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Carattere empirico e intelligibile

II. Antropologia in Kant

3. Carattere empirico e intelligibile

L’essere umano deve quindi essere studiato postulandone uno scopo a partire dalle sue disposizioni naturali. Questo però ci porta a dover andare ancora più a fondo. Le disposizioni naturali dell’essere umano rivelano infatti la sua duplicità28.

Nell’Antropologia pragmatica, al principio della trattazione del carattere della persona, Kant illustra la duplicità degli esseri umani. Essi hanno un carattere empirico e un carattere intelligibile: il primo considera l’uomo «come essere sensibile o di natura», mentre il secondo «come essere razionale, provvisto di libertà»29. Il primo si riferisce

all’uomo come creatura naturale, corporea o incarnata, il secondo all’uomo come creatura di ragione. Sebbene, come scrive Reinhard Brandt, Kant usi nell’Antropologia

pragmatica la parola ‘carattere’ [Charakter] per evidenziare «che la differenza è intesa

qui solamente sotto l’aspetto pratico e che non viene esposta nessuna dottrina speculativa dell’anima», questa «differenza tra carattere sensibile e intelligibile degli

27 IaG, AA VIII 18, trad. it. cit. p. 28.

28 Si veda quanto scrive O. Marquard: «Indes: die menschliche Lebenswelt, die nicht auf die wirklichkeitslose Totalität der »Verstandeswelt« und nicht auf die totalitätlose Wirklichkeit der

»Sinneswelt« sich reduzieren läßt: […] auch und gerade diese Lebenswelt verlangt nach philosophischer Theorie [...]» (O. MARQUARD, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, pp. 126-127).

29 Anthr., AA VII 285, trad. it. cit. p. 177. «Nella Metafisica dei Costumi il carattere empirico e quello intelligibile vengono chiamati “homo phaenomenon” e “homo noumenon”» (R. BRANDT, Kritischer Kommentar, cit. pp. 483-486). Cfr. MdS, AA VI 239, trad. it. cit. p. 48.

esseri umani si può capire solo alla luce della differenziazione teoretica tra “cosa in sé o noumeno” e “fenomeno”»30 introdotta nella Critica della ragion pura. L’uomo è una

delle apparenze del mondo, come tutte le altre cose naturali. Per questo, come scrive Kant nella Critica della ragion pura: «Ogni uomo ha allora un carattere empirico del suo arbitrio», ovvero «se noi potessimo indagare sino in fondo tutte le apparenze dell’arbitrio dell’uomo, non vi sarebbe neppure una sola azione umana, che non ci fosse possibile predire con certezza, e riconoscere come necessaria, in base alle sue antecedenti condizioni»31. Quando noi vogliamo indagare le cause delle azioni umane,

non possiamo che trovarne i riferimenti nel mondo, in cui vige la causalità naturale32.

Non possiamo che dare una spiegazione empirica delle azioni dell’uomo. Tuttavia, come sostiene O’Neill: «Kant non offre e non può offrire un modello singolo di azione umana che possa servire sia come spiegazione empirica sia come guida per l’azione»33.

Infatti «nella concezione kantiana di azione [account of action], […] il modello causale serve solo per spiegare le azioni, mentre per capire come l’azione sia guidata dobbiamo vedere le azioni come determinate da massime – ovvero, da princìpi pratici. L’azione veramente autonoma può essere intesa come azione guidata da massime che possono essere universalizzate»34. L’uomo ha infatti la facoltà della ragione, e rispetto a questa

facoltà si conosce dall’interno, negli atti e nelle determinazioni interne, «che egli non

30 R. BRANDT, Kritischer Kommentar, cit. pp. 485-486 [trad. mia].

31 KrV, AA III 372, trad. it. cit. p. 586.

32 O meglio, che ci spieghiamo attraverso la causalità che definiamo naturale. La stessa legge naturale, secondo cui ciò che accade ha una causa, «la sola mediante cui le apparenze possano costituire una natura e possano fornire oggetti di un’esperienza, è una legge dell’intelletto» (Ibidem, AA III 368, trad. it. cit. p. 581). Si veda O. O’NEILL, Constructions of Reason, cit. pp. 68-69.

33 Ibidem, p. 70 [trad. mia].

può affatto attribuire all’impressione dei sensi»35. La ragione «si costruisce, con

completa spontaneità, un proprio ordine secondo idee, alle quali essa adatta le condizioni empiriche, e in base alle quali essa dichiara necessarie perfino azioni, che non sono avvenute e forse non avverranno. La ragione, tuttavia, presuppone di poter avere una causalità rispetto a tali azioni: senza di ciò, in effetti, essa non potrebbe attendere alcun effetto nell’esperienza da parte delle sue idee»36. Scrive Kant che il fatto

«che questa ragione abbia una causalità, o che per lo meno noi ci rappresentiamo in essa una siffatta causalità, risulta chiaro dagli imperativi, che in tutta la sfera pratica noi imponiamo come regole alle nostre capacità esecutive»37. Negli imperativi conosciamo

la nostra libertà, infatti il dovere non esiste all’interno della natura: «È impossibile che nella natura un qualcosa debba essere altrimenti da quello che esso è in realtà in tutte queste relazioni temporali; il dovere, anzi, non ha assolutamente significato, se si considera semplicemente il corso della natura»38. Il nostro carattere intelligibile è

connesso alla libertà della nostra ragione di dare inizio ad un’azione nel mondo sensibile dietro la scelta di massime, principi pratici, indipendentemente dagli impulsi sensibili cui siamo sottoposti nel nostro carattere empirico39. Scrive Kant nella Critica

della ragion pura che «l’uomo è esso stesso apparenza. Il suo arbitrio ha un carattere

empirico, che è la causa (empirica) di tutte le azioni dell’uomo. Non vi è alcuna condizione, tra quelle che determinano l’uomo conformemente a questo carattere, che

35 KrV, AA III 371, trad. it. cit. p. 584. 36 Ibidem, AA III 372, trad. it. cit. 585. 37 Ibidem.

38 Ibidem.

39 «The capacity for autonomy goes with the capacity to act on principles even when inclination is absent, with being able to adopt maxims of action that do not sit well with our desires» (O. O’NEILL, Constructions of Reason, cit. p. 76).

non sia contenuta nella serie degli effetti naturali e non obbedisca alla loro legge, in base alla quale non si ritrova, rispetto a ciò che avviene nel tempo, nessuna causalità empiricamente incondizionata. Nessuna azione data, di conseguenza, può cominciare assolutamente da se stessa (essa infatti può venir percepita solo come apparenza). Riguardo alla ragione, tuttavia, non si può dire, che prima dello stato, in cui essa determina l’arbitrio, vi sia un altro stato, in cui venga determinato lo stato suddetto. […] La ragione è dunque la condizione permanente di tutte le azioni volontarie, attraverso cui l’uomo si presenta come apparenza. […] Tale ragione agisce quindi liberamente, senza essere determinata dinamicamente, nella catena delle cause naturali, da fondamenti esterni o interni, precedenti nel tempo»40. Ogni nostra azione può essere

spiegata facendo riferimento al nostro carattere empirico, ma alla base di ogni nostra azione c’è il nostro carattere intelligibile41, la nostra ragione: questa è «la condizione

permanente di tutte le azioni volontarie, attraverso cui l’uomo si presenta come apparenza»42. Questo non significa che gli esseri umani siano creature razionali, morali,

ma creature per cui la razionalità, la moralità è possibile43. L’essere umano è una

creatura fenomenica, il cui arbitrio è libero ma sensitivo. Il suo carattere empirico o

40 KrV, AA III 374-375, trad. it. cit. pp. 588-589 [corsivo mio].

41 L’aggettivo ‘intelligibile’ non indica la conoscibilità del carattere dell’uomo. Il carattere intelligibile dell’uomo si dice tale perché «dovrebbe venir pensato conformemente al carattere empirico, allo stesso modo che noi, nel pensiero, dobbiamo in generale porre a fondamento delle apparenze un oggetto trascendentale, sebbene non sappiamo nulla di ciò che esso sia in se stesso» (Ibidem, AA III 367, trad. it. cit. p. 579).

42 KrV, AA III 374, trad. it. cit. p. 589.

43 Si veda l’Antropologia pragmatica, laddove Kant definisce l’essere umano «animale fornito della capacità di ragionare (animal rationabile)» il quale «può farsi da sé un animale ragionevole (animal

rationale)» (Anthr., AA VII 321, trad. it. cit. p. 216, corsivo mio). Si veda anche G. A. Kelly: «Kant

describes man as a creature of moral possibility in a world where morality has scarcely entered» (G. A. KELLY, Idealism, Politics and History, cit. p. 162).

fenomenico non è un accessorio, ma è qualcosa di cui non può liberarsi; così come non può liberarsi del suo carattere intelligibile, dalla sua «inestirpabile coscienza morale»44.

L’essere umano è una creatura di arbitrio, in cui si incontrano necessariamente queste due causalità, quella empirica e quella intelligibile: «L’arbitrio kantiano (Willkür) possiede una determinazione più bassa animale e una autodeterminazione più alta secondo il dovere (Wille), la prima basata su istinto e interesse, la seconda fondata nella legge morale e quindi identica con la stessa ragion pura pratica»45.

La domanda sulla Bestimmung diventa quindi «a che cosa è destinato (bestimmt) l’uomo dalla sua natura e ragione? Ovvero, qual è la vocazione (Bestimmung) della specie umana? La natura e la ragione – come dovremmo pensare all’identità e/o differenza tra questi due elementi della vocazione?»46. A partire da quello che siamo, rivelato dalle

nostre disposizioni naturali, ovvero creature libere (dotate di una propria causalità) ma con un carattere empirico, vale a dire esseri di natura, possiamo essere considerati, attraverso un giudizio riflettente teleologico, fini naturali o scopi ultimi [letzter Zweck] della natura: «Lo scopo ultimo [...] che Kant identifica con la cultura, è lo scopo conclusivo, interno, della natura, quando la consideriamo come un sistema di fini, cioè non come un mero intreccio di concatenazioni causali, bensì come un tutto organico. Non c’è bisogno, in questo caso, della libertà: lo scopo ultimo è semplicemente ciò si trova in fondo al processo evolutivo: un animale divenuto culturale»47. Portare le nostre

44 Come scrive G. A. Kelly: «Kantian man is saved from the absolute outcome of the state of war by his ineradicable moral awareness, not by his craft or intelligence: once more the lesson of Rousseau» (Ibidem, p. 134).

45 Ibidem, p. 107 [trad. mia].

46 R. BRANDT, The Guiding Idea..., cit. p. 93.

disposizioni naturali dalla potenza all’atto realizza il concetto kantiano di cultura [Kultur]: questa è la nostra Bestimmung. Il nostro apparato naturale è costituito da disposizione tecnica, disposizione pragmatica alla civiltà e disposizione morale. Tutte e tre hanno a che fare con noi, esseri dotati di ragione che stanno nel mondo. La disposizione tecnica degli esseri umani riguarda la loro abilità o attitudine tecnica, il loro essere adatti per tutti i lavori manuali e per tutti i lavori che richiedono l’uso della ragione. La seconda disposizione degli esseri umani è la «disposizione pragmatica alla civiltà [Civilisirung] per mezzo della cultura»48. Gli esseri umani hanno bisogno della

società per realizzare i loro scopi, hanno una «tendenza naturale […] a uscire nella vita associata fuori dalla rozzezza del puro egoismo, e a diventare un essere accostumato (se non ancora morale) atto a vivere con gli altri»49. Qui apprendono qualcosa di specifico:

le maniere, il modo in cui avere influenza, riuscire nei propri scopi all’interno di una società. Siamo portati all’interno di tradizioni storiche trasmesse nelle generazioni, all’interno di una specifica tradizione culturale50. La terza disposizione naturale è la

disposizione morale. L’essere umano è «un essere fornito di ragion pratica e di coscienza della propria libertà» che «si scorge in tale coscienza, anche date le più oscure rappresentazioni, sotto una legge del dovere, e avverte (con un sentimento che si dice morale) che con lui o, per mezzo di lui, con altri si è giusti o ingiusti»51. Tuttavia, gli

esseri umani tendono a porre i propri desideri, che essi hanno per necessità naturale52,

prima del rispetto della legge morale53. Nel momento in cui fanno uso della propria

48 Anthr., AA VII 323, trad. it. cit. p. 218. 49 Ibidem, AA VII 324, trad. it. cit. pp. 218-219. 50 Si veda A. A. WOOD, op. cit., p. 53.

51 Anthr., AA VII 324, trad. it. cit. p. 219. 52 Ibidem, AA VII 326, trad. it. cit. p. 221. 53 Rel., AA VI 36, trad. it. cit. p. 38.

libertà, del proprio arbitrio, questa tendenza «si manifesta immancabilmente»54. La

disposizione morale nell’essere umano è quindi legata a una tendenza naturale al male, che ne La religione entro i limiti della sola ragione Kant chiama «male radicale» [radikale Böse]. Il male radicale consiste nella tendenza a una «inversione dei moventi», per cui «l’uomo assume, in vero, nelle sue massime la legge morale accanto all’amore di sé, ma – siccome egli si accorge che essi non possono sussistere l’uno accanto all’altro, ma che invece bisogna che l’uno sia subordinato all’altro, come alla sua condizione suprema – egli prende il movente dell’amore di sé e le sue inclinazioni come condizione suprema del compimento della legge morale; mentre piuttosto quest’ultima, come condizione suprema della soddisfazione delle nostre inclinazioni sensibili, dovrebbe essere accettata, come unico movente, nella massima generale dell’arbitrio»55.

L’uomo è cattivo in quanto «è consapevole della legge morale, ed ha tuttavia adottato per massima di allontanarsi (occasionalmente) da questa legge»56. La cultura è il limite

dell’umanità, il limite fenomenico segnato dallo sviluppo delle disposizioni naturali

54 Anthr., AA VII 324, trad. it. cit. p. 219. 55 Rel., AA VI 36, trad. it. cit. pp. 38-39.

56 Ibidem, AA VI 32, trad. it. cit. p. 32. Cosa significa l’aggettivo ‘radicale’? Come scrive Kant: «Questo male è radicale perché corrompe il fondamento di tutte le massime e, contemporaneamente, come tendenza naturale, non può essere distrutto mediante le forze umane». Il male da cui siamo afflitti è ‘radicale’ in quanto radicato nel nostro arbitrio, «nato con la capacità di libertà» (G. A. KELLY, Idealism Politics and History, cit. pp. 108-111), e non può essere distrutto; per lo stesso motivo «è necessario

tuttavia che questa tendenza possa essere vinta, perché essa si manifesta nell’uomo come essere libero nelle sue azioni» (Rel., AA VI 36, trad. it. cit. p. 38). Come scrive G. A. Kelly: «In actual fact, man is never reduced to a ‘thing of science’ in theory predictable and lacking in all spontaneity: he has an

arbitrium liberum. But man progressively reduces himself toward such a state in the measure that he

allows his free moral choice to be determined by impulse or advantage. Such activity is a facet of what Kant calls ‘radical evil’» (G. A. KELLY, Idealism Politics and History, cit. pp. 108-111).

viste57. Perché si realizzi sono necessarie tre condizioni: «1) la condizione soggettiva

positiva dell’abilità, 2) la condizione soggettiva negativa della disciplina degli istinti, 3)

la condizione oggettiva formale della società cosmopolitica»58. Rispetto al terzo punto,

la società civile, che deve essere estesa a «un intero cosmopolitico, vale a dire a un sistema di tutti gli stati, che sono esposti al pericolo di danneggiarsi reciprocamente»59,

«oppone un potere legittimo alle infrazioni reciproche della libertà»60 e rende possibile

la cultura61.

57 Ibidem, pp. 120-125. «La conclusione dell’antropologia pragmatica circa il destino [Bestimmung] dell’uomo e la caratteristica del suo sviluppo è la seguente. L’uomo è determinato dalla sua ragione a vivere in società con uomini e in essa a coltivarsi con l’arte e con le scienze, a civilizzarsi, a moralizzarsi, e, per quanto grande sia la sua tendenza animalesca ad abbandonarsi passivamente agli stimoli del piacere e della voluttà, che egli chiama felicità, egli è spinto piuttosto a rendersi attivamente degno dell’umanità nella lotta con le difficoltà, che gli sono opposte dalla rozzezza della sua natura» (Anthr., AA VII 324- 325, trad. it. cit. p. 220).

58 G. MARINI, Problema politico e giudizio teleologico in Kant, in A. QUARTA, P. PELLEGRINO, Humanitas. Studi in memoria di Antonio Verri, Lucca, M. Congedo Editore, 1999, p. 17.

59 Ibidem. 60 Ibidem.

61 La cultura è da considerarsi come «la genuina educazione dell’essere umano come essere umano e cittadino» (G. A. KELLY, Idealism Politics and History, cit. p. 144). Si veda quindi cosa scrive Kant nella Pedagogia: «L’educazione dell’uomo comprende: I. La disciplina. Disciplinare vuol dire impedire che

l’animalità (la parte bruta) sopraffaccia l’umanità, così nell’individuo, come nella società. La disciplina quindi è semplicemente freno alla selvatichezza. II. La coltura, che comprende l’istruzione e gli ammaestramenti. Questa fornisce l’abilità, che è il possesso di una capacità che serve a tutti i fini. Essa non determina alcun fine ma lascia questo compito alle circostanze. Certe abilità sono utili in ogni occasione, per esempio il leggere o lo scrivere, ed altre invece corrispondono solo a certi fini, per esempio la musica, che rende piacevole colui che la conosce. Le abilità sono in un certo modo infinite rispetto alle quantità dei fini a cui posson servire. III. L’educazione, la quale deve aver cura che l’uomo divenga accorto e sappia stare in società, in modo piacevole e influente. A ciò mira una parte della coltura che si chiama raffinamento. Esso deve avere compitezza di modi, cortesia e una certa accortezza che ci insegna a giovarci degli altri per i nostri fini. Questa civiltà si regola secondo il gusto mutabile dell’epoca: infatti qualche decina d’anni fa si amava ancora l’etichetta in società. IV. L’educazione deve infine proporsi la moralità. Non basta che l’uomo sia capace ad ogni sorta di fini, ma deve acquistare il discernimento per

Tuttavia, gli esseri umani devono essere pensati anche nel loro carattere intelligibile, postulati come fini della natura rispetto a questa loro proprietà. Allora, «oltre quel traguardo conclusivo dell’avventura umana su questa terra [lo scopo ultimo, ndr], il sistema teleologico della natura esige uno scopo ulteriore. Si tratta dello “scopo finale (Endzweck) dell’esistenza d’un mondo, vale a dire della creazione stessa”, come leggiamo nel titolo del §84 della Critica del giudizio. Quindi, lo scopo ulteriore è tale che non si può pensare null’altro al di sopra di esso. Pertanto quello Endzweck è tale per la sua definitività; infatti, possiamo ripetere con Kant che “non v’è nulla in natura (in quanto essere sensibile) di cui il principio determinante, che si trova nella natura stessa, non sia a sua volta condizionato; e questo vale non soltanto per la natura esterna (materiale), ma anche per la natura interna (pensante), in quanto, s’intende, considero in me soltanto ciò ch’è natura”. Ma esiste nel mondo “un’unica specie di esseri, la cui causalità sia teleologica”; ed è l’uomo, ma considerato come noumeno, dotato di una “facoltà soprasensibile”, vale a dire la libertà»62. Lo scopo finale della natura è quello

«oltre al quale non si può pensare null’altro come fine e come stadio supremo della creazione divina»63. Quando siamo concepiti come scopi finali della natura «entra in

gioco la libertà: per essere capaci di scopi finali non è sufficiente essere inseriti alla conclusione di un sistema evolutivo. Bisogna essere in grado di fare scelte

scegliere solo quelli buoni. Buoni sono i fini che sono necessariamente approvati da tutti e che possono essere i fini di ognuno» (Päd., AA IX 449-450, trad. it. cit. pp. 13-14). Cfr. G. A. KELLY, Idealism Politics and History, cit. pp. 139-145.

62 G. MARINI, Letzter Zweck e Endzweck. Osservazioni critiche intorno a una questione non solo terminologica fra Kant e Hegel, in R. BODEI, G. CANTILLO, A. FERRARA, V. GESSAKUROTSCHKA, S.

MAFFETTONE (a cura di), Ricostruzione della soggettività, Napoli, Liguori, 2004 [corsivi miei]. Si veda

anche, dello stesso autore, La filosofia cosmopolitica di Kant, pp. 139-140. 63 G. MARINI, Letzer Zweck e Endzweck, cit. p. 65.

disinteressate, che trascendono l’ordine naturale. Bisogna, in una parola, essere liberi nel senso morale del termine»64. Lo scopo finale della natura «consiste nel regno della

moralità intesa nel modo più comprensivo e cioè implicante il diritto e la virtù, e insieme a un tale regno della moralità vi sarà anche la felicità offerta a tutti gli uomini virtuosi nel sommo bene, con la garanzia divina»65. Mentre il diritto si occupa della

legalità delle azioni dell’uomo, dell’esteriorità dei suoi comportamenti, la virtù chiede agli esseri umani la moralità di tutti i suoi comportamenti, una adesione interiore, intenzionale alla legge morale. Possiamo sperare nel miglioramento morale del genere umano, che comprende, oltre il diritto, anche la virtù? Quest’ultimo costituisce quello che Kant chiama «chiliasmo teologico»66, una speranza “maggiore”, che deve però

confrontarsi con la presenza in noi del male radicale [radikale Böse] che non potrà mai essere estirpato. Quella che possiamo conservare è una speranza “minore”, ma

64 M. C. PIEVATOLO (a cura di), Sette scritti politici liberi, cit. p. 131. In questo «la vocazione

(Bestimmung) dell’essere umano è l’emancipazione graduale della natura attraverso l’autodeterminazione (Selbstbestimmung), ovvero l’autonomia etica» (R. BRANDT, The Guiding Idea..., cit. p. 94).

65 «Per quanto attiene allo scopo ultimo: noi scorgiamo nella storia dell’umanità un progressivo aumento della civiltà, intesa come insieme delle produzioni dello spirito umano, dalle scienze alla tecnica, alle arti, a tutte le forme del sapere, e tutto ciò in quanto è garantito dalla cornice giuridica coattiva,

progressivamente estendentesi a tutta la terra. Ma al di sopra di un tale scopo, o scopo naturale, c’è nel mondo qualcosa di superiore, che consiste nel regno della moralità intesa nel modo più comprensivo e cioè implicante il diritto e la virtù, e insieme a un tale regno della moralità vi sarà anche la felicità offerta a tutti gli uomini virtuosi nel sommo bene, con la garanzia divina» (G. MARINI, La filosofia cosmopolitica di Kant, p. 173).

66 Il chiliasmo teologico riguarda la possibilità del progresso morale del genere umano nel senso di un loro miglioramento etico. Questo viene trattato nello scritto sulla religione come «l’operazione, non vista