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I due finali

Nel documento Schermi di carta (pagine 65-69)

In Talk show ci sono due diversi finali: quello del programma e quello della cornice narrativa che vede come attori il protagonista e suo padre. Questi finali rappresentano i due mondi che si contrappongono nel romanzo: quello televisivo e quello reale. Doninelli pone l’accento sull’antitesi di questo dualismo: il finale televisivo si svolge in un luminoso clima di festa in cui si tirano le somme e si raccolgono i consensi; il finale reale si realizza a luce spenta, nel silenzio della riflessione.

3.13.1 Il finale televisivo

La conclusione del talk show viene presentato da Doninelli come il finale di una rappresentazione teatrale. Le luci si concentrano sugli attori mettendo in evidenza soprattutto il primattore e il regista di questa filodrammatica: il Conduttore. Questi si appresta a raccogliere i consensi del suo pubblico prestando particolare attenzione affinché nessuno dei suoi attori esca nuovamente dal suo ruolo tentando un lazzo finale fuori scaletta, infatti il talk show condivide con la rappresentazione teatrale anche una certa vulnerabilità nei confronti degli imprevisti.

La tragedia era stata rappresentata quasi per intero: c’era stato un prologo, c’era stato il sacrificio della vittima, c’era stata la scena-madre. Mancava soltanto l'epilogo. Ma l'epilogo è la cosa più difficile da cercare e da trovare, perché è in esso che possono ripresentarsi i fantasmi, ossia le voci di quelli che non sono ancora stati sistemati a dovere. Il Conduttore era infatti un matador, e gli ospiti i suoi tori. E il toro va ammazzato bene, perché se non è veramente morto può approfittare del momento propizio per rialzarsi e colpire – e il momento più propizio è quello in cui il torero s'inchina a ricevere gli applausi e i fiori del pubblico. [TS 76]

Il talk show proprio nel finale rivela la sua struttura artificiale e precaria. La narrazione televisiva viene gestita con la sapiente dosatura di realtà e di finzione prima dagli autori del programma e poi dal Conduttore. Proprio partendo dalla consapevolezza per l’artificio che si nasconde dietro la macchina mediatica Doninelli rivela come vi sia un sostanziale scarto tra gli universi della vita e della televisione e come le dinamiche interne di ciascuno dei due mondi non siano sempre compatibili. Nella vita non vi è alcuna architettura prestabilita che armonizzi (anche precariamente) le cose. La vita vera è frutto di

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intersecazioni casuali che sono ingestibili. Al contrario, in televisione vi è una struttura, una scaletta, delle regole da rispettare perché l’evento mediatico si crei e si consumi. Un esempio significativo di questa orchestrazione si trova in una delle ultime battute del Conduttore che si avvia alla conclusione:

«Vede, mia cara, io apprezzo quello che lei ha detto – perché non so se avete notato», disse rivolgendosi d’un tratto nuovamente al pubblico, «ma tutto si può dire di questa donna tranne che è volgare».

La lode della bella donna scatenò l’applauso del pubblico, che ormai applaudiva molto spesso segno che era stanco e voleva tornarsene a casa.

«Io credo», continuò il Conduttore, «che la prima violenza contro cui chi fa

televisione deve combattere sia proprio la volgarità. Perché quando uno non è

volgare, non è nemmeno violento».

A questa baggianata, tutti applaudirono nuovamente, ma il Conduttore non fu contento, perché capiva che nessuno stava ascoltando. […]

Intanto, un nuovo quesito mi tormentava:

«Avrà chiamato l’attrice pornografica per poter parlare della volgarità, oppure ha parlato della volgarità perché c’era l’attrice pornografica?».

Ma, con un certo spavento, mi accorsi che, mentre nella vita si trattava di due cose diverse, in televisione erano la stessa cosa, e perciò la mia domanda non aveva nessun senso. [TS 79-80]

Cercare di districare il complesso groviglio della premeditazione televisiva appare all’autore uno sforzo sterile perché la tv segue logiche che non appartengono al mondo reale. In tv non vi sono rapporti casuali tra le cose, tutto si muove in direzione di un obiettivo che è quello di fornire allo spettatore un’immagine alterata della realtà, un’immagine che sia migliore della quotidianità che ciascuno conosce.

3.13.2 Il finale reale

Il finale della cornice narrativa è più amaro e cupo rispetto a quello televisivo. Il repentino passaggio dal sovramondo televisivo al mondo reale crea nel protagonista una rottura e un senso di svuotamento dovuti alla delusione della realtà contrapposta alla brillantezza dello schermo. Il protagonista e suo padre si sentono finalmente vicini, l’immersione catodica ha avuto su di loro come effetto il medesimo prosciugamento emotivo. Il narratore finalmente capisce le ragioni che spingono il padre a guardare tanta televisione: il vecchio utilizza le immagini televisive per poter recuperare i propri ricordi.

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Il traumatico passaggio dal sovramondo televisivo al mondo reale permette al padre di riesumare una serie di immagini sepolte nelle profondità della memoria. Le immagini televisive così brillanti e false si contrappongono a immagini sbiadite dal tempo, ma reali anche nel loro riaffiorare casuale. Il protagonista vive lo stesso trauma dato dalla fine della puntata, senza che se ne accorga la realtà agisce e subito gli si affollano nella mente quadri vaghi e lontani: «L’ultimo [pensiero] in senso assoluto fu quello del mare. Così, mentre mio padre spegneva la televisione io pensavo ancora al mare» [TS 89]. L’elemento mobile e trasparente dell’acqua diviene il filo conduttore dei ricordi del narratore che si muovono davanti ai suoi occhi nel buio del televisore spento. La casualità delle immagini diviene la metafora della casualità che governa la vita vera, quella priva di architettura, quella che ci fa dire: «Non è andata come pensavo…» [TS 11].

Ricordo ancora, come se stesse accadendo in questo istante, la sua voce sopra la mia testa. Aveva comprato una bicicletta da donna in modo da sistemare meglio il sellino, e insieme facevamo lunghe passeggiate per la pianura. Mi tornarono alla mente i nomi dei paesi che attraversavamo, taluni miseri altri sontuosi: Cademarco, Torre de’ Picenardi, Palazzo Pignano.

«Com'è ingiusta la giustizia, bambino!».

«Cos’hai da guardare?», domandò, fissandomi con quei suoi occhi fatti duri. «Non guardo, penso».

Lui non mi ascoltò:

«Non hai già guardato abbastanza?». «No, non abbastanza», dissi.

Fu una risposta incongrua, la mia, ma stavolta lui la capì immediatamente e fece segno di sì con la testa. Sapeva quello che vedevo. Vedevo davanti a me i fossi di risorgiva, le ombre dei pioppi, un torrente pigro sotto le fronde, poi vedevo le carpe e i lucci e i pesci gatto muoversi sul fondo limpido di quel torrente. Ma vedevo anche il puro orrore, che non ha fondo: un buco senza nessun senso, piazzato a caso in un punto a caso dell’universo, che casualmente attira dentro di sé tutto ciò che di buono esiste. Questo buco annuncia perciò la fine di tutte le illusioni? Oppure è lui la sola, vera illusione?

C'era, lì vicino, un vaso di metallo dove mio padre teneva nascosta una fotografia della mamma. Andai in bagno. Quando uscii, la luce del salotto era spenta, ma mio padre era ancora là, in silenzio. [TS 89-90]

Il buio che avvolge il padre non è altro che il buio amaro del buco che tutto trascina in sé senza una logica. Doninelli ripropone l’idea del precipizio: il gorgo che divora tutto è lo stesso che contiene «la vita e la morte» ed entrambi si possono scorgere solo nel

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silenzio, nell’interruzione della comunicazione. La luce del televisore acceso diviene un modo per evitare che quel buio prenda il sopravvento, la luminosità dello schermo nasconde la casualità che governa il mondo reale. Lo schermo assume il valore dell’ultima linea di difesa contro l’assenza di senso della vita, perché in quest’ultima non vi è giustizia («Com’è ingiusta la giustizia, bambino! Sapessi com’è ingiusta!»), non vi è un’architettura preimpostata che ci guidi verso una fine armoniosa. Nella vita reale una fine non è neanche possibile, la fine è esclusivo appannaggio della tv e dei romanzi:

Questa è una legge che governa qualunque opera umana – ivi comprese le opere d’arte, il cui valore viene messo alla prova soprattutto nel finale. E vale anche per la vita umana, lunga o breve che sia. Con la differenza che l’arte talvolta ottiene una perfezione – sia pure in sogno, perché l’arte è sogno – che la vita non può conoscere. Perciò i finali dei romanzi, anche di quelli buoni, sono così spesso dolciastri: perché la vita sa che non c’è finale, che non c’è conclusione tangibile. Meglio un romanzo che non parli della vita, che non si rivolga alla vita: la vita lo apprezzerà senza doverlo giudicare. [TS 76]

La vita non può essere spenta come un televisore, la sua delusione continua anche quando lo schermo spento riflette solo l’immagine di chi in quella scatola luminosa voleva nascondersi o sparire del tutto.

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Il caffè decaffeinato sa di caffè senza essere caffè? Bene, la realtà virtuale sa di realtà senza essere realtà. Tutto qui. [F 183]

Nel documento Schermi di carta (pagine 65-69)