sociali hanno il compito di disinnescare o ridurre o coordinare le implicazioni hobbesiane di una concezione della ragione che è ostaggio dei desideri o preferenze degli individui e delle proprie convinzioni, che sembra essere il corollario inevitabile di un una visione empirista e anti-metafisica»14. «Disinnescare,

ridurre o coordinare la competizione» tra le persone è il compito che si deve porre la cittadinanza liberale. Il centro e il punto di forza della cittadinanza liberale consiste nello status legale, la dimensione dei diritti, che ha lo scopo di proteggere i cittadini dallo stato e dagli altri concittadini, così che essi possano esercitare la propria libertà privata, garantita dalla non interferenza altrui. L’esercizio della cittadinanza resta un momento prevalentemente privato – ce ne serviamo per i nostri scopi, “ci serve” essere cittadini per avere x o y – e il suo momento partecipativo è prevalentemente ridotto all’elezione di rappresentanti. L’esercizio politico non è quindi pensato generare un senso di appartenenza. Differentemente, l’appartenenza è connessa ai diritti: essere

membri di uno stato, appartenere a uno stato, significa possedere determinati diritti. Il 14 Ibidem, p. 15 [trad. mia].

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teorico che costituisce il punto di riferimento per la discussione sulla cittadinanza è T. H. Marshall. Nel 1950 il libro Citizenship and Social Class teorizzava una ricomposizione del conflitto tra classi sociali nel Regno Unito da ottenersi attraverso una «forma di uguaglianza umana fondamentale connessa con il concetto di piena appartenenza a una comunità (o [...] della cittadinanza) che non contrasta con le disuguaglianze che distinguono i diversi livelli economici della società»15. Questa

cittadinanza è formata da un blocco di diritti uguali per tutti: civili, politici e – la novità della proposta marshalliana – sociali. I diritti sociali dovevano essere il fulcro attorno a cui integrare la classe lavoratrice inglese, quindi fondamentali vettori della piena appartenenza. Il problema è però far funzionare uno schema di cooperazione che preveda un welfare di questo tipo a partire da persone chiuse all’interno dei propri fini soggettivi. Lo schema di cooperazione che emerge tra gli individui è basato sul principio di reciprocità, per cui ognuno partecipa allo schema stabilito all’interno del contratto sociale. Ai diritti che i cittadini hanno corrispondono dei doveri come rispettare la legge e pagare le tasse: i cittadini sono tenuti a conformarsi allo schema cooperativo. Un tale schema cooperativo è reso possibile dall’aggiornamento della persona liberale. All’interno dell’individuo che persegue razionalmente i propri interessi viene introdotto un punto di vista morale, per cui egli può deliberare tenendo da parte i propri fini soggettivi e il contesto. Questo tipo di moralità liberale permette di istituire un principio di equità accanto al proprio interesse e di fondare, sulla base di questo principio, un contratto sociale che sia giusto per tutti i partecipanti. Come si può declinare la reciprocità necessaria a far funzionare un contratto sociale giusto? Come scrive David Miller: «Proviamo a immaginare come i diritti e le obbligazioni della

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cittadinanza potrebbero essere se i cittadini fossero legati l’un l’altro dalla sola pratica della cittadinanza, e fossero motivati da un principio di equità [fairness]. Insisterebbero su una stretta reciprocità. In altre parole, ognuno si aspetterebbe di beneficiare dall’associazione in proporzione al proprio contributo, prendendo come riferimento la situazione ipotetica in cui non c’è alcuna cooperazione politica tra di loro. Quindi, per esempio, una tassazione redistributiva verrebbe concordata solamente in circostanze in cui ogni persona pensi che sia razionale assicurarsi attraverso lo stato rispetto alla possibilità di cadere al di sotto di un certo livello di risorse»16. Il problema è che la

redistribuzione prevede la necessità di andare oltre i propri interessi, prevede solidarietà. Chi si trova in una posizione privilegiata riceverà, restando nello schema cooperativo, sempre meno di quello che darà: quello che riceverà sarà difficilmente calcolabile a partire dai propri immediati interessi e verrà sempre rapportato a ciò che egli avrebbe potuto avere da solo. Così, restiamo nello schema cooperativo e mandiamo avanti l’apparato di diritti per tutti solo fin quando valutiamo ci convenga. Questo limite della razionalità – irrimediabilmente – strumentale lo evidenzia anche Katrin Flikschuh argomentando il principio di differenza nella teoria della giustizia elaborata da John Rawls in A Theory of Justice. Il principio di differenza rawlsiano prevede che le ineguaglianze economiche e sociali tra gli individui vengano accettate purché esse contribuiscano a una redistribuzione tra le persone più svantaggiate. Anche nella prospettiva rawlsiana, scrive Flikschuh, gli individui sono «massimizzatori del proprio vantaggio razionalmente guidati dall’interesse personale [rationally self-interested

maximisers of their own advantage] che preferiscono più beni sociali primari che meno,

16 D. MILLER, On Nationality, Oxford, Oxford University Press, 1995, pp. 71-72 [corsivo e traduzione

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e la cui disponibilità a cooperare l’uno con l’altro nell’impresa comune [social venture] dipende da quanto si aspettano di ottenere in cambio. […], [Gli individui, ndt] parteciperanno allo schema cooperativo solamente fin quando continueranno a ottenere qualcosa, e cosa vogliono ottenere, secondo Rawls, sono più beni sociali primari che meno»17. L’unica possibile risposta è per gli individui lavorare sui fini soggettivi,

strutturandoli sistematicamente e abbandonando l’idea delle preferenze viste “realisticamente” come desideri soggettivi intrinsecamente arbitrari. Mentre «gli agenti sono coloro che razionalmente perseguono i propri desideri o preferenze; gli agenti autonomi sono coloro che lo fanno con un alto livello di autocontrollo o indipendenza. L’autocontrollo o indipendenza non riguardano l’indipendenza dell’agente dalle sue preferenze, ma il perseguimento di queste preferenze con un alto livello di organizzazione, lungimiranza o riflessione»18. Tuttavia, anche in questo caso, quello che

conta in ultima istanza resta il soddisfacimento delle nostre preferenze individuali. Questa lettura delle nostre preferenze «indebolisce la base per pensare che il soddisfacimento di preferenze abbia un peso morale o un’importanza sociale, interpretando tutta l’azione come mirata a soddisfare in maniera ottimale le proprie preferenze»19. La razionalità strumentale trova così i suoi limiti nel suo punto di forza: i

fini soggettivi che abbiamo e ci motivano all’azione sono anche il nostro massimo raggio d’azione, il muro su cui la nostra azione si infrange. Perché persone chiuse nei loro fini soggettivi dovrebbero mostrare solidarietà verso i propri concittadini, che sono

17 K. FLIKSCHUH, Kant and Modern Political Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 2000,

pp. 200-201 [trad. mia].

18 O. O’NEILL, Constructions of Reason, cit. p. 66 [trad. mia].

19 O. O’NEILL, Bounds of Justice, p. 17 [trad. mia]. Cfr. H. G. FRANKFURT, Freedom of the Will and the Concept of a Person, «The Journal of Philosophy», 68 (1971), n. 1, pp. 5-20.

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estranei, e contribuire al funzionamento della comunità politica? Lo stato deve poggiare in ultima istanza su qualcosa di diverso dal contratto, e la cittadinanza deve poggiare in ultima istanza su qualcosa di diverso dai diritti. Infatti «i diritti non possono esistere in un vuoto sociale e morale. È possibile godere dei diritti solo in certe situazioni, definite dalla presenza di certi beni collettivi e di assunzioni condivise»20. Se pensiamo al

mercato, come l’istituzione che incarna perfettamente l’idea liberale del soggetto come colui che ha capacità di scegliere e che si comporta perseguendo razionalmente i propri interessi, anche questo funziona perché ritenuto un valore, un bene da tutti, ed è regolato da principi come l’onestà e il mantenimento delle promesse21. Ci vuole in ultima istanza

un qualche bene comune per poter stabilire un certo tipo di contratto “spesso”: conservando l’antropologia liberale questo diventa irrealizzabile. L’appartenenza a uno stato non può consistere meramente in un apparato di diritti: le obbligazioni della cittadinanza non possono essere espletate, e i diritti non possono essere goduti, senza un senso di appartenenza; per cui un qualche patriottismo si impone. Il patriottismo civico, considerato come «l’identificazione con gli altri in una impresa comune particolare», in cui «avverto il legame di solidarietà con i miei compatrioti nella nostra impresa comune, espressione comune della nostra dignità»22 è problematico in uno stato pensato a partire

dall’individuo liberale. Infatti, se gli individui sono chiusi nella propria ragione strumentale, tutto ciò che lo stato concretamente esprime, «il nostro sistema di difesa nazionale, le nostre forze di polizia, i nostri vigili del fuoco e simili», tutti questi non sono per noi che «beni convergenti»: non possiamo procurarceli singolarmente,

20 R. BELLAMY, Tre modelli di cittadinanza, in D. ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, p. 236.

21 Ibidem.

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possiamo solo procurarceli collettivamente. Tuttavia, questa loro natura collettiva riguarda solo «come dobbiamo fare per procurarceli. Non ha niente a che fare con ciò che li rende dei beni. La sicurezza come fine apprezzato è sempre sicurezza per A, per B e per C. Non è in alcun modo un bene differente, meno che mai un bene più apprezzato, per il fatto di essere assicurato collettivamente»23. Se accettiamo l’ontologia liberale,

scrive Taylor, non possiamo che restare fermi prima dei beni comuni, quindi dello stato come impresa comune. Il confine che non possiamo attraversare è quello che divide la strumentalità collettiva dall’azione comune – la prima è la coordinazione di azioni di diversi individui, la seconda è «l’azione comune in questo senso forte, irriducibile: è la

nostra azione»24. Lo stesso Marshall prevedeva che la sua cittadinanza sociale non fosse

soltanto un catalogo di diritti. Accanto a questo catalogo di diritti, che avrebbe dovuto integrare la popolazione, fornire alla classe operaia inglese dell’epoca la membership, la piena appartenenza, Marshall sosteneva che la cittadinanza richiedesse «un legame di genere differente, una percezione diretta dell’appartenenza alla comunità, appartenenza fondata sulla fedeltà ad una civiltà che è possesso comune»25. La «civiltà che è possesso

comune» traghetta gli individui dai propri fini soggettivi a un progetto comune, rende possibile il contratto sociale robusto di Marshall. Ciò che sostiene la cittadinanza liberale, se accettiamo la visione liberale sulla natura umana, è il senso di appartenenza alla civiltà che è possesso comune. Come scrive Jürgen Habermas, «qui le parti stipulanti il patto sociale sono pensate come individui egoistici i quali – razionalmente illuminati e non plasmati da tradizioni comuni – non condividono nessun orientamento

23 Ibidem, p. 150. 24 Ibidem, p. 148.

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culturale di valore né possono agire orientandosi all’intesa. Secondo questa descrizione, la formazione della volontà politica si compirebbe soltanto attraverso trattative sul “modus vivendi”, senza che sia mai possibile pervenire a una “intesa” da punti di vista etici o morali. In effetti è difficile vedere come persone di questo genere – e attraverso un percorso di questo tipo – potrebbero realizzare un ordinamento giuridico che sia intersoggettivamente riconosciuto e capace di trasformare degli estranei in una nazione di cittadini (vale a dire capace di produrre tra estranei una solidarietà civica)»26. Per far

sì che i cittadini di uno stato liberale sentano parte della propria identità provenire dalla propria comunità politica, per rianimare la componente psicologica, identitaria, della cittadinanza, serve l’appello a qualcosa al di fuori, il mito della nazione. Continua Habermas: «Soltanto a questo punto – dopo aver dipinto lo sfondo con forti tinte “à la Hobbes” - la comune provenienza etnica o culturale di un popolo più o meno omogeneo viene raccomandata come origine e garanzia per tutti quei legami normativi nei cui confronti l’individualismo possessivo è cieco»27. L’appartenenza a uno stato si deve

ancorare nell’appartenenza a una nazione. La lealtà civica è derivata dalla lealtà a una nazione. Questo ha reso possibile il welfare negli stati costituzionali democratici. «Alla repubblica formalmente istituita», scrive Habermas, sarebbe mancata «la forza vitale, se da questo popolo inizialmente definito soltanto in termini di governo non fosse anche nata una nazione di cittadini politicamente e culturalmente consapevoli. Per questa mobilitazione politica c’era bisogno di una idea che producesse motivazioni forti, una idea che si appellasse al cuore e alle menti delle persone con più vigore della “sovranità

26 J. HABERMAS, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Frankfurt am Main,

Suhrkamp Verlag, 1996 (trad. it. di L.CEPPA, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Milano,

Feltrinelli, 1998, p. 150). 27 Ibidem [corsivo mio].

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popolare” e dei “diritti umani”. L’idea di nazione riempì questo vuoto. […] Solo la coscienza di appartenere a uno stesso “Volk” […] trasformò i sudditi in cittadini della stessa comunità politica, ossia in cittadini che possono sentirsi mutualmente responsabili»28. La nazione è un espediente per definire i confini di uno stato e tenere

assieme un popolo. Le obbligazioni di cittadinanza hanno alla base delle obbligazioni di nazionalità. Laddove le prime falliscono nello spiegare la nostra partecipazione allo schema cooperativo, le seconde lo fondano. Perché essere mutualmente responsabili e solidali con le persone con cui convivo in una comunità politica, quindi con estranei? Il mito della nazione, il fatto che io e un estraneo non siamo estranei, ma apparteniamo a una cosa che agisce su di noi come un mito comune, giustifica ai nostri occhi ciò che il contratto ci chiede29. Senza il mito della nazione e con i presupposti antropologici

liberali, la cittadinanza basata sui diritti vacilla, la solidarietà e la lealtà diventano difficili da trovare. È per questo che, a partire da «fatti ben consolidati sull’identità umana e la motivazione umana [well estabilished facts about human identity and human

motivation]»30, David Miller propone l’alternativa tra snellire le obbligazioni di

cittadinanza, trasformando i nostri stati in stati minimi o far coincidere i confini tra stati e nazioni31.

28 Ibidem, p. 126.

29 Come scrive Miller: «It is because we have prior obligations of nationality that include obligations to provide for needs that arise in this way that the practice of citizenship properly includes redistributive elements of the kind that we commonly find in contemporary states» (D. MILLER, On Nationality, p. 72).

30 Ibidem, p. 80 [trad. mia]. 31 Ibidem, pp. 72-73.

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2. Antropologia comunitarista

Le obiezioni fatte alla cittadinanza liberale presuppongono una differente antropologia. Questa diversa visione della natura umana è quella a cui si è richiamato chi ha teorizzato un tipo di cittadinanza repubblicana, basata sull’ideale della città stato ateniese in cui tutti prendono parte alle decisioni politiche; ed è stata ripresa negli anni Ottanta da un gruppo di pensatori poi definiti comunitaristi. Il confronto archetipico tra cittadinanza liberale e repubblicana si riaccende così in quello tra liberals e

communitarians, contestualmente alla pubblicazione di A Theory of Justice di John

Rawls nel 1971 e contro l’individualismo considerato astratto che ne è alla base. La visione della natura umana che riprendono i comunitaristi è quella per cui abbiamo certi scopi intrinsechi alla nostra natura, o fini oggettivi. La nostra realizzazione come esseri umani dipende dal perseguimento di questi fini. Il fine che abbiamo inscritto nella nostra natura è la partecipazione alla vita della comunità di cui facciamo parte. Per questo la nostra libertà consiste in una libertà positiva32. In questo senso gli esseri umani

sono animali naturalmente sociali e politici perché lì, nella comunità, trovano il proprio senso di sé, la propria identità e la propria capacità di agire e di essere morali. Mentre la persona liberale ha la capacità di scegliere tra tutte le opzioni che possono darglisi, e

32 Come scrive Quentin Skinner: «The view of human freedom to which these assumptions give rise is thus a positive one. We can only be said to be fully or genuinely at liberty, according to this account, if we actually engage in just those activities which are most conducive to eudaimonia or human flourishing, and may therefore be said to embody our deepest human purposes. […] By contrast, the positive theory I have just laid out makes it a necessary condition of an agent’s being fully or truly at liberty that he or she should actually engage in the pursuit of certain determinate ends. Freedom, to invoke Taylor’s terminology once more, is viewed not as an opportunity but as an exercise concept. I am only in the fullest sense in possession of my liberty if I actually exercise the capacities and pursue the goals that serve to realise my most distinctively human purposes» (Q. SKINNER, The Paradoxes of Political Liberty,

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può raggiungere un punto di vista morale semplicemente esaminando i propri fini33 e

mettendo tra parentesi le proprie specificità, la propria identità; viceversa ogni ragionamento, per chi sostiene un’antropologia comunitarista, parte dalle norme interiorizzate. Secondo Alasdair MacIntyre la moralità liberale basata sul punto di vista imparziale è irrealistica e quindi pericolosa34. Privare gli individui dell’appartenenza a

una comunità particolare, pensare lo stato solo nei termini di un contratto giusto, significa privarli della possibilità di fiorire come agenti morali, della propria capacità morale: senza la mia comunità specifica non capisco cosa devo agli altri e cosa gli altri devono a me. La diversa concezione di moralità che propone MacIntyre riconosce l’importanza delle comunità particolari. In primo luogo ognuno è primariamente socializzato in un modo di vivere di una comunità particolare ed è solo in e attraverso questa che può concepire la moralità, la quale sarà necessariamente la specifica moralità di un ordine sociale specifico; in secondo luogo, e di conseguenza, ognuno trova la sua giustificazione per agire moralmente nella sua comunità particolare: privato della comunità e della moralità specifica di quella comunità non avrei ragioni per essere morale, non saprei giustificarlo a me stesso, la moralità perderebbe presa su di me. In

terzo luogo, solo in una comunità gli individui sono sostenuti nella loro moralità. Agire

moralmente non è un compito facile per gli esseri umani. Come scrive MacIntyre: «È perché siamo continuamente suscettibili di essere accecati dal desiderio immediato, di essere distratti dalle nostre responsabilità, di scivolare in tentazione, e perché persino i

33 Si pensi agli individui nella posizione originaria di Rawls che devono istituire lo stato giusto. Secondo il pensiero liberale il punto di vista morale è individuale, neutrale rispetto agli interessi e le convinzioni, indipendente dalle particolarità sociali della propria comunità. La moralità liberale è indispensabile per creare uno stato giusto ai cui principi ognuno potrebbe dare il proprio assenso.

34 A. MACINTYRE, Il patriottismo è una virtù?, in A. FERRARA (a cura di), Comunitarismo e liberalismo,

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migliori di noi a volte possono incontrare tentazioni molto insolite che è importante per la moralità il fatto che io posso essere un agente morale soltanto in quanto noi siamo agenti morali, il fatto che io ho bisogno di chi mi sta intorno per rafforzare le mie forze morali e assistermi nel rimediare alle mie debolezze morali»35. Quali sono le

conseguenze sul pensiero politico di una tale visione della natura umana? In primo

luogo, se gli individui dipendono in questa misura dalla comunità, la comunità assume

un primato logico rispetto ai diritti degli individui, visto che rende possibili gli stessi individui. Come scrive Charles Taylor: «In qualsiasi modo il conflitto può sorgere, ci pone un dilemma. Può darsi che ci siamo già formati in questa cultura e che la fine di questo tipo di società [mode of society] non ci privi della nostra capacità [di scegliere, di avere le proprie convinzioni, di agire moralmente, ndt]. Ma affermando i nostri diritti al punto di distruggerla, priveremmo coloro che vengono dopo di noi dell’esercizio della stessa capacità. […] L’incoerenza di porre il primato sui diritti è anche più chiara se immaginiamo un altro modo in cui potrebbe sorgere il conflitto: ovvero, distruggendo la società minerei la mia stessa abilità futura di realizzare questa capacità. Per questo difendendo i miei diritti, dovrei condannarmi a quello che dovrei riconoscere come una vita non piena [a truncated mode of life], in virtù delle stesse considerazioni che mi hanno fatto affermare il mio diritto»36. In secondo luogo, le figure politiche pensate a

partire dalla persona liberale, come il contratto o lo stato di natura in contrapposizione alla società civile, perdono forza, e il concetto di comunità, di una forma di vita

35 A. MACINTYRE, op. cit., p. 64.

36 C. TAYLOR, Atomism, in C. TAYLOR, Philosophy and the Human Sciences, Cambridge, Cambridge

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‘organica’ e non ‘meccanica’, prende forza37 . In terzo luogo, la cittadinanza deve essere

necessariamente pensata insistendo sull’importanza della partecipazione a una comunità politica, sulla seconda dimensione della cittadinanza. Scrive Habermas: «Per la concezione liberale, lo status dei cittadini dipende in primo luogo dai diritti soggettivi di cui essi godono nei confronti dello stato e dei concittadini. Come titolari di questi diritti, essi godono della protezione dello stato nella misura in cui perseguono interessi privati all’interno di limiti fissati per legge […] I diritti soggettivi sono diritti negativi. Essi garantiscono il margine di scelta entro cui le persone sono libere da coercizioni esterne. I diritti politici hanno la stessa struttura. Essi offrono la possibilità ai cittadini di far valere i loro interessi privati in maniera tale che questi interessi […] possono infine aggregarsi con altri interessi privati in una volontà politica condizionante l’amministrazione»38. Nel modello repubblicano della cittadinanza, invece, «i diritti di

cittadinanza, in primo luogo i diritti di comunicazione e di partecipazione politica, sono piuttosto libertà positive. Esse garantiscono non la libertà da una costrizione esterna, ma

la partecipazione a una prassi comune. Solo esercitando questa prassi comune i

cittadini possono diventare ciò che vogliono essere: i fondatori politicamente autonomi di una comunità di liberi e uguali. Di conseguenza il processo politico non serve soltanto a tenere sotto controllo l’attività dello stato da parte di cittadini che hanno già acquisito una preliminare autonomia sociale nell’esercizio dei loro diritti privati e delle loro libertà pre-politiche […], deriva piuttosto dal potere comunicativamente prodotto dai cittadini nella loro prassi di autodeterminazione, e si legittima per il fatto di tutelare

37 Si veda, per una storia del concetto di comunità, e l’opposizione tra società e comunità: V. PAZÉ,

“Comunitarismo”, in Enciclopedia Treccani delle Scienze sociali,

http://www.treccani.it/enciclopedia/comunitarismo_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/. 38 J. HABERMAS, op.cit., pp. 236-237.

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questa prassi attraverso l’istituzionalizzazione della libertà politica»39. La politica non

serve, come nella concezione liberale, a «programmare lo stato nell’interesse della società»40, ma come «forma di riflessione di un “contesto di vita” di tipo etico. Essa

rappresenta il medium attraverso cui gli individui […] perfezionano e sviluppano con volontà e coscienza, come cittadini dello stato, i rapporti ereditati di riconoscimento reciproco, trasformandoli in una associazione di liberi ed eguali consociati giuridici»41.

La dimensione partecipativa è innestata in questo ethos della comunità, «nei rapporti ereditati di riconoscimento reciproco» da cui la comunità parte e che la comunità trasforma. Questo esercizio è reso possibile dall’esercizio dei diritti politici, che permettono a ognuno di essere fondatore politicamente autonomo di «una comunità di liberi e uguali». L’appartenenza in una cittadinanza repubblicana non è un bagaglio di diritti di cui godiamo, ma rimanda a un esercizio politico: non solo abbiamo dei diritti politici, ma dei precisi doveri politici. Oltre al problema di motivare le persone a portare avanti uno schema cooperativo – terminologia che forse anche poco si addice alla struttura di una ‘società’ politica in cui entra la dimensione della ‘comunità’ – c’è il fatto che le esigenze dell’autogoverno sono più onerose per gli individui e quindi è necessario che qualcosa motivi ulteriormente il loro sforzo. Questo è lo spazio del patriottismo, che può sorgere attorno alla comunità intesa come bene comune. Tornando all’esempio fatto da Charles Taylor, i vigili del fuoco, le forze di polizia, il sistema di difesa nazionale non sono più beni per A, B, C, di cui possiamo godere separatamente, ma sono beni per noi, i cittadini di una repubblica. Lo spazio del patriottismo nella

39 Ibidem [corsivo mio]. 40 Ibidem, pp. 235-236. 41 Ibidem [corsivo mio].

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cittadinanza repubblicana è dato dalla presenza di un bene comune condiviso che le persone, secondo la visione antropologica che ne è alla base, non possono evitare di riconoscere – e se lo fanno, rinnegano la propria natura. Il patriottismo è qualcosa che fluisce dalla concezione comunitarista di individuo, vista la dipendenza che l’individuo ha nei confronti della comunità a cui appartiene. Per questo, in ottica comunitarista, il patriottismo non solo è considerato necessario ma ha anche rilevanza morale. Dal momento che staccato dalla mia comunità non potrei conoscere né me stesso né la morale, «la fedeltà a quella comunità, alla gerarchia formata dalla particolarità della parentela, della comunità locale e della particolare comunità naturale, è per questa concezione un prerequisito per la moralità. Quindi il patriottismo e quelle lealtà (loyalties) ad esso affini non sono soltanto virtù ma virtù centrali»42. Secondo Charles

Taylor, se avessimo prove che certe capacità specificamente umane possono svilupparsi solo in società – o in una data società – allora avremmo una obligation to belong, un’obbligazione di appartenere alla comunità. La stessa capacità di autonomia in cui i liberali ripongono valore, di poter e saper scegliere il tipo di vita che vogliamo, la possiamo formare solo in un contesto di vita comune, nella «liberal civilization of

ours»43. Verso questa abbiamo un’obbligazione di appartenere44. Qual è l’oggetto del

42 A. MACINTYRE, op.cit., p. 65.

43 C. TAYLOR, Atomism, p. 206.

44 «How could successive generations discover what it is to be an autonomous agent, to have one’s one way of feeling, of acting, of expression, which cannot be simply derived from authoritative models? This is an identity, a way of understanding themselves, which men are not born with. They have to acquire it. And they do not inevery society; nor do they all succesfully come to terms with it in ours. But how an they acquire it unless it is implicit in at least some of their common practices, in the ways that they recognize and treat each other in their common life (for instance in the acknowledgment of certain rights), or in the manner in which they deliberate with or address each other, or engage in economic exchange, or in some mode of public recognition of individuality and the worth of autonomy?» (Ibidem, p. 205).

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patriottismo? Le persone sono socializzate in comunità che hanno un ethos specifico: in questo comprendono chi sono e cosa devono agli altri, nonché cosa gli altri devono loro. La dedizione è verso la comunità storica particolare in cui siamo socializzati. Se dall’antropologia comunitarista e la conseguente insistenza sull’importanza di appartenere alla comunità non può essere derivata un’idea di comunità fissa, inevitabilmente conservatrice, e anzi l’insistenza sui diritti politici potrebbe rendere teoricamente facile l’idea di una comunità aperta al dibattito, aperta alla revisione e interpretazione dei suoi membri; diversamente «l’accusa di etnocentrismo è difficile da dissipare»45. Il patriottismo chiude la comunità nel suo ethos specifico. Mentre la

necessaria condizione della moralità in ottica liberale è l’emancipazione dalle specificità delle comunità particolari, la moralità che sostiene MacIntyre, la «morality of

patriotism», deve esonerare qualcosa dalla revisione critica: il progetto della propria

comunità, ancorato nel passato e proiettato nel futuro. Questo ha rilevanza politica se vogliamo pensare ai rapporti tra stati. La realtà non vede repubbliche omogenee e isolate, ma società interconnesse e in cui la migrazione è una costante. Questo pone il

L’obligation to belong viene teorizzata da Taylor per quei tipi di società che rispettano la libertà dei cittadini, per le società liberali. Il punto fatto da Taylor riguarda l’incoerenza della cittadinanza basata sui diritti. È incoerente che ci sia una dottrina dei diritti basata su diritti naturali, ascritti e incondizionati e allo stesso tempo nessuna obbligazione a appartenere, obbedire alle leggi e supportare quella società, se non in maniera derivata (ad esempio solo perché ho dato un ipotetico consenso, o prudenzialmente, perché mi conviene). Secondo Taylor, ogni diritto contiene un’affermazione di valore rispetto a una proprietà ritenuta specificamente umana che il diritto, appunto, permette di manifestare. Avere un diritto non significa solamente che gli altri non devono interferire con esso, ma anche che la capacità umana sottesa alla proclamazione del diritto deve essere sviluppata. Se la capacità umana che il diritto promuove, per essere sviluppata, presuppone una società, allora l’obbligazione ad appartenere non può essere recuperata solo in maniera derivata, ma deve essere sullo stesso piano dei diritti, ovvero siamo sotto obbligazione «by nature» (Ibidem, p. 198).

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problema di come rendere possibile l’integrazione degli outsiders nella comunità dei

communitarians o anche solo la comunicazione tra persone appartenenti a società

diverse. Infatti «se il ragionamento basato sulle norme [norm-based] è inevitabilmente il ragionamento di un insider [interno alla comunità che le esprime, ndt], può essere seguito dagli outsider solo quando questi tacitamente includono come premesse [supply

as premisses] le norme […] che loro non condividono»46. Ad esempio, integrarsi deve

significare interiorizzare le norme condivise della società di arrivo, abbandonando le norme condivise che sino a quel momento avevano definito la soggettività dell’outsider

– in cui i comunitaristi pure ripongono così tanta importanza. Le norme di un dato posto

non possono avere autorità per un outsider: «Il ragionamento etnocentrico fallirà o languirà per coloro che tentano di comunicare oltre i confini; mancherà di autorità – e potrà risultare inaccessibile agli altri. Le concezioni di ragioni basate sulle norme non

basteranno in un mondo pluralista. Se ci sono modi di organizzare il pensiero e l’azione

che possono avere autorità generale, queste non possono presupporre le norme e le opinioni di un particolare tempo e luogo»47.

3. Oltre nazione e città-stato

I problemi che hanno sollevato la cittadinanza liberale e quella repubblicana, così come concepite a partire da una particolare antropologia che le fonda, possono essere riassunti come segue. Inevitabilmente una cittadinanza incentrata sui diritti e il pacifico godimento di una libertà negativa, elaborata a partire da un’antropologia liberale classica, ha bisogno del mito della nazione per funzionare. I cittadini si sentono membri

46 Ibidem.

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dello stato, parte dello stato, e contribuiscono a farlo funzionare, solo attraverso il mito della nazione. Inevitabilmente, una cittadinanza incentrata sulla partecipazione politica a partire da una antropologia comunitarista finisce per chiudere le comunità in un ethos specifico: solo all’interno di esse le persone si possono orientare. Il patriottismo serve per far funzionare la comunità, e il suo oggetto è appunto quest’ultima, situata storicamente e geograficamente e dotata di un suo ethos. Se fosse possibile far coincidere stato e nazione, come suggerisce Miller, oppure se fosse possibile non porsi il problema della comunicazione tra individui appartenenti a diverse comunità – il problema della comunicazione che, con la realtà della migrazione e dell’interdipendenza tra stati, diventa anche un contingente problema di integrazione e gestione di ciò che ci è comune – allora il modello liberale e quello repubblicano, rispettivamente, potrebbero funzionare. Questo implicherebbe anche accettare dei presupposti antropologici precisi, ignorando non solo la fondata critica comunitarista all’ontologia liberale, ma anche la critica liberale all’ontologia comunitarista, ovvero che le persone hanno piani di vita, concezioni di felicità diverse48. Sia Jürgen Habermas che Quentin Skinner – che cito

come rappresentante del repubblicanesimo civico49 – partono da questo incrocio per

elaborare modelli di cittadinanza alternativi, che aggiornino il liberalismo procedurale, allontanandosi da concezioni di comunità etiche, pur riconoscendo il legame che gli individui hanno con la propria comunità, prendendo sul serio la critica ontologica ai liberali. Quello che resta è concepire le istituzioni della repubblica in modo che gli individui possano controllarle meglio attraverso la prassi democratica, pur

48 L. BACCELLI, op. cit., p. 138.

49 Questo è quello che differenzia gli umanisti civici (molto simili ai comunitaristi) dai repubblicani civici nel dibattito interno allo stesso repubblicanesimo. Si veda la voce “Republicanism”, in Stanford

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salvaguardando il pluralismo. Secondo Habermas: «Il repubblicanesimo deve imparare a reggersi in piedi da solo. L’importante è che il processo democratico assuma su di sé la garanzia complessiva [Ausfallbürgschaft] per quanto attiene l’integrazione di una società sempre più differenziata»50. Per i repubblicani civici, la partecipazione alla vita

politica non ha un valore costitutivo per l’uomo, ma è pensata strumentalmente. Quentin Skinner, spiegando di richiamarsi al repubblicanesimo classico per elaborare un modello diverso di cittadinanza rispetto ai due visti, scrive: «Gli scrittori che considero non suggeriscono l’esistenza di certi fini specifici che dobbiamo realizzare per essere pienamente o veramente in possesso della nostra libertà. Piuttosto, enfatizzano il fatto che differenti classi di individui avranno sempre diverse disposizioni e di conseguenza valuteranno la loro libertà come il mezzo per ottenere fini variabili. Come spiega Machiavelli, alcune persone ripongono un grande valore nel perseguimento dell’onore, della gloria e del potere: “vorranno la libertà per poter dominare sugli altri”. Ma altre persone vorranno semplicemente essere lasciate al proprio destino, libere di perseguire le loro vite familiari e professionali: “vogliono la libertà per vivere in sicurezza”»51. La

libertà repubblicana è concepita come assenza di dominio, una libertà negativa che differisce dalla libertà liberale in quanto il problema per i repubblicani civici non è l’interferenza dello stato nei progetti personali di vita di ciascuno, ma l’interferenza di uno stato arbitrario, le cui decisioni cadano come dall’alto sulle teste degli individui che non hanno contribuito a plasmarle: il dominio pubblico, appunto. L’unico modo per salvaguardare la propria libertà negativa è quella di garantirsi di vivere in uno stato

libero, in cui non si viva sotto un dominio estero e in cui le decisioni vengano

50 J. HABERMAS, op.cit., p. 131.

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