• Non ci sono risultati.

Antropologia kantiana e antropologia comunitarista

II. Antropologia in Kant

5. Antropologia kantiana e antropologia comunitarista

Sulla base del carattere della specie possiamo comparare antropologia kantiana e comunitarista. Ricapitoliamo i due punti salienti di quest’ultima95. Il primo punto

consiste nella ripresa della concezione aristotelica dell’uomo come animale sociale, destinato dalla sua natura a partecipare alla vita della comunità di cui fa parte: solo in essa l’individuo raggiunge il proprio perfezionamento. Questo viene declinato dai comunitaristi in un linguaggio moderno: la partecipazione alla vita di una comunità è il perno del senso di sé, il vettore per un’identità piena. Il secondo punto considera l’interiorizzazione dell’ethos della comunità come condizione di possibilità e limite dell’agire in senso morale. Come si situa l'antropologia kantiana rispetto a queste affermazioni?

Rispetto alla prima affermazione, il punto di contatto è l’esistenza di disposizioni naturali, il cui dispiegamento realizza la nostra vocazione. La nostra vocazione è quella di acculturarci, civilizzarci, moralizzarci e questo costituisce la guida del nostro

93 Ibidem.

94 «Per il genere umano il problema più grande alla cui soluzione la natura lo costringe è il

conseguimento di una società civile che amministri universalmente il diritto. Poiché solo nella società, e precisamente quella che ha la massima libertà e quindi un pervasivo antagonismo dei suoi membri eppure la più precisa determinazione e assicurazione dei confini di questa libertà, perché possa coesistere con la libertà altrui, - poiché solo in essa può essere conseguito nell’umanità l’intento supremo della natura, cioè lo sviluppo di tutte le sue disposizioni [...]» (Ibidem).

perfezionamento (tutt’altro che indeterminato96), ci fornisce un orientamento morale97. Il

dispiegamento delle nostre disposizioni è possibile solo in una società. Ciò che distingue Kant e i comunitaristi è il tipo di società e il modo in cui gli esseri umani vi si relazionano. Differentemente da quanto avviene per l’antropologia comunitarista, l’essere umano ha per Kant una relazione ambigua con la società in cui si trova. Vivendo tra gli esseri umani in società, il nostro male radicale si attiva e in questo modo si crea la dinamica di competizione che Kant chiama «insocievole socievolezza» e che caratterizza l’interazione tra persone che vogliono isolarsi, per «disporre tutto secondo le sue intenzioni»98, ma che allo stesso tempo dipendono dagli altri naturalmente

(l’uomo nella società «sente di più se stesso come essere umano, cioè avverte lo sviluppo delle sue disposizioni naturali»99). La società è un luogo di tensione, a cui gli

esseri umani per natura resistono. Questo impedisce che ci possa essere naturalmente all’interno della società quel tipo di solidarietà organica tipica del concetto di comunità100, che i comunitaristi tendono a far rientrare nel loro progetto politico. In

secondo luogo, l’insocievole socievolezza porta l’uomo al di fuori della comunità, facendogli fare il primo passo verso una condizione cosmopolitica. Le inclinazioni antisociali dell’uomo sono il contributo naturale alla condizione cosmopolitica. Secondo Kant: «Se le persone fossero concilianti [verträglich], vivrebbero tutte in un unico

96 Kantianamente, la nostra storia, come esseri naturali quali siamo, non è indeterminata, perché indeterminati non lo siamo noi, che abbiamo piuttosto delle disposizioni naturali da portare dalla potenza all’atto (Cfr. R. BRANDT, The Guiding Idea..., cit. p. 95).

97 Si veda R. B. LOUDEN, op. cit., p. 152.

98 IaG, AA VIII 21, trad. it. cit. p. 30. 99 Ibidem.

100 «Tutt’al più si può ancora chiedere se egli sia per natura un animale fatto per la società o per la solitudine e avverso alla vicinanza con gli altri: la seconda ipotesi è forse la più verosimile» (Anthr., AA VII 322, trad. it. cit. p. 217).

luogo, e nessuno si separerebbe dalla società»101. La società in cui la natura ha posto

l’uomo è in ultima istanza una società cosmopolitica [weltbürgerliche Gesellschaft], la società dei cittadini del mondo. Portare dalla potenza all’atto le proprie disposizioni naturali non è possibile né singolarmente né in una specifica comunità, ma solo nella comunità del genere umano e nel corso delle generazioni. Come abbiamo visto, e con le parole di Brandt: «Il tutto rilevante non è né l’intera Creazione, né l’individuo – è la specie umana. La specie umana è il parametro cui si applica la Bestimmung. Per Platone e Aristotele, l’essere umano era primariamente cittadino della polis, durante la sua vita; gli stoici hanno portato all’ellenismo una espansione della polis in cosmopolis e hanno visto l’essere umano come cittadino del mondo, come cittadino di una illimitata

societas generis humani. Kant, andando al di là di questo, concepisce la storia

dell’umanità come una “sistema” e gli individui come membri e cittadini non solo della

cosmopolis a loro contemporanea, ma anche come membri e cittadini della specie

umana nella sua dimensione storica. L’essere umano diventa pertanto membro e mezzo di una umanità futura [a member of and means to the future humanity]»102. L’orizzonte

kantiano è una condizione cosmopolitica, comunque venga declinata, e non una comunità specifica.

Il secondo punto di confronto tra antropologia kantiana e comunitarista sono le condizioni soggettive di possibilità dell’azione morale. I comunitaristi ritengono la comunità e l’ethos che esprime come il substrato necessario per la capacità morale degli individui. MacIntyre sostiene ciò di contro all’autonomia morale liberale, la capacità

101 Friedl., cit. p. 679 [trad. mia].

102 R. BRANDT, The Guiding Idea..., cit p. 98 [trad. mia]. Cfr. M. C. NUSSBAUM, Kant and Stoic Cosmopolitanism, «The Journal of Political Philosophy», Vol. 5, 1 (1997), pp. 1-25.

dell’individuo di scegliere tra tutte le opzioni che possono darglisi, esaminando i propri fini e mettendo tra parentesi le proprie particolarità, per raggiungere così un punto di vista morale103. Secondo i comunitaristi questo punto di vista non si può assumere:

basare la moralità su di esso la elimina pertanto dall’orizzonte. All’interno dell’ethos della comunità, dell’ordine specifico in cui l’individuo è socializzato, si può invece trovare la propria identità e moralità: senza la comunità gli individui non potrebbero sapere in quanto esseri morali, se qualcuno è ingiusto o meno nei loro confronti e se loro lo sono verso altri. Tuttavia, in tal modo, la moralità diviene necessariamente una «moralità del patriottismo», che nell’ethos trova i propri limiti. Come possono le persone agire moralmente? Di cosa hanno bisogno? Kant e i comunitaristi partono similmente da una comunità specifica, di cui si conoscono le tradizioni, nella quale si è civilizzati104. Ciò che differenzia Kant e i comunitaristi è il punto di arrivo: il

ragionamento dei secondi resta all’interno dello specifico linguaggio morale della comunità. La ragion pratica kantiana invece va oltre tutto ciò. La nostra proprietà di avere un carattere intelligibile ci consente di porre sotto esame, sotto critica, ogni ethos che pure abbiamo assimilato, così come ogni nostro interesse. Il nostro potere di scelta «deve includere un potere di autodeterminazione che rifiuti sia la subordinazione a qualsiasi cosa sia contingente, variabile, esterno, sia la non determinazione»105. Se

volessimo illustrare la posizione comunitarista sul calco di quella kantiana, potremmo dire che la ragione comunitarista non è autonoma, non ha un potere di autodeterminazione, ma è immersa in una tradizione, e dunque dipendente da tali

103 A. MACINTYRE, op. cit.

104 Si veda la disposizione pragmatica alla civiltà prevista nell’Antropologia pragmatica. 105 O. O’NEILL, Constructions of Reason, cit. pp. 76-77 [trad. mia].

contingenze. Di conseguenza, l’arbitrio sarebbe determinato dalle «categorie di un ordine sociale specifico»106 e non sarebbe libero. L’autodeterminazione è secondo Kant

resa possibile dall’imperativo categorico, un test a cui sottoporre le nostre massime, i principi soggettivi che guidano sempre la nostra azione, per decretarne o meno la moralità: «L’imperativo categorico è, dunque, uno solo, e precisamente il seguente:

agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale»107. Il punto di partenza del nostro ragionare restano anche per

Kant le tradizioni culturali che ho interiorizzato. Come sostiene Onora O’Neill, gli altri modelli di ragion pratica, tanto quello strumentale quanto quello comunitarista non vengono «scartati se adottiamo un modello critico di ragion pratica [come è quello di Kant, ndt]: piuttosto entrambi vengono superati (aufgehoben) in un un modello critico di ragion pratica. Cosa quest’ultimo prevede è l’inizio di una risposta alla domanda se norme e impegni particolari, dai quali inizia il nostro ragionare pratico quotidiano, possono sopravvivere a uno scrutinio critico o sono meramente arbitrarie. Una concezione critica di ragion pratica offre un framework per il ragionamento strumentale che scarta l’assunzione che le preferenze effettive o idealizzate abbiano un ruolo automaticamente giustificatorio, e fornisce i mezzi per distinguere quelle il cui perseguimento è giustificabile da quelle per cui non lo è»108. Agire moralmente,

seguendo l’imperativo categorico, non solo significa partire comunque dalle tradizioni interiorizzate, ma significa trovare in esse, nella conoscenza stessa delle tradizioni, degli

106 Ibidem.

107 GMS, AA IV 421, trad. it. cit. p. 123.

specifici mezzi che mi possono portare a un determinato fine voluto109. Le culture

specifiche sono il braccio che mi evita l’inerzia morale, il quale in ultima istanza permette la stessa azione morale. Questo si comprende considerando ciò che sottoponiamo a test con l’imperativo categorico: non le intenzioni, ma le massime110. Le

massime sono kantianamente sempre alla base delle nostre azioni, e di queste non siamo sempre consapevoli, ci sono oscure. La massima della nostra azione – su cui effettuare il test di moralità – è il principio che sta alla base delle nostre azioni, che guida e significa tutte le intenzioni specifiche che concretizzano la massima. Le massime sono inerti se non completate da intenzioni specifiche che contengono il contenuto dell’azione, lo specifico codice morale di un dato luogo e tempo111. Infatti le massime sono «linee

guida indeterminate [indeterminate guidelines] su cui si può agire solo quando integrate [supplemented] da più specifiche intenzioni»112. Gli esseri umani partono nel loro

ragionamento pratico da una tradizione, un ethos interiorizzato. Le massime delle loro azioni sono sottoposte a esame, filtrate secondo un criterio formale, l’imperativo categorico. Le stesse, per non essere condannate all’inerzia si affidano a una cultura specifica, dove specifiche intenzioni le completano, fornendogli un contenuto.

109 «Instrumental reasoning in Kant’s theory is concerned not with reckoning efficient means to morally arbitrary ends, but with showing how virtuous underlying intentions can and must be supplemented by specific intentions that take account of the natural and human world in which action takes place […] In either Kant’s or MacIntyre’s theory an account of instrumental reasoning is indispensable; without it maxims of virtue are inert [...]» (O. O’NEILL, Constructions of Reason, cit. p. 157).

110 Ibidem, p. 151.

111 Il cosmopolitismo morale kantiano si basa sulle massime, non sulle intenzioni. Ed è qui che secondo O’Neill cade la critica mossa a Kant di rigorismo, ovvero di provvedere con l’imperativo categorico a fornire un unico codice morale fatto di regole valide per tutti i luoghi e tempi (Ibidem, pp. 152-155). 112 Ibidem, p. 152 [trad. mia].

C’è un aspetto concernente la psicologia umana che costituisce un’altra condizione soggettiva di possibilità dell’azione morale. Secondo Kant, perché gli esseri umani possano agire moralmente hanno psicologicamente bisogno di avere un qualche focus113.

Come scrive Pauline Kleingeld, secondo Kant l’amore per il proprio paese, o patriottismo [Vaterslandliebe] è un dovere, perché essere senza affezioni particolari, essere solamente Weltliebhaber [amanti del mondo] è qualcosa di psicologicamente pericoloso per la moralità dell’uomo114. L’argomento che considera il Vaterlandsliebe

come dovere «si basa su una premessa di psicologia empirica. Kant assume che l’amore pratico abbia bisogno di cristallizzarsi attorno o focalizzarsi su un particolare sottoinsieme di esseri umani verso i quali si sente un attaccamento emotivo, perché la mancanza di un focus di questo tipo minaccia gli sforzi di fare il proprio dovere [one’s

efforts to do one’s duty]. […] Brevemente, il suo argomento è che, siccome la mancanza

di focus da parte del Weltliebhaber porta all’impassibilità, e siccome l’impassibilità costituisce un impedimento al comportamento morale, è moralmente richiesto [morally

required] dare all’universalismo morale un focus particolare, più specificamente, un focus patriottico»115. Secondo Kleingeld l’argomento kantiano che connette l’azione

morale degli esseri umani e la Vaterland, la patria intesa come nazione, è inconsistente. Infatti «non è chiaro perché il focus necessario dell’amore generale del genere umano debba richiedere un focus sul proprio paese e non un qualche altro non settario

113 P. KLEINGELD, Kant’s Cosmopolitan Patriotism, «Kant-Studien», 94 (2003), n. 3, p. 311.

114 Una simile tesi è sostenuta anche da Rousseau. Si veda quanto egli scrive nell’Émile: «Diffidate di quei cosmopoliti che se ne vanno a cercare nei libri i doveri che disdegnano di assolvere nella vita. Un tale filosofo ama i Tartari per essere dispensato dall’amare i suoi vicini» (J.J. ROUSSEAU, Émile, texte établi

et annoté par H. Gouhier, in Œuvres, IV, Émile – Éducation, Morale, Botanique, Paris, Gallimard, 1969, pp. 925-1007; trad. it. di M. VALENSISE, Émile o dell’educazione, Milano, BUR, 2016, p. 42).

sottoinsieme dell’umanità. Kant eguaglia la necessità di dare all’azione morale di qualcuno un focus con il dargli un focus patriottico; ma questa equazione è ingiustificata»116. Perché le persone possano agire moralmente, è necessario per loro

individuare un focus, altrimenti psicologicamente sono portate a impassibilità, che è pericolosa per la moralità. Questo porta gli esseri umani in una qualche società, ma non specifica il tipo di società (non specifica appunto neppure una comunità nazionale, una

Vaterland). Infine, un aspetto che avvicina Kant e MacIntyre è la necessità di un

sostegno per gli esseri umani nella propria azione morale. L’azione morale non è per Kant un interruttore da accendere. Infatti l’uomo si trova invischiato a dover scegliere moralmente, a partire dal proprio male radicale, all’interno di una dinamica sociale che lo spinge a prediligere il proprio interesse rispetto alla legge morale. Per questo motivo la scelta lasciata a un decisore morale – ovvero a un insieme di decisori morali – è certamente insufficiente. Kant non concepisce una conversione etica individuale ma collettiva, del genere umano intero, che deve assieme opporsi all’assalto del «cattivo principio»117. Nella previsione di una comunità etica ne La religione entro i limiti della

sola ragione Kant concepisce un intento esplicito all’unione che implica il sostegno di

tutti verso tutti nella propria azione morale118. Tuttavia, anche restando all’interno del

chiliasmo filosofico, della costruzione del regno del diritto sulla terra – che pure ha il compito di rendere la dinamica sociale antagonista meno pervasiva, almeno negli ambiti

116 Ibidem.

117 Rel., AA VI 93, trad. it. cit. p. 99 ss.

118 Si veda l’analisi che P. J. Rossi fa della possibile istituzione di una comunità etica. L’istituzione di una comunità etica, analizzata da Kant nello scritto sulla religione, avviene attraverso un intento comune, un’ opposizione comune del genere umano al male radicale, a partire dal quale si crea una dinamica sociale belligerante. Per questo, quello che è necessario è un nuovo tipo di dinamica sociale, che solo può opporsi al male radicale quando esso si attiva socialmente (P. J. ROSSI, op. cit., pp. 87-111).

regolabili dal diritto119 – emerge la necessità del sostegno tra gli esseri umani nell’azione

morale. In una società civile non esiste secondo Kant solamente la coercizione pubblica, che assicura il diritto, ma tra questa e la costrizione della propria coscienza [der Zwang

seines Gewißens] – che realizza una comunità etica – ci sono altri due tipi di costrizione

che pertengono ancora alla comunità civile. Queste sono infatti costrizioni esterne, che Kant chiama costrizione del decoro [Zwang der Anständigkeit] e costrizione morale [moralische Zwang]. La costrizione del decoro [Zwang der Anständigkeit] concerne la dipendenza reciproca degli uomini dal giudizio altrui per quanto riguarda il gusto, la modestia, la raffinatezza, la cortesia, il decoro. Di come gli uomini si vestono, di come le persone si comportano in società, del loro gusto, scrive Kant, non si occupa la coercizione pubblica, ma gli esseri umani stessi, che di per sé si costringono, si trovano in una reciproca dipendenza. La costrizione morale [moralische Zwang], invece, «prevede che ognuno tema il giudizio morale dell’altro, e sia perciò necessitato a compiere azioni oneste e puramente morali [Handlungen der Rechtschaffenheit und der

reinen Sittlichkeit]»120. La costrizione morale costituisce una forma di sostegno per gli

individui nella loro azione morale, sebbene non costituisca un intento esplicito.