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Schermi di carta

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Academic year: 2021

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«È inutile suonare qui non vi aprirà nessuno. Il mondo l’abbiam chiuso fuori con il suo casino. Una bugia coi tuoi, il frigo pieno e poi un calcio alla tivù. Solo io, solo tu».

Adriano Celentano, Soli, 1979

«Prova a sentirti leggera e poi amore caro, ti giuro, vedrai che il mondo è più bello se sai vederlo in chiaro».

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INDICE

1.1 Premessa ... 5

1.2 Una proposta di periodizzazione ... 6

1.3 La paleotelevisione (1954-1975) ... 6

1.2.1 L’Italia davanti e dietro lo schermo ... 7

1.2.2 Il monopolio Rai ... 9

1.2.3 Paleotv e intellettuali ... 11

1.2.4 I corsari ... 13

1.2.5 Pasolini e la televisione ... 14

1.3 La neotelevisione (1975-1999) ... 15

1.3.1 Una legislazione manchevole ... 17

1.3.2 L’ingresso di Berlusconi nel mercato televisivo ... 17

1.3.3 La legittimazione delle reti private ... 18

1.3.4 Neotelevisione e pubblico ... 19

1.3.5 Il talk show ... 21

1.3.6 Gli intellettuali e la neotelevisione ... 22

1.3.7 I linguaggi televisivi ... 23

1.4 La transtelevisione (1999-anni 2000) ... 25

1.4.1 Il Grande Fratello ovvero il reality show ... 26

1.4.2 Il talent show ... 27

1.4.3 Tv e convergenza ... 29

1.4.4 Intellettuali e transtelevisione ... 29

2.1 Storia di una concorrenza ... 31

3.1 Luca Doninelli, spettatore e autore ... 34

3.2 Un romanzo in due parti ... 35

3.3 Padre e figlio ... 36

3.4 Comunicazione e silenzio ... 38

3.5 Uno spettacolo tra i migliori ... 40

3.6 Il Conduttore e la «gente» ... 42

3.6.1 Il Conduttore e il suo pubblico: una dittatura benevola ... 45

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3.7 Il capo espiatorio ... 50

3.8 Un padre molto triste ... 53

3.9 «L’enfer, c’est les autres» ... 57

3.10 Il talk show come rappresentazione... 58

3.11 Il talk show e il pensiero comune ... 61

3.12 La pubblicità ... 63

3.13 I due finali ... 65

3.13.1 Il finale televisivo ... 65

3.13.2 Il finale reale ... 66

4.1 Covacich, l’uomo dietro all’uomo ... 69

4.2 Attraverso il deserto narrativo ... 70

4.3 Un uomo, tre nomi ... 72

4.4 Sandro, padre e sognatore ... 72

4.4.1 Maura, il vangelo di carne ... 74

4.4.2 I luoghi onirici, luoghi televisivi ... 76

4.4.3 Fiona in fondo al pozzo ... 78

4.5 Verità e comunicazione ovvero la verità incomunicabile ... 82

4.6 Top Banana e Habitat ovvero l’illusione della partecipazione ... 84

4.6.1 Samurai e demiurghi ... 87

4.6.2 La degenerazione di Habitat dentro e fuori la casa ... 88

4.7 Linguaggio letterario e linguaggio televisivo ... 90

4.8 Lo scrittore come dinamitardo ... 91

4.9 L’erotizzazione dei desideri ... 92

4.10 Vedere, televedere e farsi vedere ... 93

4.11 Il duplice ruolo del pubblico ... 96

4.12 Il décalage tra la televisione e la realtà ... 97

4.13 Minemaker e il talk show ... 99

4.14 Il finale: un tentativo di riconciliazione ... 102

5. 1 Il vero Walter Siti ... 105

5.2 Walter nei paradisi artificiali dell’Occidente... 106

5.2.1 Quando i paradisi diventano troppi ... 108

5.3 Un campione di mediocrità ... 110

5.4 La storia di Walter ... 111

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5.6 Autopsia della realtà ... 116

5.7 Sputtanare la vita ... 117

5.8 Tra apocalisse e integrazione ... 118

5.9 Io sono l’Occidente ... 119

5.10 Il pastore del gregge mediatico ... 121

5.11 «Inside and outside at the same time» ... 123

5.12 Cinema e televisione ... 125

5.13 Una potenza di fuoco superiore ... 126

5.14 Il reality: occhio e telecamera ... 128

5.14.1 I concorrenti del reality ... 129

5.15 Talk show e arte ... 131

5.15.1 Ospiti, autori e pubblico del talk show ... 133

5.16 La schizofrenia del vip ... 136

5.17 I fantasmi dell’Occidente ... 140

6.1 Un’assenza ingombrante... 144

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«In principio era la parola»: così il Vangelo di Giovanni. Oggi si dovrebbe dire che «in principio è l'immagine»1

«Il corpo diventa inutile, bastano gli occhi»2

1.1 Premessa

«La televisione ha segnato un confine temporale, ha tracciato una linea displuviale»3

capace di dividere la Storia italiana (e internazionale) in un prima e in un dopo. Settant’anni di televisione hanno rivoluzionato l’Italia intera mutandone i connotati storici, culturali e persino caratteriali. Non è possibile trovare un ambito artistico che non sia stato influenzato dalla presenza ingombrante della televisione. Oggi internet e le nuove tecnologie hanno invecchiato la televisione rendendola un mezzo quasi obsoleto. Eppure mai come in questi anni la tv è posta al centro della riflessione intellettuale e artistica. Ma ha ancora senso parlare di televisione? Questa sarà la domanda a cui questa ricerca tenterà di dare risposta attraverso l’analisi di tre testi in cui la televisione e la sua influenza vengono affrontate in diversi modi.

Per poter avere una panoramica del ruolo della tv nel nostro Paese è necessario raccontare la storia del medium e dei rapporti che questo ha intrecciato con il mondo degli intellettuali.

1 SARTORI 1999, p. 21. 2 ECO 1983, p. 179. 3 GRASSO 1992, p. 21.

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1.2 Una proposta di periodizzazione

Quella della televisione è una storia plurale e tutta novecentesca che inizia negli Stati Uniti negli anni Venti con i primi tentativi di trasmissione di immagini a distanza. Il progredire delle innovazioni tecniche porta alle prime trasmissioni televisive già negli anni Quaranta e sempre negli Stati Uniti. In Italia la televisione non sarebbe arrivata che un decennio dopo, nel 1954.

In questa tesi la storia della televisione verrà limitata al nostro Paese e per farlo è necessario procedere a una periodizzazione che tenga conto delle innumerevoli trasformazioni a cui è andata incontro la tv.

La storia della televisione italiana può essere articolata in tre fasi successive: • 1954-1975: paleotelevisione

• 1975-1999: neotelevisione

• 1999- anni 2000: transtelevisione

1.3 La paleotelevisione (1954-1975)

Per paleotelevisione si intende il periodo compreso tra le prime trasmissioni del 1954 fino all’avvento delle prime reti commerciali private a metà degli anni Settanta. Il termine “paleotelevisione” è stato usato per la prima volta da Umberto Eco in un articolo intitolato Stravideo, pubblicato sull’«Espresso» il 30 gennaio 1983. L’articolo è successivamente confluito nel libro Sette anni di desiderio sempre del 1983 col titolo Tv: la trasparenza perduta: «C’era una volta la Paleotelevisione, fatta a Roma o a Milano, per tutti gli spettatori, parlava delle inaugurazioni dei ministri e controllava che il pubblico apprendesse solo cose innocenti, anche a costo di dire le bugie»4.

I primi due decenni della tv nazionale si configurano come una fase di forte sperimentazione data la mancanza di una precisa codificazione del medium sia da un punto di vista tecnico, sia da un punto di vista linguistico. La paleotv è la fase in cui sia i produttori televisivi, sia il pubblico imparavano a confrontarsi con il potenziale del nuovo mezzo.

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1.2.1 L’Italia davanti e dietro lo schermo

In Italia le trasmissioni televisive iniziano il 3 gennaio 1954. In quell’anno gli apparecchi collegati sono circa ottantamila e trasmettono un solo canale in bianco e nero la cui programmazione dura poche ore finendo prima delle 23. L’Italia che accoglie le prime trasmissioni è un Paese ancora fortemente segnato dalla guerra. La ricostruzione e il rilancio del Paese si stanno dimostrando assai faticosi per l’economia fiaccata, anche se già si iniziano a intravedere e a sperimentare i primi barlumi del benessere che sarebbe arrivato col boom economico degli anni Sessanta. Il Paese sta attraversando una fase di forte industrializzazione, ma resta ancora un’economia prevalentemente rurale. La scuola non riesce a contrastare la piaga sociale dell’analfabetismo e più di metà della popolazione non sa né leggere, né scrivere. La lingua italiana ancora non è parlata su tutto il territorio nazionale e rimane appannaggio delle classi sociali più alte. Dall’Unità nazionale di quasi un secolo prima ancora non si è completato l’augurio di Massimo D’Azeglio e, nonostante la propaganda nazionalistica del fascismo, gli italiani ancora non si riconoscono come popolo unitario. L’inizio delle trasmissioni giunge in una fase di transizione che porterà il Paese a diventare una delle potenze economiche mondiali. La televisione ha avuto il merito innegabile di aver contribuito alla formazione di quell’identità nazionale e sociale che la letteratura, la radio e il cinema hanno avviato senza però completare.

Gli storici del futuro non troveranno paradossale un’affermazione che oggi potrebbe stupire: l’avvento della televisione è paragonabile (circoscriviamo con prudenza il paragone alla sfera del sociale) alla Divina Commedia e alla spedizione dei Mille. Se Dante aveva dato all’Italia post-latina una lingua unitaria; se la spedizione dei Mille aveva realizzato politicamente quell’unità che per seicento anni era rimasta solo una utopia letteraria (e forse lo è ancora), dobbiamo anche ammettere che l’italiano di Dante era ristretto a pochi intellettuali e, come tutti sanno, fatta l’Italia bisognava ancora fare gli italiani. La televisione, secondo Umberto Eco e Tullio De Mauro, ha unificato linguisticamente la penisola, là dove non vi era riuscita la scuola. Lo ha fatto nel bene come nel male. Non ha unificato con il linguaggio di Dante, ma con quello di Mike Bongiorno, nel migliore dei casi con quello delle cronache sportive, del Festival di Sanremo, della lotteria di Capodanno, del telegiornale. Si è trattato di un fenomeno di proporzioni enormi, che ha accelerato i ritmi della vita sociale del

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Paese in maniera impressionante: i secoli si sono compressi in anni, gli anni in mesi, i mesi in ore.5

La televisione è riuscita nell’imprese di riunire gli italiani in un popolo capace di riconoscersi come unito. L’unità linguistica è stato uno dei più innegabili risultati della televisione. Anche le più remote province italiane possono essere raggiunte dall’italiano televisivo assai diverso dalla lingua retorica della radio e dei cinegiornali fascisti. La medietà della nuova lingua ne favorirà il diffondersi in tutti gli strati sociali uniformando, per la prima volta, la frammentazione linguistica del Paese.

Nell’«allegria» di Mike Bongiorno, materializzazione del pressante desiderio di svago di un paese segnato dalla guerra, c’era per intero il senso di un italiano picaresco e un po’ briccone, impertinente e farsesco, etichettato in tanti modi: deficitario, irriflessivo, povero, informale standard. Un italiano, in realtà, non molto diverso da un “parlato semplice”.6

Non sono le rubriche culturali settimanali a diffondere l’uso della lingua tra gli strati più bassi della popolazione, ma sono i quiz e i programmi d’intrattenimento a farlo attraverso la loro spigliata simpatia. Programmi come Lascia o raddoppia? oppure Campanile sera segnano profondamente la cultura e l’immaginario del Paese.

Gli italiani imparano a conoscersi e a riconoscersi come membri di una comunità che condivide la stessa lingua, la stessa cultura e gli stessi programmi televisivi.

Lo scopo iniziale della televisione era anche quello di costruire una sorta di struttura connettiva capace di rendere pensabile l’idea di un «noi» nazionale, non solo come comunità legata a un territorio, ma anche come emotional community. Se […] una nazione, per esistere, deve innanzitutto immaginarsi come tale e se, in questo processo, il capitalismo a stampa ha svolto un ruolo centrale nella ritualità immaginativa che unisce persone separate spazialmente ma unite nell’hegeliana «preghiera laica del mattino» della lettura dei giornali, il discorso va senz’altro ripreso e rilanciato per la televisione, che – più ancora dei suoi contenuti particolari – trasmette la sensazione, anzi la certezza, che altri, vicini e lontani, sono all’ascolto, sono spettatori, nello stesso istante, della medesima rappresentazione, sono un «noi» accomunato dall’appartenenza a un comune spazio pubblico nazionale.7

5 GRASSO 1992, p. 22. 6 ARCANGELI 2013, p. 160. 7 GRASSO 2011, p. IX.

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Il senso di appartenenza che il televisore rende possibile spinge molti italiani a desiderarne l’acquisto. L’apparecchio diviene oggetto di un desiderio duplice: da un lato gli italiani, soprattutto quelli appartenenti agli strati sociali più bassi, desiderano partecipare alla vita del Paese, e dall’altro lato desiderano possedere il mezzo che rende possibile questa partecipazione.

L’abitante della sotto-Italia, il segregato sociale, realizzava davanti al video una specie d’uguaglianza magica col resto degli italiani; e per averne conferma ogni sera ecco che anche le famiglie che non possedevano nemmeno l’armadio o le scarpe, andavano a indebitarsi per comprare il televisore.8

Le trasmissioni televisive garantiscono lo sviluppo e la diffusione anche del modello consumistico tipico di tutto l’Occidente. La televisione diviene la più grande vetrina del mondo. Insegna ai telespettatori cosa vale la pena di desiderare e lentamente li trasforma da contadini in consumatori traghettando il Paese nel mondo occidentale più di quanto non avesse fatto la politica centrista di quegli anni.

Il televisore inizia a rappresentare un mezzo di emancipazione sociale per le classi più basse e uno status symbol per i borghesi. Guardare la tv diventa un’occasione di socialità e di condivisione: i bar delle province permettono a tutti di guardare la tv al prezzo di una consumazione; nelle case borghesi si organizzano veri e propri ricevimenti mondani invitando amici e vicini per guardare assieme i quiz di Mike Bongiorno. La paleotv ha un forte potere aggregativo che con il trascorrere degli anni andrà scemando mutandosi in una fruizione sempre più familiare e solitaria.

1.2.2 Il monopolio Rai

La storia della paleotelevisione coincide in larga parte con la storia della Rai. La Radio Audizioni Italiane è nata nel 1944 da quel che restava della vecchia Eiar (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) fondata nel 1927. La Rai è la società concessionaria esclusiva del Servizio Pubblico radiotelevisivo e multimediale: i suoi obiettivi sono la trasmissione di servizi di interesse generale e di pubblica utilità. La Rai dopo aver fatto capo al Ministero delle poste e delle telecomunicazioni attraverso una serie di successivi

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trasferimenti di responsabilità è arrivata oggi a dipendere dal Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE).

Quando cominciano le trasmissioni nel 1954 solo una piccola parte del territorio nazionale è raggiunta dal segnale televisivo. Nel giro di poco meno di un decennio, grazie a un poderoso sforzo tecnico, tutto il territorio nazionale viene coperto dal segnale.

La Rai non ha concorrenza privata e perciò stabilisce sul Paese un monopolio che durerà fino alla metà degli anni Settanta. Il servizio pubblico si pone come obiettivo quello di educare il pubblico italiano cercando di sopperire alle mancanze culturali che la scuola non era riuscita a colmare col proprio intervento. La programmazione è molto sorvegliata e orientata a un intrattenimento pacato e di stampo centrista.

La peleotv è una televisione politicamente monocromatica. Dal 1946 si susseguono in Italia governi a guida Dc per cui la televisione pubblica non può che rispecchiarsi in questa continuità. I dirigenti del servizio pubblico sono scelti direttamente da quelli della Dc per evitare infiltrazioni di avversari politici (soprattutto dei comunisti). In viale Mazzini non si è sentito parlare di pluralismo fino ai primi anni Sessanta quando la Dc pone fine all’avvicinamento a destra tentato col breve governo presieduto da Tambroni (appoggiato esternamente da Msi) per spingersi a sinistra verso il Psi. A partire da metà degli anni Cinquanta il Partito Socialista Italiano si è allontanato sia dall’Urss sia dal Pci avviando un dialogo con i democristiani. I frutti di questo dialogo si sono visti a partire dal 1963 quando il Psi entra a far parte della maggioranza nel Governo Moro I. Questa collaborazione ha reso necessaria la riflessione su una riforma che concedesse maggiore spazio agli alleati di sinistra nella dirigenza del servizio pubblico. Questa riforma arriva con la Legge n. 103 del 14 aprile 1975 che prevede il passaggio del controllo del servizio pubblico dal Governo al Parlamento per garantire un maggiore pluralismo e per porre fine al monopolio democristiano.

Nel 1974, un anno prima della riforma, il giornalista e politico Alberto Ronchey conia il termine “lottizzazione” per indicare la spartizione politica della dirigenza Rai gestita rispecchiando le rappresentanze parlamentari.

La legge di riforma n. 103 del 14 aprile 1975, votata dal centrosinistra con l’astensione del Pci (contrari liberali e Msi) affida l’azienda a un Cda di 16 membri, di cui 10 eletti dalla Commissione parlamentare di vigilanza. È la sequenza Fibonacci di viale Mazzini, il numero magico 732111: sette consiglieri Dc, tre socialisti, due comunisti, uno a Psdi, Pri e Pli. Una breve stagione di libertà e di

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concorrenza: l’autorevolezza del Tg1 cattolico (direttore il moroteo Emilio Rossi, ferito alle gambe dalle Br nove mesi prima della strage di via Fani) e il taglio spregiudicato del Tg2 laico, affidato ad Andrea Barbato.9

A partire dal 1973 il segretario del Pci Enrico Berlinguer e il leader democristiano Aldo Moro avviano un progressivo avvicinamento volto ad interrompere la cosiddetta conventio ad excludendum dei comunisti dalla maggioranza di governo. Questo “compromesso storico” non andrà a buon fine per via dell’opposizione della sinistra estrema e del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro (16 marzo ‒ 9 maggio 1978), ma permetterà al Pci di avvicinarsi maggiormente alla Rai. Il 15 dicembre 1979 Rai3, la terza rete del servizio pubblico, inizia le sue trasmissioni sotto la diretta gestione dei comunisti.

Il Pci [...] entra nella stanza del potere di viale Mazzini nel suo momento più basso e oscuro, alla vigilia del crollo del Muro di Berlino. Per il sistema politico la tripartizione dell’etere è la lottizzazione perfetta, la beatificazione della Repubblica dei partiti. E invece è vicina Tangentopoli. I simboli tradizionali spariranno drammaticamente in pochi mesi, al loro posto i due super-partiti che si sono formati sulle guerre mediatiche degli anni Ottanta: Ulivo contro Polo, sinistra Dc e post-comunisti contro berlusconiani. Ma soprattutto il partito Rai contro il partito Fininvest. Perché la Seconda Repubblica è nata dalla tv.10

1.2.3 Paleotv e intellettuali

La storia della televisione non coincide perfettamente con quella dell’influenza del medium sull’arte e sulla letteratura. Per capire meglio questo rapporto sarebbe necessaria una periodizzazione diversa e più fluida che rispetti i tempi (e i ritardi) con cui la letteratura ha rappresentato la televisione. Ma per rendere l’analisi più agevole si procederà a inserire i contatti tra il mondo televisivo e il mondo degli intellettuali nelle tre fasi in cui è stata suddivisa la storia della televisione.

La paleotelevisione a guida centrista si pone come obiettivo principale quello di fornire agli spettatori una serie di spettacoli e programmi che abbiano un contenuto culturale ed educativo, ma che siano al contempo accessibili a tutti. Il mezzo televisivo viene visto dai

9 DAMILANO 2013, p. 110. 10 Ivi, p. 113.

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suoi dirigenti come un potenziale prolungamento della scuola e dell’oratorio e in questa direzione si orienta la programmazione del servizio pubblico nella sua prima fase.

Una delle più grandi preoccupazioni dei dirigenti Rai è stata quella di usare il nuovo mezzo come uno strumento di promozione culturale; nelle loro intenzioni la televisione avrebbe dovuto sostituire, almeno in parte, i libri scolastici, le letture «obbligatorie», i classici della letteratura di ogni tempo. Molti programmi ‒ riduzioni teatrali, sceneggiati, rubriche ‒ nascevano con questi scopi pedagogici e divulgativi.11

Malgrado l’intento pedagogico della Rai, il mondo degli intellettuali ha reagito all’avvento della televisione in Italia con dichiarata avversione. Il medium è stato visto come il mezzo di un inevitabile impoverimento culturale e intellettuale. La definizione data da Alberto Moravia fotografa bene l’ostilità alla televisione dell’intellighenzia italiana: «L’Italia televisiva è una sotto-Italia, un’Italia di serie B»12.

La televisione è nata tra la ritrosia e l’ostilità degli intellettuali: troppo occupati dal riscatto delle masse, troppo legati al valore catartico dei vari “realismi”, troppo ingenuamente romantici.13

La tv è stata vista come un fenomeno transitorio «una febbre passeggera»14 incapace di incidere realmente sulla vita del Paese per cui gli intellettuali che hanno assistito ai primi passi della tv in Italia si sono limitati a ignorarla aspettando che il vento della novità si placasse.

Secondo Beniamino Placido negli anni Cinquanta si è diffusa una malattia che ha abbacinato tutti gli intellettuali e che ha impedito che si creassero prolifici contatti tra élite culturale e tv.

Quando la televisione arrivò e si affermò, mi ammalai della stessa malattia contagiosa di cui si ammalarono tutti quelli come me, allora: il misoneismo. Ovvero: l’odio, la diffidenza per le cose nuove. Una epidemia che si ripresenta, puntualissima, ad ogni nuova invenzione, nelle comunicazioni di massa. Si tratti del libro, del cinema, del disco. Ogni volta si dice che l’invenzione di prima, la penultima, quella sì che era buona e propizia allo spirito. Mentre l’ultima invenzione,

11 GRASSO 1992, p. 18. 12 Id. 2011, p. 20. 13 Ibidem.

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per esempio la televisione, porterà con sé la fine del mondo. E il trionfo della materia. Affetto da misoneismo febbrile come tutti gli altri, non volevo avere una televisione in casa, come tutti gli altri intellettuali colpiti dal morbo.15

1.2.4 I corsari

Dal 1954 al 1956 l’amministratore delegato della Rai è Filiberto Guala. Il dirigente voluto da Amintore Fanfani «mirava a un compito primario: aprire la porta della televisione alla cultura»16. Proprio per compiere questa operazione Guala, nell’anno del suo insediamento in Rai, ha indetto un concorso volto a rinnovare il servizio pubblico ancora troppo legato alla gestione della vecchia Eiar. Al bando hanno risposto più di 30.000 laureati tra i quali sono stati selezionati e assunti 300 giovani. Tra gli assunti si ricordano: Furio Colombo, Umberto Eco, Gianni Vattimo, Piero Angela, Fabiano Fabiani, Emmanuele Milano e Angelo Guglielmi. Una volta superato il concorso questi giovani hanno seguito un corso di formazione tenuto da Pier Emilio Gennarini, e proprio per questo sono stati chiamati scherzosamente “corsari”. Le energie nuove portate in Rai da questi giovani intellettuali hanno permesso al servizio pubblico di offrire prodotti di alto profilo culturale e intrattenitivo che si rispecchiassero nella «celebre triade formulata da Lord John Reith per la Bbc degli anni Venti»17 e fatta propria dalla Rai: “Informare, educare, intrattenere”.

La televisione sembrava destinata a trasferire direttamente nello spazio raccolto e familiare delle abitazioni private un tipo d'intrattenimento fino a quel momento fruito all’esterno, nei teatri e nelle sale cinematografiche, trasportando nell’intimità della casa le caratteristiche principali dei media audiovisivi che l’avevano preceduta, dal cinema alle diverse forme dello «spettacolo dal vivo».18

L’intento pedagogico e formativo della prima Rai dimostra quanto fosse forte l’ingerenza della Democrazia Cristiana all’interno della programmazione del servizio pubblico. I programmi della prima Rai hanno come scopo principale quello di educare il pubblico ai valori morali del cattolicesimo e del centrismo.

15 PLACIDO 1989. 16 GRASSO 1992, p. 17.

17 GUAZZALOCA 2013, p. 119. 18 PENATI 2013, p. 51.

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I contenuti della programmazione sono in totale aderenza con i valori della Dc: il progresso equilibrato, il ritrovato benessere dopo la guerra, l’anticomunismo, la moderazione, le istituzioni sacralizzate (il capo dello Stato, il governo, i presidenti delle Camere) occupate dai cattolici. Mamma Dc e mamma Rai sono la stessa cosa.19 Questa tendenza a rispecchiare i valori del partito di maggioranza è stata fin dagli inizi una delle cause delle innumerevoli contraddizioni che hanno segnato la Rai paleotelevisiva che rimane sospesa a metà strada tra una volontà progressista e uno spirito conservatore: «La Rai è stata per anni una peculiare mescolanza di arroganza politica e lungimiranza teorica, di integralismo e umanesimo cristiano, di rispettosità bigotta e nobili aspirazioni»20.

1.2.5 Pasolini e la televisione

Uno dei principali detrattori della televisione è stato Pier Paolo Pasolini. Per Pasolini la televisione è il nuovo centro del potere. Essa impone dall’alto un modello che viene assimilato da tutti indiscriminatamente senza più distinzioni di ceto: «Non c’è più alcuna differenza vera nell’atteggiamento verso il reale e nel conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate»21. La cultura particolaristica di ogni gruppo sociale si appiattisce sotto l’influenza livellatrice della televisione: «Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali»22. Pasolini dichiara provocatoriamente che per risolvere la criminalità bisognerebbe abolire sia la scuola media, sia la televisione entrambe colpevoli di deteriorare il tessuto sociale imponendo modelli borghesi e consumistici. Il potere della televisione sta nella sua capacità non solo di suggerire i nuovi modelli da seguire, ma di rappresentarli rendendoli ancora più pericolosi: «Attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati»23.

La televisione diviene per Pasolini non solo un mezzo attraverso il quale si manifesta l’autoritarismo, ma è il medium stesso a essere autoritario in virtù della sua della sua capacità di rappresentare e inculcare modelli comportamentali, culturali e consumistici.

19 DAMILANO 2013, p. 106. 20 GRASSO 1992, p. 20. 21 PASOLINI 1973. 22 Ibidem. 23 Id. 1975.

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La responsabilità della televisione è enorme. Non certo in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.

Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo.24

Attraverso le pagine del «Corriere della sera» Pasolini lancia una proposta provocatoria ai dirigenti della Rai chiedendo che la tv diventi un mezzo di promozione di modelli comportamentali e culturali più educativi e di pubblica utilità. Il potente apparato mediatico della Rai potrebbe permettere a tutti gli italiani di avvicinarsi (o riavvicinarsi) alla lettura e all’informazione.

Gli italiani possono oggi riscoprire i libri. Io dunque sfido i dirigenti della televisione a dimostrare la loro buona fede e la loro buona volontà, attraverso un lancio della lettura e dei libri: lancio da non relegare però ai programmi culturali, alle trasmissioni privilegiate, ma da organizzare secondo le infallibili regole pubblicitarie che impongono di consumare.25

Le «proposte swiftiane»26 di Pasolini fotografano, pur nel loro estremismo, piuttosto fedelmente l’avversione degli intellettuali italiani nei confronti della televisione. Nel periodo paleotelevisivo letteratura e tv restano compartimenti stagni che non entrano in contatto.

Il quadro che si traccia in questi anni, dunque, è quello di una separazione di campi: la letteratura trascura la televisione; si occupa di ciò di cui la televisione non si occupa; cerca forme e modi di espressione che non possano essere tradotti in linguaggi televisivi.27

1.3 La neotelevisione (1975-1999)

Anche “neotelevisione” è un neologismo introdotto da Eco nell’articolo del gennaio 1983. Con questo termine Eco vuole indicare la televisione italiana dopo la fine del monopolio

24 PASOLINI 1973. 25 Ibidem.

26 Id. 1975.

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Rai e l’apertura alle reti private iniziata a metà degli anni Settanta e giunta a maturazione nei primi anni Ottanta: «Ora, con la moltiplicazione dei canali, con la privatizzazione, con l’avvento di nuove diavolerie elettroniche, viviamo nell’epoca della neotelevisione»28.

Le logiche che muovono la nuova televisione sono quelle del neoliberismo: la tv diviene un’industria che si muove in un libero mercato seguendone le logiche commerciali e concorrenziali. Il monopolio statale della Rai si conclude con l’arrivo delle reti private la cui proliferazione è favorita da una serie di vuoti legislativi.

Le apparecchiature di trasmissione hanno raggiunto a metà degli anni Settanta costi relativamente accessibili per gli investitori privati i quali però non possiedono apparati economici sufficienti per competere coi prodotti del servizio pubblico. Per ovviare a questa mancanza molte emittenti private iniziano a comprare i diritti di trasmissione di film e telefilm esteri limitando le spese di realizzazione dei contenuti. Si intensifica la produzione di programmi con un’alta capacità di intrattenimento, ma con prezzi di realizzazione contenuti. È questo il caso del talk show diventato uno dei generi più rappresentativi della neotelevisione.

I mutamenti della nuova televisione non passano solo attraverso il rinnovamento dei suoi contenuti, ma anche innumerevoli innovazioni tecniche come il telecomando, il televideo, il videoregistratore cambiano il modo di guardare la tv e i suoi programmi rendendo la fruizione più veloce e semplice.

Le reti commerciali incarnano il dinamismo di quegli anni e diventano lo specchio dei cambiamenti sociali italiani. La tv privata è stata una vera e propria rivoluzione nella storia del nostro Paese perché ha prodotto sconvolgimenti profondi nei gusti, nei costumi e nelle abitudini di tutti gli italiani. Il servizio pubblico ha continuato a essere una certezza nel panorama televisivo nazionale, ma ha si è adattato meno ai cambiamenti storici ed economici rimanendo troppo ancorata alla sua storia monopolistica. Le reti commerciali hanno avviato una nuova fase di sperimentazione formale e linguistica resa necessaria dalla iniziale scarsità di fondi. Questa fase di nuovo artigianato televisivo ha cambiato la televisione rendendola quella che oggi tutti conosciamo.

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Dopo un’iniziale resistenza all’erosione di pubblico avviata dal proliferare delle reti private, la Rai è stata costretta a inseguire le concorrenti adattandosi rapidamente ai modelli televisivi che le reti commerciali hanno reso dominanti.

1.3.1 Una legislazione manchevole

La fine del monopolio Rai e la diffusione delle reti private rendono evidente la profonda inadeguatezza della legislazione italiana in ambito televisivo. In Italia, nel periodo compreso tra i primi anni Settanta e i primi anni Novanta, non ci sono regole precise che disciplinino la trasmissione privata, per cui si assiste a una fase di crescita piuttosto disordinata. Fino agli anni Settanta le frequenze utilizzabili per le trasmissioni televisive via etere sono estremamente limitate per cui le poche disponibili sono concesse esclusivamente ai canali del servizio pubblico. Non potendo utilizzare alcuna frequenza le reti private sono costrette a sperimentare differenti metodi di propagazione che non intralcino quella della Rai. La prima rete privata ad aggirare questa limitazione trasmettendo via cavo è stata la rete dell’imprenditore comasco Giuseppe Sacchi che il 6 aprile del 1971 ha trasmesso il primo telegiornale della sua emittente Telebiella.

Il vuoto legislativo viene colmato nel 1974 con la Sentenza n. 226 della Corte Costituzionale che sancisce la legittimità di questo tipo di trasmissione. Due anni dopo una nuova sentenza della Corte Costituzionale stabilisce che è lecito l’utilizzo dell’etere a patto che ci si limiti a un ambito prettamente locale (Sentenza n. 202 del 1976).

1.3.2 L’ingresso di Berlusconi nel mercato televisivo

A partire dal 1978 si lancia nel mercato delle tv private locali anche l’imprenditore edile Silvio Berlusconi che con la sua holding Fininvest (fondata nel 1975) rileva al prezzo simbolico di una lira la fallimentare Telemilanocavo dall’editore Giacomo Properzj. Sotto la gestione della Fininvest il canale cambia nome diventando nel 1978 Telemilano 58 e nel 1980 Canale 5. Berlusconi intuisce il potenziale delle televisioni private e decide di potenziarne la copertura nazionale sfruttando la sentenza della Corte Costituzionale del 1976. La Fininvest inizia ad acquisire televisioni locali in tutta Italia riuscendo a coprire quasi tutto il territorio nazionale. Le diverse reti locali trasmettono

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via etere dei nastri preregistrati su cui vi è tutta la programmazione della giornata. In questo modo le varie emittenti regionali riescono a trasmettere lo stesso programma in tutta Italia pur rimanendo entro i limiti della legge.

1.3.3 La legittimazione delle reti private

Nel corso degli anni Ottanta la Fininvest acquisisce Italia 1 dell’editore Rusconi (1982) e Rete 4 dell’editore Arnoldo Mondadori (1984) creando di fatto un polo televisivo privato capace di competere alla pari col servizio pubblico. Le reti di Berlusconi trasmettono a livello nazionale, ma non sono ancora legittimate. A metà degli anni Ottanta arrivano quelli che passeranno alla storia come «decreti Berlusconi» promossi tra il 1984 e il 1985 dal governo Craxi I. Il primo è il decreto legge n. 694 del 20 ottobre 1984 che congela la situazione vigente finché non venga stabilita una normativa più adeguata.

Il 28 novembre dello stesso anno il governo presenta un altro decreto per salvare le reti di Berlusconi, ma viene bocciato dalla Camera perché incostituzionale. Il governo presenta allora il decreto denominato «Berlusconi bis» su cui è posta la fiducia per garantire l’approvazione parlamentare avvenuta il 4 febbraio del 1985. All’art. 3 co.1 del secondo decreto si legge: «Sino all’approvazione della legge generale sul sistema radiotelevisivo e comunque non oltre sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, è consentita la prosecuzione dell’attività delle singole emittenti radiotelevisive private con gli impianti di radiodiffusione già in funzione alla data del 1º ottobre 1984, fermo restando il divieto di determinare situazioni di incompatibilità con i pubblici servizi».

Il terzo e ultimo decreto denominato «Berlusconi ter» (decreto legge n. 223 del 1º giugno 1985) prolunga il regime transitorio del precedente decreto fino al 31 dicembre 1985, ma la scadenza è ampiamente rispettata in quanto viene convertito in legge il 2 agosto 1985.

Queste leggi hanno ancora un carattere provvisorio. Una regolamentazione definitiva arriva solo con la Legge Mammì del 1990 (legge 6 agosto 1990, n. 223) che stabilisce una volta per tutte i limiti e le libertà delle trasmissioni private.

La televisione italiana diviene un duopolio tra le tre reti Rai e le tre reti Fininvest (dal 1987 controllate dalla filiale Mediaset). Questa divisione produce diversi cambiamenti

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interni: ogni rete deve per legge trasmettere un telegiornale e per la prima volta dal 1954 la programmazione copre tutte le 24 ore del giorno.

1.3.4 Neotelevisione e pubblico

La logica commerciale e aggressiva della programmazione della neotelevisione porta a un profondo mutamento dei palinsesti e della programmazione televisiva italiana. Le reti del duopolio sono costrette a inseguire i loro spettatori cercando sia di assecondarne i gusti e sia di fornirgliene di nuovi. Il servizio pubblico è costretto ad adeguarsi al nuovo panorama televisivo abbandonando la generale tendenza pedagogica che aveva dominato la programmazione Rai dei decenni precedenti per privilegiare un intrattenimento più disteso e meno didascalico.

L’attenzione allo spettatore è un’altra delle novità della neotelevisione. I programmi più rappresentativi di questa fase della tv sono i talk show che pongono al centro della loro narrazione quella «gente comune» in cui il singolo spettatore può riconoscere un proprio riflesso. La neotv abbandona inoltre il distacco formale che aveva avuto in precedenza la comunicazione televisiva per instaurare un contatto più diretto e familiare con il proprio pubblico.

La caratteristica principale della Neo Tv è che essa sempre meno parla del mondo esterno. Essa parla di se stessa e del contatto che sta stabilendo col proprio pubblico. Non importa cosa dica o di cosa parli (anche perché il pubblico col telecomando decide quando lasciarla parlare e quando passare su un altro canale). Essa, per sopravvivere a questo potere di commutazione, cerca di trattenere lo spettatore dicendogli: «Io sono qui, io sono io, e io sono te».29

Se la paleotv vedeva il pubblico come una moltitudine da istruire, la neotv lo vede come una schiera di potenziali compratori da educare al consumo. Gli spettatori diventano dei contatti da vendere agli inserzionisti pubblicitari:

La novità più sconvolgente della televisione commerciale è che a un certo momento ci si accorge che essa non vende più programmi, ma pubblico. Prima la Rai, nel bene o nel male, cercava di immaginare e di costruire dei programmi per i suoi spettatori e di esprimere una «politica culturale»; era, come da statuto, un servizio pubblico.

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Ora l’interlocutore principale della televisione diventa lo sponsor, per il quale si creano dei programmi che possano catturare il numero più alto di «contatti». In questo modo, la logica dei programmi di intrattenimento diventa la logica della televisione nel suo complesso. 30

La nuova televisione rappresenta un’Italia che va cambiando, un’Italia che vuole dimenticare sia le ristrettezze economiche del dopoguerra e dell’austerity, sia le tensioni politiche degli anni di piombo per gettarsi a capofitto nel consumo e nel benessere. La tv da un lato diventa il testimone di questo cambiamento rendendolo visibile a tutti, ma dall’altro lato è essa stessa che lo crea proponendo agli spettatori modelli comportamentali ed economici nuovi e accattivanti.

Pochi periodi della storia del Novecento raggrumano – in un lasso di tempo tutto sommato breve – tanti elementi di cambiamento. I media sono, in questo caso, testimoni e insieme agenti non secondari della transizione: i tv-color e il telecomando, l’approdo definitivo al consumismo e l’avvento dei network commerciali accompagnano il paese dall’austerity alla gioiosa spettacolarizzazione degli stili di vita, del quotidiano, dei brand.31

La vendita di porzioni di pubblico agli inserzionisti, l’educazione al consumo hanno trasformato lo spettatore in un prodotto, in un «ostaggio» della televisione e delle pubblicità. Il livello culturale e contenutistico della neotelevisione tende a un abbassamento che mira a ridurre gli spettatori-consumatori in macrofasce a cui sottoporre prodotti diversi a seconda degli orari. La neotv propone nuovi modelli comportamentali a cui adeguarsi e in cui riconoscersi come parte di un organismo più grande e compatto. L’intrattenimento leggero, il disimpegno culturale e informativo sono diventati i modelli dominanti nella televisione dagli anni Ottanta fino a oggi.

Una volta si diceva che il cliente ha sempre ragione. Oggi bisogna dire che i clienti, i telespettatori, sono gli ostaggi (i target) delle campagne pubblicitarie televisive – campagne di cui la televisione ha bisogno per sopravvivere e che la spingono a elaborare e ad attuare le sue tecniche manipolative in maniera sempre più onnipervasiva ed efficace, senza intervalli, ventiquattro ore su ventiquattro. Per essere prevedibile e malleabile, e ottenere un consumo quantitativamente sempre più ingente, il comportamento dei consumatori deve essere amalgamato e appiattito al livello minimo. La scarsa qualità delle trasmissioni televisive e la riduzione della

30 GRASSO 1992, p. 24. 31 SCAGLIONI 2013, p. 337.

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stessa televisione a “televisione-spazzatura” non hanno nulla di diabolico. Non sono spiegabili in termini biecamente cospiratori. Si tratta di una semplice esigenza funzionale.32

1.3.5 Il talk show

«Il talk show è il prodotto tipico della neotelevisione e neogenere per eccellenza»33 e in esso si riconosce una delle principali innovazioni della nuova televisione. Il primo talk show italiano Bontà loro è nato da un’idea di Angelo Guglielmi, condotto da Maurizio Costanzo e trasmesso su Rai1 tra il 1976 e il 1978. Le reti commerciali, come già detto, non avevano apparati economici paragonabili a quelli del servizio pubblico per cui la necessità dei produttori era quella di creare intrattenimento mantenendo bassi i costi. Il talk show nasce da queste esigenze economiche e diviene nel giro di qualche anno il prodotto di punta della neotv commerciale.

I talk show del servizio pubblico tendevano ad avere un’impostazione più culturale, ma nel riproporli sulle proprie frequenze le reti private abbandonano i modelli istruttivi per privilegiare una narrazione dal basso che ponga al centro quella «gente comune» che tanto affascina gli spettatori. I nuovi protagonisti dei talk show delle reti commerciali sono persone ordinarie, sono «ospiti che cercano nella platea televisiva un riscatto sociale, un certificato di esistenza»34. Il più importante dei talk show italiani è senza dubbio il Maurizio Costanzo show andato in onda su Canale 5 dal 1985 al 2009 e poi riproposto nel 2015 e ancora in produzione. Il programma e il conduttore che gli dà il nome sono diventati il simbolo stesso del talk show in Italia.

Un discreto successo hanno anche i talk show che pongono al centro del programma la chiacchiera da bar soprattutto se si parla di sport: un esempio su tutti è Il processo del lunedì condotto da Aldo Biscardi a partire dal 1980. Un’altra declinazione di questo tipo di programma è il cosiddetto «talk-rissa» che pone a confronto ospiti con opinioni contrastanti proprio con lo scopo di far alzare i toni e gli ascolti. Tra i talk-rissa si ricordano soprattutto Torti in faccia (1980-1983) e Abboccaperta (1984-1987) entrambi condotti da Gianfranco Funari su Telemontecarlo.

32 FERRAROTTI 2005, pp. 97-98. 33 GRASSO 2000, p. 84.

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Il successo del talk show è garantito sia dalla vicinanza tra ospiti e pubblico, sia dalla sua grande capacità di creare una narrazione in grado di coinvolgere.

Il talk show è un centro di potere o, meglio, è una formidabile macchina narrativa che produce storie a basso costo (appetite dai pubblicitari) e insieme instaura una forma di controllo sulla vita delle istituzioni come nessun’altra trasmissione televisiva riesce a fare.35

1.3.6 Gli intellettuali e la neotelevisione

Negli anni Settanta la televisione è ormai diventata una parte imprescindibile della vita del nostro Paese. Qualunque intellettuale che voglia confrontarsi con la realtà italiana deve necessariamente fare i conti con il mezzo televisivo e la torre d’avorio in cui buona parte degli intellettuali si è chiusa per quasi due decenni crolla di fronte alla persuasività del medium.

Finalmente, dopo molti sorrisi di sufficienza ed espressioni sull’imbecillità del genere umano anche gli intellettuali italiani si sono accorti della televisione. Con lo stesso ritardo, pressappoco, con cui si erano accorti del progresso tecnico, nelle grandi fabbriche, conseguente all’ultima rivoluzione industriale.36

I primi assalti al monopolio della Rai si registrano a metà degli anni Settanta, ma solo nei primi anni Ottanta con le reti della Fininvest si arriverà al duopolio che resiste ancora oggi. In pochi anni la televisione viene rivoluzionata completamente e con essa vengono sconvolte anche le abitudini e il sistema di valori di milioni di italiani. In questa fase, come nella precedente, non è possibile stabilire una linea univoca che unisca tutti gli intellettuali sotto una stessa bandiera infatti le opinioni dell’intellighenzia italiana e internazionale restano assai diverse e contrastanti.

Molti autori lavorano direttamente in televisione potendo contribuire alla realizzazione di programmi di un buon livello culturale come Match iniziato nel 1977 e condotto da Alberto Arbasino, oppure Sotto il divano presentato da Adriana Asti a partire dal 1979. Nel 1987 Angelo Guglielmi viene nominato direttore di Rai 3 e inizia a trasformare il

35 GRASSO 2000, p. 83. 36 FERRAROTTI 2005, p. 78.

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terzo canale introducendo programmi memorabili come Samarcanda presentato da Michele Santoro 1992), Blob (dal 1989), Telefono giallo di Corrado Augias (1987-1992), Quelli che il calcio (dal 1993), Chi l'ha visto? (dal 1989) e Un giorno in pretura (dal 1988).

Molti intellettuali hanno collaborato con il servizio pubblico tra di essi va ricordato Umberto Eco il quale rivela le posizioni opposte che hanno contraddistinto il dibattito intellettuale italiano attorno alla paleotv nella raccolta di saggi Apocalittici e integrati del 1964. Eco è stato molto attento anche alle trasformazioni culturali e linguistiche che la tv ha prodotto, celebre è il suo saggio La fenomenologia di Mike Bongiorno contenuto in Diario minimo del 1963.

Malgrado i primi segnali di apertura fatta al mezzo molti intellettuali continuano ad avversare la televisione. Uno dei più autorevoli tra loro è senza dubbio Karl Popper che nel 1994 pubblica un saggio intitolato significativamente Cattiva maestra televisione. Popper pone attenzione sulle responsabilità della tv nell’educazione dei telespettatori più esposti: i bambini. L’autore nota come la qualità dei contenuti della televisione sia andata abbassandosi sempre di più nel corso dei decenni e individua una delle principali cause di questa trasformazione nella competizione tra emittenti: «Vi sono troppe stazioni emittenti in competizione. Per che cosa competono? Ovviamente per accaparrarsi i telespettatori e non competono, mi si lasci dire così, per un fine educativo»37. Le reti private devono competere tra loro per poter sopravvivere sul mercato televisivo e per farlo hanno la necessità di attirare il maggior numero di spettatori: «Si offrono all’audience livelli di produzione sempre peggiori che l’audience accetta purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, che sono per lo più rappresentati dalla violenza, dal sesso e dal sensazionalismo. Il fatto è che più si impiega questo genere di spezie e più si educa la gente a richiederne»38. La proposta di Popper è dunque l’introduzione di «una patente, una licenza, un brevetto»39 da far prendere a produttori, inserzionisti e persino

cameraman dopo un apposito corso di formazione con tanto di esame finale. La proposta di Popper è irrealizzabile, ma fotografa bene il pensiero di una parte degli intellettuali.

1.3.7 I linguaggi televisivi

37 POPPER 1994, p. 71. 38 Ivi, p. 73.

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Uno dei modi in cui gli intellettuali hanno iniziato ad aprirsi al mondo della televisione è stato attraverso il linguaggio nuovo che il medium ha diffuso. La tv utilizza un linguaggio proprio che col tempo ha iniziato a diffondersi anche tra i telespettatori diventando di fatto una nuova lingua che si contrappone sia ai registri alti sia a quelli colloquiali. Quello televisivo è un linguaggio intermedio che supera la divisione tra formale e informale. La letteratura, da sempre sensibile ai mutamenti del linguaggio, non è rimasta indifferente a questa trasformazione. Uno dei più significativi contatti tra televisione e letteratura si consuma negli anni Novanta quando sulla scena letteraria si affacciano una serie di giovani autori cresciuti ascoltando e imparando questo nuovo linguaggio ibrido. Questi autori sono detti “cannibali”. Il nome del gruppo deriva dal titolo di un’antologia di racconti curata da Daniele Brolli e pubblicata dalla Einaudi nel 1996: Gioventù cannibale. Tra gli autori si ricordano Niccolò Ammaniti, Enrico Brizzi, Aldo Nove e Tiziano Scarpa.

Si è affacciata sulla scena letteraria una generazione di autori nati tra la metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta, la prima cresciuta con la tv commerciale: i cartoni animati giapponesi, i telefilm americani, i programmi ironici di seconda serata. Una generazione incapace di immaginare un mondo senza tv, la cui identità, debole in assenza di grandi eventi sociali, ha trovato proprio nei consumi pop dell’infanzia/adolescenza un tessuto comune sul quale appuntare la propria presenza nel tempo e le coordinate per ritrovarsi. Sono spettatori che hanno sviluppato competenze tecniche e una conoscenza profonda del sistema televisivo in modo del tutto naturale.40

I cannibali sono i primi autori italiani che utilizzano nei loro testi tutta l’enciclopedia pop creata dalla televisione. Della televisione prendono tutto: linguaggio, immagini, stereotipi e comportamenti facendoli confluire nella propria narrazione. La lingua standard e impersonale della televisione diviene quella dominante, il ritmo della scrittura accelera rivelando i propri debiti con la musica pop e con i videoclip, la violenza (soprattutto quella fine a se stessa) diviene parte integrante della narrazione, la profondità psicologica dei personaggi si assottiglia diventando superficiale.

Se dunque sul piano linguistico la nuova narrativa si caratterizza per il costante confronto e recupero dei linguaggi audiovisivi della contemporaneità, sul piano

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contenutistico la televisione viene perlopiù a rappresentare il simbolo del disfacimento delle relazioni sociali, di un’umanità alienata o, più semplicemente, di una quotidianità che si rifugge.41

Il cannibale che più consapevolmente ha inserito la televisione e i suoi effetti nella propria narrazione è senza dubbio Aldo Nove. Nella sua raccolta Woobinda del 1996 e nella ristampa corretta e ampliata del 1998 Superwoobinda Nove utilizza il libro come uno schermo e i racconti come i frammenti di storie colti durante un continuo zapping. I personaggi dei racconti di Nove sono giovani cresciuti con la tv sempre accesa e da essa hanno preso schemi comportamentali, pensieri e desideri. La televisione è il terreno comune, il bagaglio esperienziale di personaggi assai diversi tra loro. L’enciclopedia pop della tv è il risultato della sua influenza e della continua esposizione a cui sono sottoposti gli spettatori, specie i giovani. Nei suoi racconti Nove non stabilisce una distanza coi personaggi, non indugia in giudizi morali, ma descrive le loro esperienze spingendo la narrazione fino al paradosso, fino all’estremo per farne esplodere le contraddizioni.

Anche un autore meno giovane come Luca Doninelli si confronta con la nuova televisione ma ponendosi in una posizioni diversa rispetto ai cannibali. Doninelli porta la televisione nella sua scrittura ma non ne condivide i linguaggi, né l’immaginario, ma anzi sono proprio questi a diventare il bersaglio del suo giudizio. L’autore pone al centro del racconto uno dei programmi più legati alla fase neotelevisiva italiana: il talk show e lo analizza studiandolo in tutte le sue parti. La messa in luce delle contraddizioni del programma mira a sottolineare quelle della televisione nella sua interezza.

1.4 La transtelevisione (1999-anni 2000)

Diverse innovazioni tecniche e distributive hanno permesso alla televisione di uscire dal periodo neotelevisivo per approdare a una nuova fase molto più veloce e dinamica: la transtelevisione. Questo nuovo termine «vuole fotografare il senso di una tv sempre più multicanale ed “estesa”» 42 che prevede l’abbattimento degli steccati rigidi che separano

i vari generi televisivi e la presenza sempre più attiva del pubblico «che diventa spesso protagonista dei programmi»43.

41 GRASSO 2001, p. 713. 42 PANARARI 2013, p. 239. 43 PANARARI 2013, p. 239.

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Questa fase coincide in larga parte col processo che ha portato al divorzio tra la televisione e il televisore. Questa separazione è stata resa possibile dalla conversione in digitale del segnale analogico televisivo. La digitalità rende molto più versatile la tv che diviene fruibile in tempi e modi completamente nuovi. Le offerte on demand e lo streaming hanno rivoluzionato il modo di guardare la televisione permettendo a ciascuno spettatore di creare il proprio palinsesto personale. La rivoluzione di questa fase non si esaurisce nella multicanalità e nel rinnovamento tecnico della tv, ma si ritrova nelle sue trasformazioni contenutistiche e realizzative. Il pubblico smette di essere solo un alunno da istruire o un consumatore da persuadere e diviene attore, parte integrante della realizzazione televisiva. Per capire questa trasformazione sarà utile analizzare i due generi transtelevisivi per antonomasia: il reality show e il talent show (che del reality è una diversa declinazione).

1.4.1 Il Grande Fratello ovvero il reality show

Il primo reality show è stato il Grande Fratello, un format creato nel 1997 dagli olandesi John De Mol e Paul Römer e diventato la sineddoche del genere stesso. In Italia la prima edizione del Grande Fratello risale al 2000 segnando un successo che si protrarrà in diverse declinazioni nei decenni successivi.

Da un punto di vista antropologico, c’è da considerare fattore essenziale: il reality show cerca di traghettare storie di gente comune, di farle uscire dall’anonimato in cui generalmente vivacchiano, di portarle alla ribalta del video e farle esplodere. Ovviamente non lo fa – come qualche trasmissione ha provato a farci credere – per senso filantropico, né ricorrendo a quelle strutture narrative consolatorie che garantivano la fortuna del romanzo ottocentesco.

Lo fa invece per qualcosa di molto più pratico. Come la cosiddetta “gente comune” si trasforma in personaggio? Spogliandosi della propria identità e accettandone una nuova, ridefinita dalle regole della televisione. La televisione moderna non cerca nello spettatore l’individuo, cerca semmai il suo individualismo, quella forza, cioè, che lo può spingere a uscire dall’oblio.44

Il Grande Fratello ha contribuito a inaugurare la stagione della partecipazione del pubblico alla realtà televisiva. Gli spettatori sono chiamati a partecipare sia come

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concorrenti, sia come giudici popolari che attraverso il televoto influenzano l’andamento del programma. Il Grande Fratello ha rappresentato per la tv anche un profondo rinnovamento linguistico raccogliendo l’eredità della tv-verità. La realtà, o meglio la normalità, viene elevata a rango di spettacolo trasformandosi in intrattenimento. Il reality si configura come una cerimonia di iniziazione che porta un gruppo di sconosciuti ai fasti della celebrità.

Il Grande Fratello è uno dei primi esempi italiani di multicanalità: attraverso la pay tv prima e il web dopo diventa possibile seguire i concorrenti 24 ore su 24; talk show e giornali discutono dell’andamento del programma. A ogni tipologia di pubblico corrisponde un mezzo di fruizione del prodotto transtelevisivo.

Il GF è un processo mediatico complesso quanto un mosaico, che ibrida media (da Internet alla radio, dai giornali al telefonino), accumula e mescola linguaggi e generi televisivi, suscita le più difformi parodie, produce notizie, titoli, servizi, commenti racconti paralleli, psicodrammi collettivi. Più interessante come processo e come generatore di discorso che come prodotto, a volte noioso, come sa essere noioso il quotidiano, soggiogato dalle miserie delle nostre storie individuali, ma spesso avvincente, quasi seguisse un copione scritto da una mano antica e sapiente.45

Il Grande Fratello è stato l’apripista per una serie di altri reality show come L’isola dei famosi, La fattoria, Super Circus solo per citarne alcuni. Per tutto il primo decennio del Duemila il reality show sembrava essere il genere destinato a dominare tutti i palinsesti. Ma le diverse declinazioni del format non hanno fermato l’emorragia di ascolti per cui si è reso necessario un rinnovamento che andasse incontro ai gusti del pubblico. Questo rinnovo è avvenuto con la nascita di un sottogenere del reality: il talent show.

1.4.2 Il talent show

La nascita del talent coincide con quella del programma britannico Pop Idol ideato dal produttore discografico Simon Fuller e andato in onda dal 2001 al 2003. Negli anni successivi questo nuovo genere registra una proliferazione tale da scalzare i reality show sancendone la quasi definitiva scomparsa dai palinsesti televisivi. Questo superamento è garantito dal fatto che il talent show non è che una diversa declinazione del reality. Col

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genere da cui deriva condivide le premesse, ma si differenzia nella realizzazione. Talent show e reality show coincidono nell’obiettivo finale che è quello di sottoporre all’attenzione e al giudizio collettivo un gruppo di sconosciuti. La differenza sostanziale tra i due programmi è nella natura dei concorrenti che non sono più lo specchio indifferenziato del pubblico, ma rappresentano l’eccezionalità, il talento che dà nome al genere. I talentuosi concorrenti devono affrontare nel corso della trasmissione una serie di sfide e di esibizioni che servono alla giuria televisiva e al pubblico a casa a decretare un vincitore il quale ottiene in premio una somma di denaro e un contratto lavorativo nell’ambito in cui ha dimostrato competenza. Il talent si prefigura come un lungo colloquio di lavoro che spettacolarizza la fase di selezione del futuro professionista. Il successo del talent non è decretato tanto dal meccanismo meritocratico che sottende, ma dalla capacità della trasmissione di produrre spettacolo attraverso le esibizioni singole o di gruppo. La componente agonistica viene esaltata diventando il momento di massima tensione narrativa del programma.

La partecipazione del pubblico è garantita dalla multicanalità avviata dal reality e che nel talent trova il suo apice. Televisione, siti web, social network e persino gadget delle trasmissioni diventano per il pubblico occasioni di partecipazione all’evento mediatico.

Il talent è stato declinato in innumerevoli forme mettendo in scena cantanti, ballerini, cuochi, imprenditori e persino pornoattori (Brazzers House). Il successo deriva dall’abbattimento dal dinamismo del programma che annulla i tempi morti tipici del reality esaltando la componente ludica e agonistica riuscendo così a coinvolgere attivamente lo spettatore.

Se Maurizio Costanzo è il simbolo stesso del talk show in Italia, sua moglie Maria De Filippi è diventata quello del talent show. Con una conduzione misurata e un po’ robotica Maria De Filippi ha portato il talent al successo facendolo diventare uno dei prodotti di punta della transtelevisione.

A un certo punto negli anni Zero, il talent show ha strappato al reality lo scettro di genere televisivo dominante e contemporaneo. Deus ex machina del genere è stata Maria De Filippi, non solo dominatrice di talenti in erba, ma vera e propria Flaubert di una moderna educazione sentimentale. Con Amici, non solo ha insegnato agli adolescenti a fare piroette e vocalizzi, ma anche a esprimere i propri sentimenti fornendo loro un nuovo vocabolario e una nuova sintassi comportamentale.46

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1.4.3 Tv e convergenza

Gli anni della transtelevisione coincidono con la nascita di quella che Henry Jenkins chiama convergenza:

Per “convergenza” intendo il flusso dei contenuti su più piattaforme, la cooperazione tra più settori dell’industria dei media e il migrare del pubblico alla ricerca continua di nuove esperienze di intrattenimento. “Convergenza” è una parola che tenta di descrivere i cambiamenti sociali, culturali, industriali e tecnologici portati da chi comunica.47

Le possibilità offerte dai nuovi mezzi di comunicazione e dalle innovazioni tecniche hanno permesso alla televisione di trasformarsi. Ma con la transtv anche il pubblico è cambiato. La televisione ha dovuto ampliare l’offerta e accelerare i tempi di produzione per poter coinvolgere sempre più larghe porzioni di spettatori. La convergenza ha rivoluzionato il peso dello spettatore e gli ha fornito nuovi strumenti di visione. L’esposizione ai media non si limita al lasso di tempo che lo spettatore passa davanti al televisore, ma si amplia a dismisura garantendo al pubblico la possibilità di seguire la programmazione in tempi e modi che erano inimmaginabili fino a qualche anno fa. Internet soprattutto ha permesso questo irrobustimento del potenziale dello spettatore garantendo un contatto tra il microcosmo del singolo individuo e il macrocosmo globale.

1.4.4 Intellettuali e transtelevisione

Dopo le aperture avviate nei decenni precedenti la letteratura è diventata più permeabile alla tv. Il medium diviene oggetto di rappresentazione per molti autori che si sono concentrati nella descrizione dei due programmi principali della transtelevisione: il reality e il talent.

La lezione avviata dai cannibali negli anni Novanta non trova una sua naturale continuazione anche nel decennio successivo perché «il linguaggio visivo o la contaminazione postmoderna di alto e basso, l’utilizzo dei brand in chiave identitaria sono

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tutti elementi dati per acquisiti e scontati, in qualche modo esausti»48. Le caratteristiche della scrittura dei cannibali sono insufficienti a una narrativa che non voglia solo imitare i linguaggi televisivi, ma che voglia rappresentarne le trasformazioni profonde.

La televisione entra nella narrativa italiana più recente non attraverso il linguaggio, ma attraverso l’analisi della realizzazione televisiva. Si moltiplicano casi di autori che descrivono e ambientano le loro storie dietro le quinte di programmi televisivi (in questa tesi lo fanno sia Mauro Covacich, sia Walter Siti). Dall’effetto della tv sui personaggi si passa a seguire le storie di personaggi che partecipano direttamente alla realizzazione televisiva come fanno autori come Teresa Ciabatti nel romanzo I giorni felici (2008) e Carlo D’Amicis con La battuta perfetta (2010).

Lo spostamento del punto d’osservazione dei narratori italiani rende chiara la necessità di spiare i meccanismi che governano non solo la realizzazione dei singoli programmi, ma quelli ben più complessi della macchina del consenso che la tv è diventata negli anni.

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2.1 Storia di una concorrenza

Per poter osservare l’influenza della televisione sulla narrativa contemporanea italiana ho scelto di analizzare tre testi che fanno diretto ed esplicito riferimento al medium. I romanzi che si esamineranno sono Talk show (1996) di Luca Doninelli, Fiona (2005) di Mauro Covacich e Troppi paradisi (2006) di Walter Siti. La pubblicazione di questi testi è avvenuta in un arco temporale che va dal 1996 al 2006, un decennio ricco di cambiamenti per la televisione italiana. Infatti, facendo riferimento alla periodizzazione stabilita nel capitolo precedente, si può notare come questi siano gli anni del passaggio dalla neotelevisione alla transtelevisione. La multimedialità garantita dalla digitalizzazione del segnale televisivo ha reso i programmi tv molto più trasversali e facilmente accessibili per il pubblico.

Per quanto sia flessibile e adattabile al mutare dei tempi, la tv inizia a mostrare i primi segni di invecchiamento cominciando a perdere la centralità che aveva solo qualche decennio fa nelle vite di tutti gli italiani. Questo non significa che la televisione stia

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andando incontro a un eclissamento o a una sparizione. La tv gode di ottima salute tanto da diventare, oggi più che mai, oggetto di rappresentazione di artisti e scrittori.

La presenza della tv nella narrativa contemporanea italiana si è fatta molto densa negli ultimi anni. Questo si spiega con l’importanza che la tv ha avuto in Italia. Da noi il medium ha contribuito più che in altri contesti nazionali a formare il profilo sociale e culturale del Paese: «Liberiamoci del luogo comune secondo cui “non si può attribuire ogni colpa alla televisione”: in Italia, è quasi sempre responsabilità della televisione»49.

Gli scrittori italiani si sono accorti con ritardo del potenziale della tv e la fitta penetrazione del medium nelle loro opere rappresenta la volontà di addentrarsi in quei terreni narrativi ed espressivi troppo a lungo rimasti inesplorati. I linguaggi, i tempi e le logiche della televisione sono penetrati sempre più profondamente nel tessuto connettivo della letteratura italiana diventandone parte integrante e imprescindibile.

Secondo Fabio Guarnaccia tra televisione e letteratura si è consumata (e si consuma tuttora) una vera e propria guerra che ha prodotto come risultato la sconfitta inequivocabile della letteratura e la vittoria culturale ed educativa della tv:

La tv ha vinto. Il grande sogno delle élite culturali di educare il popolo attraverso i mezzi di comunicazione di massa appare oggi per quello che era: un enorme fraintendimento. [...] Gli intellettuali e scrittori italiani, orfani di Gramsci e Pasolini, devono arrendersi alla tv e alla sua ubiqua presenza. […] La battaglia culturale contro di essa non finirà mai, ma la guerra è persa.50

Uno dei principali scopi di questa analisi è dimostrare come tra televisione e letteratura non si stia consumando alcuna guerra, ma piuttosto una penetrazione che fino a qualche decennio fa appariva assai improbabile. I due mondi hanno smesso di essere compartimenti stagni. Questo contatto non si traduce necessariamente in un’accettazione totale delle dinamiche e delle influenze del medium. Sia il romanzo di Doninelli sia quello di Covacich avversano piuttosto ferocemente il mondo creato dalla televisione. Il contatto tra i due mondi avviene, invece, attraverso l’accettazione dell’ingombrante presenza della tv nel nostro tempo.

Vorrei perciò dimostrare che quando si parla del complesso rapporto tra tv e letteratura conviene abbandonare il vocabolario bellico per adottarne uno di stampo liberista: i due

49 DONNARUMMA 2013, p. 45. 50 GUARNACCIA 2013, p. 181.

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mondi infatti non sono in guerra, ma in concorrenza tra loro. Ma per cosa concorrono esattamente? Essi si fronteggiano sul terreno della narrazione e dell’intrattenimento. Tv e letteratura sono accomunati dalle finalità e questa loro analogia li avvicina. Fin dai suoi esordi la televisione ha sfruttato la letteratura per produrre intrattenimento, mentre soltanto recentemente la letteratura ha iniziato a fare lo stesso sfruttando il potenziale narrativo offerto dalla tv. I testi scelti sono tre tentativi di rappresentare la realtà televisiva attraverso la descrizione dei meccanismi che ne regolano i tempi e le dinamiche. Tramite il racconto della realtà alterata e ricomposta messa in scena dalla tv i tre autori riescono a riprodurre e a sondare la «realtà reale».

La competizione tra tv e scrittura non ha prodotto né una guerra, né un vincitore, ma ha creato soltanto una serie di nuovi modi di narrare la realtà e il nostro tempo.

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Chi conduce un programma è il prete del villaggio «blobale». 51

3.1 Luca Doninelli, spettatore e autore

Luca Doninelli è nato a Leno in provincia di Brescia nel 1956. Ha studiato filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano laureandosi con una tesi su Michel Foucault. Ha iniziato a lavorare come insegnante in vari istituti superiori affiancando a questa carriera quelle di narratore, di critico letterario e teatrale scrivendo su varie testate tra cui «Il Sabato», «Tempi», «Avvenire», «Il Giornale». Attualmente è consigliere d’amministrazione dell’Ente Teatrale Italiano, membro del comitato scientifico del Centro Culturale di Milano e direttore della scuola di scrittura Flannery O’Connor di Milano.

Il suo esordio narrativo è avvenuto nel 1990 con la pubblicazione presso Rizzoli del libro I due fratelli composto da due romanzi brevi: I due fratelli e Il luogotenente. Nel 1992 ha pubblicato per Garzanti il romanzo La revoca con cui vince il premio Città di Catanzaro e il Premio Napoli. Nel 1994 la sua raccolta di racconti Le decorose memorie si aggiudica il Premio Grinzane Cavour. Nel 1996 ha pubblicato il romanzo breve Talk show, e dopo tre anni, nel 1999, ha dato alle stampe il romanzo La nuova era. Del 2001 è La mano da cui trae una pièce teatrale messa in scena dal Teatro delle Albe di Ravenna.

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