• Non ci sono risultati.

I luoghi onirici, luoghi televisivi

Nel documento Schermi di carta (pagine 76-78)

4.4 Sandro, padre e sognatore

4.4.2 I luoghi onirici, luoghi televisivi

I simboli onirici di cui Covacich dissemina i sogni di Sandro, non si limitano a Maura e Fiona, ma simbolici diventano anche i luoghi in cui si svolgono: «finiamo nel soggiorno di Habitat. Ogni cosa è pulita e profumata. Nessuna traccia dei concorrenti» [F 29]; «La platea è un mantello di poltrone scarlatte punteggiata da sei donne vestite di nero. Riconosco subito il posto, ho visto mille volte quest’immagine. Solo che adesso ci sono dentro, sto camminando dentro l’immagine del teatro Dubrovka di Mosca dopo l’attentato sventato delle kamikaze cecene»71 [F 79]; «Stiamo scomodi, su un divanetto anatomico dei più appartati, in questo che ha tutta l'aria di essere l’atrio di un multiplex. Non c'è anima viva. [...] Solo Fiona. [...] Resiste minuscola nella cubatura sterminata dell’atrio, guardando i trenta forse quaranta maxischermi appesi alle gabbie di tubi Innocenti che scendono dal soffitto» [F 115]. Questi luoghi fanno parte dell’immaginario collettivo forgiato dalla televisione, sono tre regni dell’immagine che rappresentano tre forme ben consolidate di intrattenimento. La casa di Habitat è il centro, il nocciolo della produzione di immagini, in cui Sandro e Fiona hanno un ruolo passivo, si limitano a ciondolare, proprio come fanno i concorrenti del programma, in una continua esaltazione dei tempi morti, in cui anche l’attesa diviene spettacolo.

Il teatro Dubrovka è un luogo «visto mille volte», ma solo attraverso lo schermo del televisore: è il teatro di una tragedia lontana che torna alla sua primigenia funzione ospitando sulle assi del suo palcoscenico uno spettacolo. Maura danza senza musica, nel silenzio, ma la sua prova continua, senza pause, malgrado le poltrone siano affollate dalle sequestratrici morte. Covacich mostra uno degli effetti più perniciosi della televisione che opera una spettacolarizzazione della morte e della tragedia umana svuotandole della loro realtà e trasformandole un semplice spettacolo, da fruire passivamente come una qualsiasi rappresentazione. L’assenza di musica equivale all’assenza di aderenza e di incisività delle immagini sul quotidiano. La Storia non ha voce in tv, solo le immagini contano. La

71 Si fa riferimento alla crisi del teatro Dubrovka nella quale, tra il 23 e il 26 ottobre 2002, vennero sequestrati e tenuti in ostaggio circa 850 civili a opera di un gruppo armato di separatisti ceceni.

77

Storia non interviene nel sogno perché non incide nella personalità del protagonista: in lui si configura come un set, un’immagine da riempire con gli attori della fantasia. Privata del suo valore, ridotta a mero spettacolo d’intrattenimento, la Storia si trova marginalizzata sempre di più nel mondo televisivo a vantaggio di prodotti scadenti che distraggano e allontanino dal reale. Basta cambiare canale e la realtà, con le sue storture, trova una pacificazione sintetica.

Emerge così uno dei miti più diffusi nell’immaginario postmoderno sulla televisione, sebbene le sue origini siano profondamente moderniste: quello della fine dell’esperienza. Il mondo sfugge, ogni cosa è ridotta a spettacolo, l’estetizzazione diffusa è un’anestetizzazione complessiva, la vita reale si consuma sotto la luce del sopramondo televisivo che ne rivela la miseria. […] È, insomma, la fine della Storia, l’impressione non che ci sia uno sciopero degli eventi ma che, qualunque cosa accada, venga neutralizzata in visione confusa, stordita, onirica72.

L’apoteosi dell’immagine si raggiunge nel terzo luogo onirico analizzato: il multiplex e la proliferazione degli schermi. La televisione potenzia la nostra capacità di vedere, potenziando i nostri sensi all’infinito, facendoci vedere ciò che mai potremmo vedere altrimenti.

Questo è un altro appeal della televisione, il fatto di potenziare i nostri sensi: gli infrarossi ti fanno vedere al buio, le fibre ottiche ti immettono nell’infinitamente piccolo, il rallentatore ti offre i successivi stadi di un processo che per le contrazioni del nostro cristallino sarebbe troppo veloce. E poi le angolature impossibili, e la simultaneità: vedere contemporaneamente la pallina che parte dalla racchetta e la smorfia del tennista che riceve, l’azione traguardata dal punto di vista del canestro, o le braccia del ranista che si divaricano sott’acqua73.

Lo spettacolo della realtà è potenziato al punto da risultarne stravolto. La realtà è resa nuova, quasi irriconoscibile dalla incredibile vicinanza dell’osservazione. Sugli schermi è proiettato il rapporto sessuale che si sta consumando tra Sandro e Maura, ma una visione tanto ingigantita finisce per nascondere e vanificare il senso e la profonda umanità dell’amplesso. La realtà è tanto forte e pregnante da perdere il suo gradiente di funzionalità, diventando fine a se stessa. L’immagine non nasconde direttamente la verità, ma la distorce e la trasforma mostrandola troppo da vicino. Le immagini proiettate sui

72 DONNARUMMA 2013. pp. 56-57. 73 SITI 2014, p. 694.

78

«trenta forse quaranta maxischermi» mortificano la realtà forzandola, violando l’intimità di qualsiasi sua manifestazione, in una ossessiva riduzione al visibile. La televisione ci ha abituati a questa proliferazione delle immagini in cui tutto ciò che esiste può e deve essere registrato, in cui l’intimità viene distrutta in nome di una funzione testimoniale che priva la realtà della sua verità, in un trionfo sprezzante della tecnica sull’umanità. Sugli schermi, la penetrazione sessuale degenera nella sua essenza puramente meccanica e anatomica, e mostra come le immagini applichino una riduzione delle cose alla loro essenza più apparente e corporea. La televisione ha generalizzato questa tendenza svilente delle immagini, creando in noi il desiderio e la necessità di guardare; da questa osservazione non riusciamo a estrarre un succo significativo, ma nutriamo solo il nostro desiderio di guardare ancora, avviando un circolo vizioso inesauribile.

Il vuoto della realtà viene riempito dalla pienezza dello schermo e delle immagini, e il guardare finisce per coincidere con la felicità stessa:

«Maura è raggiante. Gode e si guarda dentro come nessuno ha mai fatto. Guarda come la vedrei io se avessi gli occhi sulla punta del glande. Vorrei sentirmi felice. Urlo Fiona, lì in mezzo: «Tu, Fiona sei felice?» «Si, papà, lo sono», mi risponde lei, senza distogliere lo sguardo dagli schermi. [F 116]

Nel documento Schermi di carta (pagine 76-78)