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DA ABU GHRAIB A LAMPEDUSA - UN PERCORSO TRA DIRITTI UMANI, TORTURA E RICHIEDENTI ASILO

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Sommario

PARTE PRIMA 4

INTRODUZIONE 5

CAPITOLO 1

L’ESPERIMENTO DI STANFORD E IL SITUAZIONISMO 13

ESCALATION DEGLI ABUSI E FINE ANTICIPATA DELL’ESPERIMENTO 18

LA TEORIA DI ZIMBARDO: IL SITUAZIONISMO 20

PER LA DIFESA DEI DIRITTI UMANI 30

CAPITOLO 2

LE GRANDI DICHIARAZIONI DEL ‘700 33

LA RIFLESSIONE SETTECENTESCA SUI DIRITTI UMANI – LA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA

AMERICANA (1776) 33

Tutti gli uomini “sono creati uguali”? 35

LA RIFLESSIONE SETTECENTESCA SUI DIRITTI UMANI – LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO

E DEL CITTADINO (1789) 42

Il prezzo dell’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi: il caso di Haiti 50

CAPITOLO 3

DALLA TORTURA GIUDIZIARIA ALLA SUA ABOLIZIONE 59

COSA SI INTENDE PER TORTURA 59

SULLA TORTURA GIUDIZIARIA: L’INQUISIZIONE 62

Ad extirpanda 63

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L’autodafé 69

SULLA TORTURA GIUDIZIARIA: L’ABBANDONO 75

L’economia del potere 82

SULLA TORTURA PRIVATA: PUNIRE GLI SCHIAVI AMERICANI 91

CAPITOLO 4

DIRITTI UMANI E TORTURA NEL XX SECOLO 95

NASCITA E SVILUPPO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO 95

Cono d’ombra 98

I DIRITTI UMANI NEL ‘900 99

SULLA TORTURA MODERNA 104

CAPITOLO 5

SITUAZIONISMO AD ABU GHRAIB 116

ABU GHRAIB: LA CORNICE 117

ANALISI DISPOSIZIONALE: SERGENTE IVAN “CHIP” FREDERICK 120

ANALISI SITUAZIONALE: IL TURNO DI NOTTE NEL CAMPO 1A DELLA PRIGIONE DI ABU GHRAIB 121 ANALISI SISTEMICA: GLI ALTI GRADI DELL’ESERCITO E L’AMMINISTRAZIONE BUSH 125 OLTRE ABU GHRAIB: IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA LA MICROANALISI DI ZIMBARDO E UNA

PROSPETTIVA ETICO-POLITICA PIÙ AMPIA 130

PARTE SECONDA 137

INTRODUZIONE 138

IDENTITA’, PERCEZIONE E TOLLERANZA 138

CAPITOLO 6

OBBLIGATI ALLA PARTENZA 147

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ANALISI DELLA SITUAZIONE IN ERITREA 177

La spinosa questione dei bambini soldato 183

CAPITOLO 7

QUELLO CHE SUCCEDE IN LIBIA 186

ANALISI LIBIA/1 – IL RUOLO DELL’EUROPA 197

ANALISI LIBIA/2 - GLI ACCORDI BILATERALI ITALO-LIBICI 202

CAPITOLO 8

IL CPT DI LAMPEDUSA: “LA NOSTRA ABU GHRAIB”? 209

CAPITOLO 9

TUNISIA – LAMPEDUSA 219

LE INTERVISTE 220

COMMENTI 257

CONCLUSIONE

TORTURA E POTERE, OVVERO TORTURA E’ POTERE 265

ALLEGATI FOTOGRAFICI 271

BIBLIOGRAFIA 272

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PARTE PRIMA

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INTRODUZIONE

La “sala delle torture” è una tappa obbligata nelle visite dei castelli medievali: una o più stanze riempite con ogni genere di artefatto creato con il preciso scopo di procurare sofferenze atroci alle vittime. Alcuni degli strumenti utilizzati sono divenuti tristemente famosi, come la vergine di Norimberga (conosciuta anche come la vergine di ferro) e la ruota.1 Certamente la tortura non è nata nel medioevo, ma soprattutto non è finita con il Medioevo: Abu Ghraib e Guantanamo sono ormai sinonimi di luoghi del mondo contemporaneo dove viene praticata tutt’oggi.

Avendo studiato per la mia tesi di laurea le torture che praticate ad Abu Ghraib, non ho potuto fare a meno di percepire una somiglianza quando vidi delle foto di un gruppo di rifugiati picchiati e torturati in un carcere libico: si trattava di qualcosa che era stato già denunciato da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch sulla base di molte testimonianze, ma non si erano mai avute delle prove visuali fino alla pubblicazione di queste 15 fotografie, scattate di nascosto con un cellulare e sfuggite alla censura della polizia libica: riporto l’articolo diffuso da Gabriele Del Grande sul suo blog, Fortress Europe, uno dei primissimi (se non il primo) a mostrare le immagini su un sito italiano il 2 settembre 2009:

ROMA – Adesso abbiamo le prove. Sono quindici foto in bassa definizione. Scattate con un telefono cellulare e sfuggite alla censura della polizia libica con la velocità di un mms. Ritraggono uomini feriti da armi di taglio. Sono cittadini somali detenuti nel

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La vergine di Norimberga era una specie di sarcofago con porte frontali pieghevoli. Nella parte interna delle porte, erano inserite delle lame metalliche. I prigionieri venivano chiusi dentro in modo che il loro corpo fosse esposto a queste punte in tutta la sua lunghezza, ma senza ledere

mortalmente gli organi vitali. La morte sopraggiungeva lentamente fra atroci dolori… In Francia e in Germania la ruota era [invece] popolare come pena capitale. Era simile alla crocifissione. Alle vittime venivano spezzati gli arti e il corpo veniva sistemato tra i raggi della ruota che veniva poi fissata su un palo. L'agonia era lunghissima e poteva anche durare dei giorni

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carcere di Ganfuda, a Bengasi, arrestati lungo la rotta che dal deserto libico porta dritto a Lampedusa. Si vedono le cicatrici sulle braccia, le ferite ancora aperte sulle gambe, le garze sulla schiena, e i tagli sulla testa. I vestiti sono ancora macchiati di sangue. E dire che lo scorso 11 agosto, quando il sito in lingua somala Shabelle aveva parlato per primo di una strage commessa dalla polizia libica a Bengasi, l'ambasciatore libico a Mogadiscio, Ciise Rabiic Canshuur, aveva prontamente smentito la notizia. Stavolta, smentire queste foto sarà un po' più difficile.

A pubblicarle per primo sulla rete è stato il sito Shabelle. E oggi l'osservatorio Fortress Europe le rilancia in Italia. Secondo un testimone oculare, con cui abbiamo parlato telefonicamente, ma di cui non possiamo svelare l'identità per motivi di sicurezza, i feriti sarebbero almeno una cinquantina, in maggior parte somali, ma anche eritrei. Nessuno di loro però è stato ricoverato in ospedale. Sono ancora rinchiusi nelle celle del campo di detenzione. A venti giorni dalla rivolta.

Tutto è scoppiato la sera del 9 agosto, quando 300 detenuti, in maggioranza somali, hanno assaltato il cancello, forzando il cordone di polizia, per scavalcare e fuggire. La repressione degli agenti libici è stata fortissima. Armati di manganelli e coltelli hanno affrontato i rivoltosi menando alla cieca. Alla fine degli scontri i morti sono stati sei. Ma il numero delle vittime potrebbe essere destinato a salire, visto che ancora non si conosce la sorte di un'altra decina di somali che mancano all'appello.

Il campo di Ganfuda si trova a una decina di chilometri dalla città di Bengasi. Vi sono detenute circa 500 persone, in maggior parte somali, insieme a un gruppo di eritrei, alcuni nigeriani e maliani. Sono tutti stati arrestati nella regione di Ijdabiyah e Benghazi, durante le retate in città. L'accusa è di essere potenziali candidati alla traversata del Mediterraneo. Molti di loro sono dietro le sbarre da oltre sei mesi. C’è chi è dentro da un anno. Nessuno di loro è mai stato processato davanti a un giudice. Ci sono persone ammalate di scabbia, dermatiti e malattie respiratorie. Dal carcere si esce soltanto con la corruzione, ma i poliziotti chiedono 1.000 dollari a testa. Le condizioni di detenzione sono pessime. Nelle celle di cinque metri per sei sono rinchiuse fino a 60 persone, tenute a pane e acqua. Dormono per terra, non ci sono materassi. E ogni giorno sono sottoposti a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia.

Sull'intera vicenda, i deputati Radicali hanno depositata lo scorso 18 agosto un'interrogazione urgente al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Esteri, chiedendo se l'Italia “non ritenga essenziale, anche alla luce e in attesa della verifica dei fatti sopraesposti, garantire che i richiedenti asilo di nazionalità somala non siano

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più respinti in Libia”. Probabilmente la risposta all'interrogazione tarderà a venire in sede parlamentare. Ma nella realtà dei fatti una risposta c'è già. E il respingimento dei 75 somali di ieri ne è la triste conferma.

Siamo finalmente riusciti a parlare telefonicamente con uno di loro. A bordo erano tutti somali, ci ha detto. E avevano chiesto ai militari italiani di non riportarli indietro, perché volevano chiedere asilo. Inutile. In questo momento, mentre voi leggete, si trovano nel centro di detenzione di Zuwarah. Da quando sono sbarcati, ieri alle tredici, non hanno ancora ricevuto niente da mangiare. Né hanno potuto incontrare gli operatori dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite di Tripoli. Li hanno rinchiusi in un'unica cella, tutti e 75, comprese le donne e i bambini. Nessuno di loro ha idea di quale sarà la loro sorte. Ma nessuno si azzardi a criticare l'Italia per la politica dei respingimenti o per l'accordo con la Libia. Tanto meno l'Unione europea e i suoi portavoce...2

Le foto hanno fatto il giro del mondo su internet e anche in qualche tg. Certo non suscitarono lo stesso scalpore delle foto-ricordo americane con le torture sui detenuti iracheni, politicamente considerate più importanti (non lo sono certo a livello di violazioni di diritti umani). Guardando le foto dei somali mi sono sentito un po’ come P. Zimbardo quando vide le foto di Abu Ghraib in tv, cioè scosso ma non sorpreso. Non perché i carcerieri libici debbano essere più crudeli di quelli americani, anche se forse molti si aspettano una cosa del genere. Del resto, fu proprio il vedere i propri “bravi ragazzi” commettere quelle atrocità che sconvolse gli americani: quelle azioni erano buone per degli incivili (magari proprio come i libici…) che vivono in società barbare e arretrate. Del resto, già nel 1940 George R. Scott sostenne che la modernità consisteva nella progressiva eliminazione di quelle forme di comportamento che suscitano indignazione nell’uomo, tra cui la tortura, intesa non solo come metodo violento per estrapolare informazioni ma anche come inflizione gratuita di dolore nei confronti di un’altra persona. Essendo la Libia più “arretrata” degli Stati Uniti d’America, secondo questa interpretazione è quindi più “normale” che vi accadano episodi di questo genere. Episodi come quelli raccontati

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da questo ragazzo eritreo imprigionato ad Al Braq (nel deserto della Libia meridionale) di cui riportiamo un’intervista telefonica che il sito CNRmedia è riuscita ad ottenere:

"Abbiamo bisogno di ottenere lo status di rifugiati, perché stiamo morendo nel deserto", dice a CNRmedia.

Dove vi trovate adesso? Vi hanno picchiato o maltrattato?

Siamo ad Al Braq, a 75 chilometri a sud di Sebah, nel sud della Libia, vicino al confine con il Niger. Siamo in una prigione sotterranea. Ci torturano a tutte le ore. Ci insultano, ci picchiano, ci torturano. La tortura è frequente, tutto è frequente.

E prima dove vi trovavate?

Prima ci trovavamo in un centro di detenzione, a Misratah. Alcuni di noi sono stati arrestati perché già abitavano in Libia, altri sono stati presi nelle città, altri ancora sono stati respinti dall'Italia lo scorso anno. Anche se avrebbero avuto il diritto di essere accolti come rifugiati sono stati respinti. Altri sono stati semplicemente trasferiti di prigione in prigione e alla fine sono approdati al carcere di Misratah.

Com'è cominciato tutto?

Le torture sono cominciate per la prima volta all'interno del centro di detenzione di Misratah perché ci avevano chiesto di essere fotografati e di firmare dei fogli, per poi essere rimpatriati. Noi non volevamo, perché temevamo di essere deportati. Poi alcuni di noi, per paura di essere riportati in Eritrea, sono scappati dalla prigione e poi sono iniziati gli scontri con la polizia. Poi immediatamente più di 600 soldati dei corpi speciali sono arrivati e ci hanno circondato. C'erano anche 2 brigate di tiratori scelti.

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Tutto è iniziato la sera del 30 giugno e il 1 luglio, di prima mattina ci hanno fatto spogliare e ci volevano portare via. Noi abbiamo cercato di resistere per dimostrare loro che non volevamo essere deportati, ma a loro non fregava nulla di noi. Poi ci hanno fatti salire a forza, uno per uno, dentro a dei container caricati su dei camion. E dopo 13-14 ore ci hanno portato al carcere di Al Braq.

Com'è la vostra situazione nel carcere?

Nessuno è morto nel trasporto, ma in molti hanno gravi problemi di salute. Ci sono anche 18 donne e bambini. Ad alcuni di noi hanno spaccato gambe, braccia, teste. Le torture sono state molto pesanti. Tre persone, appena arrivate qui, hanno bevuto del detersivo e sono state portate in ospedale: si è trattato di tentativi di suicidio.

Avete ricevuto cure mediche?

Al nostro arrivo non abbiamo avuto alcuna assistenza medica, la nostra situazione qui è estremamente difficile. Siamo stati semplicemente ammassati in una stanza, che ci serve per dormire, mangiare , andare in bagno. Non abbiamo materassi, non abbiamo niente. Non c'è acqua da bere, non c'è abbastanza cibo. E il centro di detenzione è molto caldo, perché siamo rinchiusi praticamente sottoterra.

Avete contatti con l'esterno? Qualcuno vi sta aiutato?

Si parla molto di noi su internet, ma ora non c'è nessuno che possa proteggerci. Siamo qui senza speranza e senza alcun tipo di aiuto. Nessuno può visitarci in carcere, nessuno viene a proteggerci. Attorno a noi ci sono solo l'Ambasciata eritrea e le autorità libiche. Anche se tutto questo é successo perché ci rifiutavamo di compilare i moduli per il rimpatrio, l'Ambasciata si sta organizzando per venire qui e farci firmare quei fogli. Ma il problema non è tanto compilare quei moduli, ma ottenere dei visti. Abbiamo di essere riconosciuti come rifugiati, abbiamo bisogno di aiuto da parte della comunità internazionale proprio qui e ora. Perchè stiamo morendo nel deserto.

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Questo è il nostro appello: fate qualcosa perché qui non si tratta solo di essere deportati, ma stiamo davvero morendo nel deserto.3

A seguito di questa particolare intervista si smossero un po’ le acque della diplomazia internazionale, soprattutto di quella italiana dato che il ragazzo intervistato faceva parte di un gruppo di eritrei che probabilmente erano stati respinti mentre tentavano l’approdo a Lampedusa, in virtù dell’accordo tra Italia e Libia (l’ultimo nel 2007). Anche l’Unione Europea chiese conto all’Italia della situazione che si era verificata, dato che il respingimento di migranti senza assicurarsi che tra di essi non ci sia nessuno con il diritto di chiedere asilo contravviene alle convenzioni internazionali di protezione dei diritti umani, oltre che alla nostra Costituzione.

Il viaggio che questi migranti compiono o almeno tentano di compiere spesso è lunghissimo e può durare anche alcuni anni: non certo per la distanza fisica che separa i loro luoghi natii dall’Italia, ma anche e soprattutto per le enormi difficoltà che devono superare. Un rischio che spesso si materializza è quello di essere arrestati: i migranti del corno d’Africa spesso cercano di arrivare in Libia a Tripoli per poi percorrere il tratto di mare che li separa da Lampedusa su uno di quei barconi malmessi che spesso vediamo nei tg. Ma nell’attraversamento della Libia c’è sempre il rischio di essere scoperti dalla polizia e condotti in uno dei circa 20 centri di detenzione fatiscenti sparsi per il paese, dei veri lager, in attesa del rimpatrio. Già diverse organizzazioni umanitarie avevano segnalato che in queste prigioni non vengono rispettati i diritti umani: in particolare si parlava di episodi di tortura e di condizioni disumane in cui i detenuti erano costretti ad attendere la loro sorte. Quasi sempre ai migranti arrestati viene chiesto di farsi mandare dei soldi da casa per poter essere consegnati ad un intermediario che li dovrebbe portare a Tripoli

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(sempre che non vengano arrestati nuovamente: in tal caso vengono chiesti altri soldi e ricomincia il circolo vizioso…).

In questa tesi seguiremo idealmente alcuni migranti e richiedenti asilo nei loro viaggi alla ricerca di un luogo sicuro, attraverso le loro testimonianze e altre fonti. A questa tematica se ne intreccerà un’altra, quella della tortura, a cui abbiamo accennato inizialmente. Tenteremo di rispondere ad alcune domande sull’evoluzione della tortura e delle tecniche utilizzate in essa, sugli scopi che si prefigge e soprattutto sul suo rapporto con le società contemporanee: dove è situata la tortura nelle società odierne? È un “residuo barbarico” che verrà prima o poi eliminato definitivamente o è legata ad un eccesso di potere sul corpo, una specie di “surplus biopolitico osceno” tipico delle società moderne ma che deve rimanere nascosto, proprio per l’oscenità che contiene?

Analizzeremo anche il ruolo degli strumenti giuridici moderni che dovrebbero servire a salvaguardare i diritti umani, anche se hanno un’efficacia parziale: la tortura si insidia negli interstizi non coperti dai trattati internazionali né dalle Costituzioni (e quindi il “residuo barbarico” permane per questo motivo) o si nasconde dietro a questi strumenti giuridici, che salvano l’apparenza ma offrono l’opportunità di scappatoie legali in cui permane la sostanza?4

Faremo questo osservando l’evoluzione storica di tali documenti umanitari, partendo dal dibattito settecentesco che portò alle prime due grandi dichiarazioni alla fine dell’età moderna: la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776 e la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.

Nella seconda parte, seguiremo alcune rotte migratorie osservando come in alcuni casi emblematici la tortura intesa nel senso più generale ed altre violazioni dei diritti

4 Un esempio sono i documenti firmati da Bush in cui definiva i detenuti di Abu Ghraib come unlawful combatants e non come “prigionieri di guerra”, ponendoli fuori dalle tutele delle

Convenzioni di Ginevra; oppure, gli altri documenti in cui si specificano le tecniche di interrogatorio praticabili sui prigionieri perché non ritenute esplicitamente “tortura”.

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umani compaiono sia nelle società di partenza di questi migranti sia in quelle di passaggio: nazioni cosiddette “in via di sviluppo”, povere, potremmo dire “arretrate”, certe volte culturalmente diverse dall’Occidente. Ma ci confronteremo poi anche sui moderni Stati in cui tanto i migranti sognano di arrivare. E se già probabilmente sappiamo cosa aspettarci in un carcere nel mezzo del Sahara, forse rimarremo un po’ più sorpresi di quello che accade negli anfratti oscuri delle società occidentali moderne, anche se cercheremo di capirne il motivo. Un po’ la stessa cosa che fece il Prof. Zimbardo in un esperimento sociale diventato poi famoso, eseguito nei seminterrati dell’Università di Stanford…

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CAPITOLO 1

L’ESPERIMENTO DI STANFORD E IL SITUAZIONISMO

Lo scopo di questo esperimento datato 1971 e reso famoso anche da un film5 era essenzialmente quello di capire come si sarebbero comportate delle “brave persone” in un “posto cattivo”. L’idea era quindi di prendere dei comuni studenti universitari e far loro interpretare il ruolo di carcerieri e detenuti all’interno di una “prigione” appositamente ricostruita nei seminterrati della Stanford University. I soggetti dell’esperimento (24) vennero selezionati tra un centinaio di candidati che avevano risposto ad un annuncio su due giornali, dove venivano richiesti studenti che si prestassero come volontari ad una ricerca psicologica sugli effetti della vita carceraria. Vennero eseguiti test medici e psicologici, vennero scartati coloro che avevano precedenti penali o che facevano uso di sostanze stupefacenti: alla fine i partecipanti erano quindi dei ragazzi psicofisicamente normali, socialmente integrati e che non si conoscevano tra di loro. L’assegnazione del ruolo venne stabilita casualmente e nessuno dei soggetti aveva ricevuto un qualsiasi addestramento. Come si sarebbero comportate le neo-guardie, avendo a disposizione un potere quasi totale su altre persone? E allo stesso tempo, cosa avrebbero fatto i prigionieri, perdendo quasi del tutto la propria libertà? Inoltre, dei comuni studenti universitari come avrebbero interpretato tali ruoli? Alcune delle guardie stesse, nei diari che avevano l’obbligo di tenere, scrissero all’inizio dell’esperimento che sarebbe stato difficile non prendere tutto come un gioco. Zimbardo e i suoi collaboratori si domandavano anche se i prigionieri sarebbero riusciti ad entrare nel ruolo: in fondo erano consapevoli del fatto che si sarebbe trattato solo di un breve periodo di tempo e inoltre gli sperimentatori avevano (ovviamente) proibito l’uso di violenza su di loro. Venne però fatto di tutto per rendere l’“esperienza” il più verosimile possibile e far entrare al più presto gli studenti nei vari personaggi. Venne addirittura chiesta la collaborazione del

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Dipartimento di Polizia, che mise a disposizione una squadra per “arrestare” i partecipanti il giorno dell’inizio dell’esperimento. A tutti i partecipanti era stato chiesto di rimanere disponibili nelle proprie case, dove si presentarono i poliziotti che li accusarono di “rapina a mano armata” o reati di gravità simile. A questo punto gli studenti-detenuti vennero arrestati e condotti, bendati, alla “prigione della Contea di Stanford”, come Zimbardo aveva ribattezzato il seminterrato dell’Università preparato in modo da apparire una prigione realistica, con tanto di celle create usando delle porte con sbarre d’acciaio. La prigione era buia, costituita da un cortile chiuso alle estremità, con una videocamera nascosta e dei citofoni che servivano sia per le comunicazioni che per spiare i discorsi dei prigionieri all’interno delle celle. Non erano presenti né finestre né orologi: lo scorrere del tempo era dato solo dalla luce elettrica che veniva accesa alle 6 e spenta alle 22, in modo da destabilizzare la cognizione temporale dei detenuti. Di fronte alle tre celle era inoltre presente uno stanzino, denominato the Hole, che avrebbe funzionato da cella di isolamento.

All’arrivo nella “prigione della Contea di Stanford”, ogni detenuto venne spogliato, asperso con uno spray antiparassitario e rivestito con un semplice camice bianco sotto al quale non era permesso portare nulla, neanche le mutande: dato che i prigionieri veri vengono umiliati e si sentono spesso meno virili di una persona libera, avere solo il camice indosso serviva per far provare il prima possibile le stesse emozioni agli studenti-prigionieri. Questa procedura aveva anche lo scopo di spogliare simbolicamente i detenuti della propria identità individuale (deindividuamento) e di fargliene acquisire una collettiva, quella di prigionieri. Allo scopo venne anche applicata una catena chiusa con un lucchetto alla caviglia di ogni carcerato che non poteva essere mai tolta, neanche durante il sonno. Inoltre, ad ognuno di loro venne dato un numero che lo identificava e con il quale dovevano chiamarsi a vicenda, mentre era vietato l’uso dei nomi propri.

Insomma, da una parte c’era la consapevolezza degli studenti di partecipare ad un esperimento dalla durata ben precisa e del divieto di usare violenza, dall’altra una serie di accorgimenti degli sperimentatori per rendere l’esperienza il più realistica

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possibile: che direzione avrebbe preso l’esperimento? Dato che le differenze con l’ambiente di una prigione reale erano davvero enormi, era però necessario ricostruire almeno le componenti funzionali della “situazione-prigione” come la noia, il senso di frustrazione e di impotenza per non poter fare niente senza il permesso delle guardie, la mancanza totale di privacy. Torneremo successivamente su questo argomento, ma intanto ci basti sapere che, nella teoria di Zimbardo, i comportamenti tenuti dalle persone dipendono molto più dall’ambiente (dalla “situazione”) che dal carattere delle singola persona (la cui forza viene spesso sopravvalutata). Riproducendo adeguatamente la “situazione-prigione”, era lecito aspettarsi da parte degli studenti, seppur consci di essere nel seminterrato di un’Università e non in un carcere vero, comportamenti simili a quelli di guardie e detenuti veri.

A fare da “consulente”, per garantire la verosimiglianza dell’esperimento con quello che succede in un carcere reale e per far notare somiglianze e differenze tra i comportamenti che sono tenuti in quest’ultimo e quelli presenti nell’esperimento, venne invitato Carlo Prescott, un quasi coetaneo di Zimbardo che aveva passato quasi diciassette anni della propria vita in carcere (alcuni dei quali nel famoso penitenziario di San Quentin) ed era stato rilasciato da pochi mesi.

Dopo il rito di “degradazione” descritto poco sopra, ai prigionieri in fila e con la faccia al muro vennero lette le regole della vita nel carcere: alcune di queste prevedevano il silenzio assoluto nelle ore di riposo notturno, durante i pasti ed in bagno (dove potevano andare massimo tre volte al giorno); i tre pasti al giorno erano i soli momenti in cui era consentito (nonché obbligatorio) mangiare; non era permesso parlare della situazione in termini di “esperimento” o simili; fumare, scrivere lettere e ricevere visite erano privilegi che dovevano essere guadagnati con la buona condotta. L’ultima regola era la più importante: ogni infrazione avrebbe portato ad una punizione: il contratto firmato in precedenza dai volontari stabiliva che nessuno di loro avrebbe subito alcuna violenza fisica, ma i detenuti erano a conoscenza che sarebbero andati contro a violazioni della privacy e di alcuni diritti

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civili. Similmente, alle guardie era stato dato il compito di mantenere l’ordine utilizzando in caso di evenienza strumenti coercitivi alternativi alla violenza.

All’inizio dell’esperimento l’occhio dei ricercatori era rivolto soprattutto verso i prigionieri: ci si aspettava che con il passare del tempo provassero a riconquistare almeno parte della propria libertà perduta. Il clima tra di loro era allegro, nonostante lo spray e il camice. Le guardie invece erano un po’ più a disagio: anch’esse erano state deindividuate, attraverso la fornitura di uniformi da agenti di custodia, occhiali scuri, manette e sfollagente, ma adesso dovevano calarsi nel ruolo.

Tutta questa lunga serie di preparativi, come abbiamo accennato, era funzionale al tentativo di riprodurre il più fedelmente possibile la “situazione-prigione” ed osservare il comportamento di ragazzi perfettamente normali all’interno di dinamiche situazionali molto diverse da quelle quotidiane: i detenuti avevano perso la libertà, e anche se erano al corrente della relativamente breve durata dell’esperimento, per quelle due settimane sarebbero stati in balia del potere pressoché assoluto che le guardie avevano su di loro. Un discorso simile vale per queste ultime: passarono dallo status di studenti a quello di carcerieri e avevano il potere su altre persone. Il loro scopo era mantenere l’ordine senza far uso di violenza fisica, nella previsione che qualche prigioniero avrebbe tentato di ribellarsi. Fuori dalle previsioni era però la rapidissima evoluzione degli avvenimenti…

Già al primo turno di notte si verificarono le prime punizioni: generalmente uno dei momenti in cui veniva esercitato più direttamente il potere delle guardie contro i prigionieri era quello delle “conte”, cioè dei momenti in cui i detenuti venivano messi in riga di fronte alle celle e ognuno doveva ripetere il proprio numero identificativo, oltre a una serie di regole imparate a memoria. Alla prima conta notturna l’umore dei prigionieri era ancora abbastanza alto, almeno abbastanza da far rispondere un paio di prigionieri in maniera ironica. Queste risposte provocarono la piccata reazione delle guardie: le punizioni inizialmente consistevano nel compiere un certo numero di flessioni o di jumping jacks, ma la cosa importante è che non vennero puniti soltanto i “colpevoli” ma tutti i detenuti.

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Anche se Zimbardo sostiene il contrario, è probabile che queste punizioni arbitrarie siano state alla base di una specie di rivolta che sei prigionieri in due celle misero in atto il giorno dopo. Per risolvere la soluzione furono necessarie nove guardie e l’utilizzo di un estintore al monossido di carbonio spruzzato all’interno di una cella in cui si erano barricati i prigionieri. Questa ribellione rafforzò molto lo spirito di corpo tra le guardie, che adesso erano calate pienamente nel ruolo. I prigionieri non erano considerati più partecipanti ad un esperimento ma veri e propri agitatori che dovevano essere tenuti sotto controllo. Per sedare la rivolta erano occorse tutte e nove le guardie, ma di norma durante i turni ne erano presenti soltanto tre. Per prevenire ulteriori forme di ribellione le guardie fecero ricorso ad espedienti psicologici: intanto, i detenuti che non avevano partecipato alla rivolta vennero favoriti, potendo ad esempio mangiare cibi speciali in presenza degli altri (anche se inizialmente non accettarono). Questo servì per spezzare l’unità nel gruppo dei prigionieri. Per cercare poi di mettere l’uno contro l’altro, diedero dei privilegi anche a due detenuti ribelli, che vennero percepiti come spie o traditori. Questo è un espediente molto utilizzato anche nelle carceri reali, ad esempio mettendo bianchi e neri gli uni contro glI altri: in questo modo la maggior parte dell’aggressività viene sfogata tra prigionieri, e non contro i secondini. Comunque, il secondo giorno non era ancora terminato che uno dei prigionieri ebbe una crisi di pianto e nonostante i tentativi di Zimbardo di convincerlo a rimanere (tra cui la proposta di un trattamento di favore se avesse denunciato altri tentativi di ribellione…) venne fatto uscire.

Un’ulteriore svolta si ebbe il giorno dopo, in cui era prevista un’ora di visita da parte dei familiari. Si era sparsa la voce che Doug-8612, l’ex-detenuto liberato il giorno precedente, stava radunando degli amici per liberare gli altri prigionieri. Dopo le visite, per le quali i prigionieri vennero puliti e rifocillati (ma nonostante questo qual che genitore si preoccupò delle condizioni in cui versavano i figli), i detenuti vennero incappucciati, incatenati l’uno all’altro e poi trasferiti in un’altra stanza dell’Università. Una spia (un ragazzo di cui il professore si fidava, David G.) sarebbe stata inserita tra i prigionieri per raccogliere informazioni su questo tentativo di assalto. Zimbardo avrebbe aspettato gli “assalitori” per mostrare loro il

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seminterrato vuoto e riferire che i partecipanti erano stati mandati a casa. L’idea iniziale del professore in realtà era stata di trasferire i ragazzi in una vecchia prigione in disuso con la collaborazione del solito Dipartimento di polizia di Palo Alto, ma mancava la copertura assicurativa. Zimbardo rimase disgustato da questa mancanza di cooperazione tra istituzioni ed era furioso: questo però ci dà l’idea di quanto anche lui si fosse lasciato prendere da questo “gioco di ruolo”. Addirittura, nel progetto per sventare il tentativo di fuga, era compresa un’idea per imprigionare di nuovo Doug-8612! Ormai tutte le persone coinvolte nell’esperimento avevano interiorizzato il loro ruolo: nella mente dei prigionieri, il luogo in cui si trovavano non era il seminterrato della propria Università adattato in modo da ricreare funzionalmente un carcere, ma una prigione vera e propria. Per le guardie, l’unica cosa che contava era mantenere l’ordine, anche a costo di abusare in qualche maniera dei prigionieri.

Abbiamo lasciato il professore ad aspettare i rivoltosi che avrebbero dovuto liberare i ragazzi, ma la loro attesa fu inutile, dato che non arrivò nessuno. Tutto lo staff del carcere aveva aspettato con ansia i presunti assalitori, avevano incatenato, incappucciato e spostato tutti i detenuti, nonché demolito la prigione… e poi non accadde niente! Tutta quella fatica, per nulla. Le guardie non ne furono felici, e riversarono la loro delusione sui prigionieri…

ESCALATION DEGLI ABUSI E FINE ANTICIPATA DELL’ESPERIMENTO

A partire dalla giornata di mercoledì, l’esperimento era ormai fuori controllo: lo Stanford Prison Experiment era diventato una prigione mentale per tutti i suoi partecipanti. Le guardie infierirono sempre di più sui prigionieri, rendendo lunghissime le conte (anche due-tre ore per ognuna, anche di notte), obbligandoli a urinare e defecare in un secchio che poi non era permesso pulire, riempiendo così tutto l’ambiente di un fetore terribile. Dovevano pulire il water del bagno a mani nude, mentre flessioni e jumping jacks si facevano sempre più frequenti ed arbitrarie. Ma tutto ciò non era considerato ancora sufficiente a far decidere l’interruzione dell’esperimento. Anzi, non ci pensava nessuno... Zimbardo si stava

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ancora chiedendo se il suo “carcere” avesse raggiunto un buon grado di realismo (!). Venne perciò chiamato un prete abituato ad assistere i detenuti, e venne fatto parlare con i partecipanti. Dopo una breve chiacchierata, il prete domandava: “Cosa stai facendo per uscire da qui?”, e poi suggeriva di interpellare un avvocato. La maggioranza accettò!

Un altro detenuto, N.819, si sentiva male, e desiderava un dottore più che un prete. Soffriva sia fisicamente che psicologicamente: venne convinto ad uscire per parlare con il prete e il direttore, con cui si mise a piangere. Le guardie, all’insaputa di Zimbardo, ordinarono ai prigionieri di gridare all’unisono: “Il prigioniero 819 è un cattivo prigioniero!”, ed altre frasi che lo incolpavano della situazione in cui versavano gli altri detenuti. Il ragazzo cadde a terra e si mise a piangere ed urlare disperato. Zimbardo lo abbracciò e Io rassicurò che lo avrebbero fatto uscire subito, ma incredibilmente il ragazzo, sentendosi colpevolizzato ed offeso, disse che non poteva andare via, che doveva tornare dentro anche se si sentiva male. Voleva dimostrare che non era un cattivo prigioniero… allora il professore gli disse: “Ascoltami attentamente, ora, tu non sei 819, sei Stewart… il mio nome è Zimbardo, sono uno psicologo, non il Direttore di un carcere”. Come svegliato da un incubo, Stewart abbandonò l’esperimento.

Tra il mercoledì e il giovedì la situazione sfuggì di mano: un nuovo detenuto, scelto tra i partecipanti di riserva, attuò uno sciopero della fame. Le regole stabilivano che era obbligatorio mangiare durante i pasti, e le guardie arrivarono fino a prendere il piatto e spingerlo sulla faccia dei prigioniero. Il giovedì, invece, il prigioniero Paul-5704, esausto per la mancanza di sonno e irritato per essere sempre punito, decise di non obbedire a nessuno dei comandi delle guardie. Le guardie lo posero in isolamento mentre gli altri facevano colazione, ma quando uscì ebbe unì crollo nervoso ed attaccò violentemente i suoi “aguzzini”, costringendo gli psicologi a rilasciarlo. Questo evento ebbe un effetto domino sugli altri prigionieri, e nel corso della giornata altri due detenuti furono rilasciati: ancora nessuno pensava di terminare l’esperimento.

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Per giungere alla fine furono necessari altri due episodi. Innanzitutto, venne aggiunta allo staff di psicologi Christina Maslach (futura moglie di Zimbardo). La psicologa non aveva vissuto l’interiorizzazione del ruolo, e messa di fronte alle condizioni dei ragazzi detenuti e agli abusi che su questi venivano perpetrati, cadde in lacrime e chiese al futuro compagno che persona fosse quella che aveva permesso delle cose simili per un esperimento. Già questo scosse Zimbardo, ma se ce ne fosse stato bisogno, il colpo finale arrivò poco dopo. Uno dei suoi collaboratori stava visionando il filmato della notte precedente, e vide l’apice della follia di quell’esperimento. Bisogna tenere conto che i partecipanti non sapevano di essere filmati, e comunque credevano che la notte non ci fosse nessuno a sorvegliarli. Era in questi momenti, quindi, che si verificavano i maggiori abusi, e la crudeltà creativa delle guardie la notte tra il quinto e il sesto giorno oltrepassò i limiti, arrivando ad abusi di natura sessuale-pornografica, in pratica molto simili a qualche immagine di Abu Ghraib. Zimbardo, già “svegliato” da Christina Maslach, pose termine all’esperimento più anti-etico della psicologia occidentale moderna, sconvolto egli stesso per il suo comportamento più da sovrintendente di un carcere che da sperimentatore scientifico.

LA TEORIA DI ZIMBARDO: IL SITUAZIONISMO

Come è intuibile, Zimbardo rimase molto sorpreso (nonché turbato in una certa misura) di quello che successe nel suo esperimento. Nonostante la durata prevista fosse di due settimane, dopo sei giorni erano stati costretti ad interromperlo per i gravi abusi subiti dai prigionieri, e di questi era senza dubbio responsabile egli stesso (anche se ebbe delle difficoltà ad ammetterlo). Nel suo libro The Lucifer

effect il prof. Zimbardo oltre a raccontare nei particolari l’esperimento di Stanford

espone una sua teoria di come sia stato possibile che accadesse una cosa simile. L’esperimento aveva lo scopo di osservare il comportamento di ragazzi normali in un ambiente particolare, completamente diverso da quello in cui i soggetti erano abituati a vivere e ad interagire con altre persone. Nel nuovo ambiente della prigione le dinamiche di potere erano completamente diverse: le guardie avevano completo potere sui detenuti (eccetto alcune ovvie limitazioni, che vennero

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comunque talvolta raggirate) i quali a loro volta erano in completa balia dei loro carcerieri. L’ordine alle guardie era di mantenere l’ordine, utilizzando qualsiasi mezzo eccetto la violenza fisica.6 Se i partecipanti fossero stati dei criminali o delle persone crudeli, in molti avrebbero previsto un’interruzione prematura dell’esperimento. Ma i ragazzi erano stati selezionati tra i candidati proprio per la loro normalità: perché non hanno trascorso due settimane tranquille, magari noiose ma tranquille?

Gli eccessi dell’esperimento difficilmente possono essere spiegati con un carattere violento dei partecipanti, visto il loro selezionamento preventivo. Zimbardo spiega come secondo lui spesso si tenda a sopravvalutare l’importanza dell’indole personale (esercitante sull’individuo quelle che lui chiama “forze disposizionali”) e sottovalutare quella della situazione in cui la persona agisce. In questa interpretazione, le forze situazionali possono spingere individui normali (almeno nel senso di persone comuni, ordinarie) a commettere azioni anormali. Che tipo di azioni anormali? Dello stesso tipo di quelle che sono accadute durante l’esperimento di Stanford, e anche come quelle riprese negli scatti di Abu Ghraib, dove dei “bravi ragazzi americani” hanno abusato dei prigionieri.

È evidente che l’ipotesi di Zimbardo rischia di eccedere in “garantismo”: in una sua lettura “estesa”, nessuno sarebbe più colpevole di niente e scaricheremmo facilmente il barile addosso all’ambiente e alla situazione, perdendo di vista la nostra responsabilità personale. Anche lo studioso americano ne è consapevole, e si esprime chiaramente sul fatto che in ogni caso ognuno è responsabile delle proprie azioni, ma applicando il situazionismo a casi come quello di Abu Ghraib si può rispondere in maniera più profonda alla domanda “chi è il responsabile?”.

La risposta a questa domanda in relazione a fatti come quelli di Abu Ghraib infatti non si esaurisce soltanto con l’elenco di coloro che hanno materialmente commesso

6 La violenza fisica diretta era ovviamente vietata, ma come abbiamo visto le guardie riuscirono

comunque ad inventarsi metodi che facevano soffrire anche fisicamente i prigionieri: gli ultimi due giorni, quando gli ordini erano ormai impartiti in maniera quasi del tutto arbitraria, i “secondini” obbligavano i ragazzi nelle celle a compiere per ore delle flessioni. Curiosamente, era anche una delle punizioni spesso usate dai nazisti all’interno dei campi di concentramento.

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gli abusi. Nell’inchiesta svolta dal governo degli Stati Uniti il Gen. Richard B. Meyers parlò di azioni commesse da alcune “mele marce” (bad apples) che disonoravano l’esercito a stelle e strisce, ma nell’analisi compiuta da Zimbardo su quel caso (in cui tra l’altro venne coinvolto come testimone della difesa di uno dei militari imputati) egli si chiede esplicitamente se non fosse marcio il “barile” (bad barrel), ovvero l’ambiente (in senso esteso, la situazione) in cui si trovavano “le mele”. Inoltre deve essere contestualizzata anche la situazione stessa, la quale a sua volta è sempre inscritta in un sistema da cui è determinata. Per giungere all’idea del bad barrel, nella sua analisi situazionista Zimbardo utilizza concetti elaborati grazie all’esperimento di Stanford oltre ad altri mutuati dallo psicologo Stanley Milgram nei suoi esperimenti sull’obbedienza all’autorità nel momento in cui gli ordini entrano in conflitto con la coscienza e la morale del soggetto.

L’esperimento più conosciuto di Milgram venne eseguito nel 1961, poco dopo l’inizio del processo di Eichmann a Gerusalemme, nel tentativo di dare una risposta agli efferati crimini nazisti, compiuti molto spesso non da sadici patologici ma da “uomini comuni” (V. BROWNING 1995 e ARENDT 1963). Inizialmente lo scienziato e un complice assegnavano secondo un sorteggio truccato i ruoli di “allievo” (il collega complice) e “insegnante” (il soggetto ignaro). Quest’ultimo aveva di fronte a sé un quadro di controllo di un generatore di corrente elettrica con 30 interruttori sotto ai quali erano segnati il voltaggio (da 15 a 450 V) e delle indicazioni (es. sotto ai primi quattro interruttori era scritto “scossa leggera”, sotto agli interruttori n.13-16 “scossa molto forte”, sotto gli ultimi due “XXX”). Ai soggetti veniva fatta provare la scossa corrispondente alla terza leva, 45 V, per avere un’idea degli effetti. L’allievo, legato ad una specie di sedia elettrica, doveva rispondere a delle domande e, in caso di errore, l’insegnante doveva utilizzare gradualmente le scosse fino a quando non era ottenuta la risposta corretta. L’allievo-complice simulava il dolore sempre crescente delle scosse fino a far finta di essere svenuto quando venivano raggiunti i 330 V. Lo sperimentatore incitava l’insegnante a continuare ad utilizzare le scosse con frasi del tipo “non ha altra scelta, deve proseguire” o “è assolutamente indispensabile che lei continui”. L’obbedienza dell’insegnante-soggetto veniva misurata in base all’ultimo interruttore premuto: l’esperimento veniva interrotto al

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terzo rifiuto consecutivo. Inaspettatamente, la maggioranza dei soggetti arrivarono a somministrare anche l’ultima scossa (anche se mostravano segni di tensione e protestavano verbalmente)7.

Da questo e da altri esperimenti si evinse come delle persone comuni potevano avere dei comportamenti crudeli quando questi venivano ordinati da un’autorità considerata legittima (nel caso dell’esperimento Milgram, uno scienziato). Senza elaborare un’organica “teoria dell’obbedienza”, ricondusse freudianamente i risultati del suo esperimento alla necessità della vita di società degli esseri umani: per vivere armonicamente in una società, è necessario che “l’individuo rinunci all’ideale del suo Io sostituendolo con l’ideale di gruppo espresso dal suo leader” (Milgram 1974, p. 123). La coscienza di un individuo inscritto in una struttura gerarchica è conseguentemente “soppressa”, perde la sua capacità inibitoria, e Milgram definisce questa condizione come stato eteronomico: la persona a quel punto si vede come un agente che soddisfa i desideri degli altri (di un’autorità riconosciuta), a differenza di quando si trova in uno stato autonomo.

È vero che nell’esperimento di Stanford l’autorità (il professor Zimbardo) non era costantemente presente come lo sperimentatore di Milgram, anzi. Zamperini afferma però che “tra le guardie e Zimbardo, nel ruolo di sovrintendente del carcere, esiste comunque un corridoio di transito del potere e della sua legittimità istituzionale”.8 Un’altra differenza tra l’esperimento Milgram e quello di Stanford è che nel primo lo scienziato impartiva ordini precisi, mentre Zimbardo aveva fornito delle regole più generiche e spiegato che lo scopo delle guardie doveva essere quello di mantenere l’ordine: sono state poi queste a decidere come farlo e ad abusare dei prigionieri. Insomma, non possiamo dire quanto sia efficace la teoria dello stato eteronomico nell’analisi di quello che è successo a Stanford, ma è indicativo notare con quanta facilità le persone siano disposte a delegare la propria coscienza ad un’autorità e a compiere in nome di questa azioni che autonomamente non avrebbero mai eseguito. Per quanto riguarda gli abusi di Abu Ghraib, utilizzare

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Per una descrizione esaustiva dell’esperimento, cfr. Milgram 1974 cap. II-IX.

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lo stato eteronomico come tentativo di spiegazione evidenzia gli stessi punti deboli della sua applicazione all’esperimento di Stanford: sia nei rapporti indipendenti come in quelli governativi, che vedremo con qualche dettaglio in più successivamente, viene mostrato come agli esecutori materiali delle torture (almeno nello specifico caso di quelle fotografate) non vennero dati ordini precisi, ma avevano avuto delle indicazioni da agenti della CIA e da contractors civili che partecipavano agli interrogatori di utilizzare qualunque mezzo disponibile per ottenere delle informazioni utili (actionable intelligence). Essi stessi davano il “buon esempio”… addirittura, il Serg. Frederick testimoniò di aver visto un membro della Delta Force uccidere un detenuto fantasma (prigionieri della cui incarcerazione non c’è traccia in nessun documento ufficiale), senza che nessuno alzasse un dito e senza nessuna conseguenza.9 Se lo stato eteronomico è una motivazione solo parziale, osserviamo altri concetti sfruttati da Zimbardo per dare un senso al suo esperimento e utili per spiegare alcune delle dinamiche di Abu Ghraib nonché di altri casi in cui persone comuni si sono resi responsabili di efferate violenze apparentemente senza scopo.

Uno dei fattori che influisce molto sulla deresponsabilizzazione personale è una sorta di sensazione di anonimato, che Zimbardo definisce come deindividuazione. Si tratta di un processo psicologico in cui alcuni fattori riducono l’identificabilità sociale e l’autoconsapevolezza dell’individuo all’interno del gruppo rendendo possibili comportamenti proibiti (Ravenna 2004).Zimbardo riprende questo termine dallo studio classico sulla psicologia delle masse di Le Bon (1895), in cui l’autore individua tre fattori innescati dall’appartenenza ad una folla: deindividuazione, contagio (di idee) e suggestionabilità. Questo provoca la sostituzione della mente individuale con quella del gruppo, meno razionale e guidata da emozioni. La psicologia delle masse in un secolo si è affinata, e Reicher (1984) ci fornisce

9 Il detenuto in questione si chiamava Al Jamadi, soprannominato “Ice-man” perché dopo essere

stato ucciso venne posto in un sacco per cadaveri riempito di ghiaccio per ritardare la

decomposizione. Il cadavere avvolto nel ghiaccio è presente in una foto giunta ai media: accanto a lui Lynndie England sorridente mostra il pollice alzato. Tra l’altro, è stato ammesso che dall’uccisione di Al Jamadi non è stata tratta alcuna informazione utile. V. Zimbardo 2007, pp. 409-411.

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un’interpretazione possibile dei fatti di Stanford: la struttura di una folla è ambigua, e non è semplice individuare quali siano i comportamenti corretti. Le persone tendono perciò a basarsi sui comportamenti degli individui maggiormente visibili, cioè i più estremi, e che vengono adottati come leader. Anche in presenza di ambienti “violenti” (a partire dalla finta prigione di Stanford per arrivare ai medici nazisti collaborazionisti passando per i soldati e la polizia militare di Abu Ghraib) non tutti si comportano allo stesso modo: anche tenendo da parte gli “eroi” che si ribellano pubblicamente o cercano di comportarsi più umanamente verso le vittime, c’è sempre una buona percentuale di “carnefici fantasma” che non perpetrano una violenza particolarmente efferata ma non fanno neanche niente per impedire che altri la pratichino: eseguono semplicemente gli ordini che vengono dati senza discutere, divenendo inevitabilmente complici del sistema.10 Nell’esperimento di Stanford alcune delle guardie si mostrarono più “sadiche” di altre, mentre qualcuna era più tollerante e tentava anche di aiutare in qualche modo i prigionieri. Nessuna guardia però si oppose fermamente, e ben presto le guardie più estremiste divennero i leader, con il tacito consenso degli altri.

Sempre per dimostrare l’importanza dell’anonimato nel compimento di azioni crudeli, Zimbardo cita un altro esperimento: I partecipanti questa volta furono due gruppi di studentesse del college, uno dei quali posto in condizione di anonimato, mentre le altre portavano un chiaro distintivo con nome e cognome. Gli sperimentatori inventarono una credibile “cover story” per cui questi due gruppi dovevano infliggere delle scosse elettriche a due donne, una descritta come “molto carina” e l’altra come “puttana”. Avevano diverse possibilità per dare le scosse, in corrispondenza di una luce rossa che lampeggiava ai momento in cui avrebbero dovuto/potuto premere il pulsante che inviava le scariche da 75 V (che erano state

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Per quanto riguarda i medici nazisti, cfr. Lifton 1986: i medici nazisti collaborarono ai progetti di eugenetica del partito nazista (in cui uccisero migliaia di persone, soprattutto disabili, con iniezioni al fenolo) e durante la guerra svolsero attività di alta importanza anche all’interno dei campi di

concentramento, dove si occupavamo della “selezione” (ovvero una specie di triage al contrario che veniva svolto all’arrivo dei deportati, i quali venivano suddivisi tra coloro giudicati abili al lavoro e quelli che non lo erano: questi ultimi venivano inviati direttamente alle camere a gas) e portavano avanti anche esperimenti poco chiari tra cui quelli folli del Dott. Mengele ad Auschwitz.

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fatte provare alle partecipanti, in modo da sapere che effetto avevano). Le ragazze potevano decidere quanto tenere premuto il pulsante, Il risultato fu abbastanza sconcertante: le ragazze con il distintivo (identificabili) inflissero una certa quantità di scariche elettriche alla ragazza “molto carina”, e una quantità molto maggiore all’altra. Le ragazze in condizione di anonimato, invece, inflissero alle due donne la stessa quantità di scosse, premendo il pulsante (per entrambe) il doppio del tempo rispetto a quanto le ragazze identificabili lo avevano premuto per la donna “puttana”! Questo esperimento è stato ripetuto numerose volte in diversi luoghi (maschi, militari belgi, bambini delle elementari...) con gli stessi risultati (Zimbardo 2007, pp. 299-301).

Però, in che senso le guardie erano state deindividuate? In effetti, non agivano sotto condizione di anonimato. Nel caso dell’esperimento di Stanford, la deresponsabilizzazione derivante dalla deindividuazione venne fornita da alcuni fattori che contribuivano a far sentire anonimi gli agenti di custodia, come gli occhiali scuri e l’uniforme: l’appartenenza ad un gruppo può portare a “sintomi” psicologici simili al far parte di una folla, come abbiamo già accennato, e far sì che alla mente individuale si sostituisca quella del gruppo, spesso determinata dagli elementi con i comportamenti più estremi.

Un altro fattore psicologico che può aver innescato gli abusi di Stanford e che contribuito alle torture di Abu Ghraib è l’interiorizzazione del ruolo. Le influenze dovute all’impersonificazione di un certo ruolo sono sia interne che esterne: quelle esterne sono le aspettative di terzi rispetto al che deve essere tenuto da chi ha un certo ruolo, che deve essere coerente con esso. Le influenze interne, invece, sono dovute alle esperienze che l’individuo compie in rapporto al ruolo assunto e che influenzano la sua definizione di sé. Secondo Ervin Goffman, chi interpreta un ruolo ha un’immagine di sé pronta ad accoglierlo, basta che vi aderisca pienamente. Dato che la coincidenza dell’immagine di sé (positiva) con quella che gli psicologi definiscono “immagine di sé negli altri” (cioè il modo in cui noi pensiamo che gli altri ci vedano) provoca benessere, per alcuni l’interpretazione dei proprio ruolo diventa una fonte di “innamoramento”. Questo è quello che è accaduto, ad esempio, alla Guardia Heilmann: nelle fasi successive all’esperimento, ¡n cui vennero svolti diversi

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colloqui sia di gruppo che privati con ¡ partecipanti all’esperimento, l’agente di custodia più brutale della “prigione”, prima affermò che si era comportato in maniera crudele perché credeva che fosse quello che il sovrintendente dei carcere si aspettava da una guardia, e poi che una volta indossata la divisa si sentiva molto bene, “un’altra persona”.11 Del resto, un po’ tutto l’esperimento di Stanford ci dovrebbe far meditare sulla spinta psicologica che impersonare un certo ruolo determina: dopo pochissimi giorni dall’inizio dell’esperimento, tutti i partecipanti e anche lo sperimentatore stesso erano già mentalmente prigionieri dei propri ruoli, tanto da non riuscire a separarsene: le guardie che abusavano dei prigionieri come se si trovassero in un carcere reale, Zimbardo che continuava a ritardare la fine dell’esperimento e i prigionieri stessi che crollavano psicologicamente ma volevano rimanere lo stesso per far vedere che erano “buoni prigionieri”.Il risultato finale dell’interiorizzazione di un ruolo è l’abbandono della responsabilità delle proprie azioni: di queste non incolpiamo noi stessi, ma il ruolo che stiamo interpretando.12 Zimbardo ci fornisce ancora uno strumento per comprendere come funziona il processo (che ha colpito sia lui e i suoi collaboratori che le guardie e i prigionieri), spiegando il concetto cui abbiamo già accennato di dissonanza cognitiva. Quando si verifica una discrepanza tra i propri valori ed il proprio comportamento, e perciò le

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Zimbardo 2007. Teniamo presente inoltre che due persone aventi lo stesso ruolo non lo interpreteranno nella stessa maniera. L’esecutore del ruolo deve essere distinto dal ruolo stesso. Anche nel teatro, da cui deriva ¡I significato originale di ruolo, due attori che recitano la stessa parte non lo faranno mai nella stessa maniera. Inoltre, anche se è stato fornito loro un copione, lo sceneggiatore lascia comunque un margine di libertà. Anche nei ruoli sociali, il comportamento effettivo è determinato dall’incontro tra il comportamento ideale associato ad un certo ruolo e le peculiarità individuali (caratteriali, di personalità, fisiche...) dell’esecutore. È quindi presumibile che le guardie si siano sforzate di comportarsi nella maniera più adatta al ruolo che era stato loro assegnato, e quindi abbiano tenuto un comportamento duro e brutale proprio perché era ¡n questa maniera che idealizzavano il ruolo ii guardia.

12 È ciò che è successo con gli esecutori materiali degli stermini nei campi di concentramento, dove ¡

nazisti che vi lavoravano come pseudo-giustificazione affermavano di aver soltanto “eseguito gli ordini” (vedi anche la cieca obbedienza all’autorità mostrata da Miigram): “non incolparmi, in quel momento stavo interpretando quel ruolo, io non sono davvero così”, è una variante della difesa di questi nazisti.

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azioni non nascono da un atteggiamento “naturale”, si crea una condizione di dissonanza cognitiva. Le persone sono portate a compiere lunghi salti per raggiungere una certa coerenza con il proprio modo di pensare. Occorre trovare delle giustificazioni per le nostre azioni. Se la nostra vita è in pericolo e per difenderla feriamo il nostro aggressore, la dissonanza cognitiva sarà molto blanda. Ma diventa più forte tanto quanto la giustificazione per il nostro comportamento diminuisce, ad esempio per un’azione ripugnante compiuta per pochi soldi o in assenza di minacce. Se la nostra azione diventa pubblica, non può essere negata. In questi casi la dissonanza cognitiva agisce perciò sui nostri elementi interni (valori, atteggiamenti, credenze, ed anche percezioni) per farci razionalizzare il nostro comportamento e farci aderire coerentemente le nostre credenze. Per quanto riguarda le guardie dell’esperimento, sono state sottoposte ad una forte dissonanza cognitiva, e dopo la fine dell’esperimento più o meno tutte trovavano “buone” ragioni per il comportamento tenuto nei confronti dei prigionieri (Zimbardo 2007, p. 220).

In conclusione, il situazionismo ha certamente dei punti deboli come il rischio di attenuare le responsabilità individuali dei perpetratori di violenza, ma è utile la sua applicazione in casi come quello delle torture in Iraq in quanto permette di andare oltre l’attribuzione semplicistica delle colpe soltanto nei confronti degli esecutori materiali degli abusi e di proseguire le indagini nei confronti della “situazione” e del “sistema” che, in un certo senso, provocano le crudeltà. In accordo con Bauman (1989, p. 229), possiamo affermare che

“la crudeltà è correlata a certi modelli di interazione sociale molto più strettamente che ai tratti della personalità o ad altre caratteristiche individuali di coloro che la commettono. L’origine della crudeltà è più sociale che legata al carattere. È certo che alcuni individui tendono ad essere crudeli se calati in un contesto che disarma le pressioni morali e legittima la disumanità.”

La psicologia sociale non può prevedere chi commetterà abusi o torture, ma ci garantisce che in certe situazioni all’interno di un gruppo qualcuno lo farà. Processi psicologici come la deindividuazione, lo stato eteronomico, la dissonanza cognitiva,

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il potere dell’impersonificazione di un ruolo riducono la percezione della responsabilità individuale: quando un gruppo di persone è sottoposto a tali forze, è molto probabile che uomini comuni compiano azioni di cui si vergognerebbero al solo pensiero in circostanze normali.

Anche all’interno dell’esperimento di Stanford, non ha avuto importanza la scelta dei singoli come carcerieri o detenuti. Se i gruppi fossero stati invertiti, molto probabilmente i risultati non sarebbero cambiati. Credo che il fattore determinante nelle violenze che avvengono in istituti totali come le carceri dipendano fondamentalmente dall’istituzionalizzazione della massima diseguaglianza di potere, cioè dall’affidamento del potere soltanto ad un gruppo, che dispone a suo piacimento delle “vittime”. Le istituzioni totali (carceri, eserciti, religioni, partiti, governi totalitari) in cui l’autorità è unica e ferrea, creano le condizioni necessarie e spesso sufficienti a far entrare in uno stato eteronomico chi vi è partecipe. Nei casi in cui poi il potere sia detenuto soltanto da un gruppo, è praticamente sicuro che avranno luogo comportamenti ignobili. L’idea di regolamentare i comportamenti dei membri del gruppo “dominante” non avrà mai successo al cento per cento, anche quando venga adottata con le migliori intenzioni. Inoltre, come vedremo nell’ultimo capitolo quando analizzeremo il caso di Abu Ghraib, spesso in situazioni concepibili come stati di eccezione queste “migliori intenzioni” non ci sono neanche, e le norme che regolano il comportamento, ad esempio, dei soldati nella prigione non sono chiare per quanto riguarda il trattamento dei detenuti: anzi, passano messaggi che invitano a non preoccuparsi troppo della loro incolumità, soprattutto se così facendo si pensa di poter ottenere dei risultati.13

Nella mia tesi terminavo il capitolo sulla teoria situazionista esprimendo l’idea che il pluralismo fosse una buona difesa contro la creazione di sistemi totalitari che potrebbero produrre condizionamenti tali da spingere uomini comuni a comportarsi da nazisti stereotipici. In un sistema dove si creano situazioni che premono sull’individuo soltanto in una direzione, è più facile commettere azioni crudeli senza sentirne la responsabilità: un qualsiasi soldato tedesco del Battaglione 101, quello

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analizzato in profondità da Browning (1997), nelle situazioni in cui si è ritrovato a sparare a donne, vecchi e bambini indifesi aveva probabilmente solo la sua forza

disposizionale per opporsi agli ordini. Al contrario, l’interiorizzazione completa del

ruolo di soldato, la deresponsabilizzazione dovuta all’appartenenza ad un gruppo gerarchico in cui la persona si percepisce come agente della volontà del leader, gli ordini impartiti da un’autorità riconosciuta, la paura di essere giudicato un vigliacco dai suoi commilitoni costituivano tutte delle forze situazionali che spingevano la persona a diventare quello che Zimbardo definisce perpetrator of evil.

PER LA DIFESA DEI DIRITTI UMANI

La figura del perpetrator of evil, del carnefice potremmo dire, oggi globalmente condannata, per molto tempo è stata una figura istituzionale del potere (Di Bella 1961, cap. VIII). Era il torturatore o il boia, che rendeva i suoi servigi punendo coloro che avevano commesso dei reati o torturando criminali veri o presunti per farli ammettere la propria colpevolezza o per far sì che denunciassero eventuali complici. Non che godesse di particolare simpatia presso il popolo, vista la sua lugubre professione, tant’è che doveva rimanere il più possibile nella casa che gli veniva assegnata. In Italia all’Archivio di Stato di Milano si trova un faldone relativo all’attività dei carnefici degli scorsi cinquecento anni che ci mostra in maniera particolareggiata come veniva svolta tale professione. Possiamo scoprire così diverse notizie almeno curiose, come le numerose lamentele per lo stipendio ritenuto troppo basso con relativa analisi dei costi per il taglio di una mano, la costruzione di una forca o una decapitazione; oppure troviamo, sempre in conseguenza del magro guadagno, l’organizzazione di una specie di “sciopero di categoria”, non molto riuscito a causa dell’usanza, in caso di necessità di “manodopera”, di graziare un condannato a morte e nominarlo Mastro di Giustizia. Dalla metà del XVII secolo aumentano le rivendicazioni dei carnefici, sulla base delle loro capacità professionali: era abbastanza importante, infatti, sia per il boia, sia per l’autorità che per il condannato, che questo non morisse, ad esempio, per un tenagliamento fatto male. Spesso il boia lucrava sulla costruzione del palco: come da contratto, egli rizzava la forca, ma in un punto poco visibile della piazza. A quel

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punto il pubblico chiedeva a gran voce il palco, che veniva commissionato, appunto, al carnefice, e sul quale questi aveva un buon margine di guadagno.

Lo spettacolo pubblico era la forma ordinaria di punizione in Ancien Regime, quando un condannato subiva quello che Foucault (1975, cap. III) chiama “lo splendore dei supplizi” in piazza, in mezzo ad una folla che lo osservava, chi con disprezzo chi con simpatia (soprattutto se il torturato era un uomo del popolo), ma che soprattutto imparava a non fare gli stessi sbagli di colui che si ritrovava sul palco. Nel prossimo capitolo analizzeremo come avvenne il passaggio dalle punizioni corporali pubbliche alle pene “dolci” dei nostri giorni e come venne di conseguenza abolita anche la tortura giudiziaria.

Stando attenti a non semplificare troppo la questione, è indubbio che un cambiamento di sensibilità vi sia stato ed abbia contribuito fortemente al cambiamento nel modo di amministrare la giustizia, e a questo mutamento ha contribuito in maniera decisiva la filosofia illuminista settecentesca. Addirittura, dal patibolo pubblico si passa al dibattito sul rispetto dei diritti naturali dell’uomo, oggi considerato un valore fondamentale della società occidentale che deve essere esteso il più possibile, se vogliamo vivere in un mondo migliore. Attualmente esistono numerose associazioni che vigilano sul rispetto dei diritti umani e che denunciano le violazioni che riscontrano nelle loro indagini, anche quando queste sono compiute da paesi che sostengono di difenderli. In effetti, questo è proprio il caso di Abu Ghraib, ma anche ad esempio di Guantanamo: luoghi in cui vige uno stato di eccezione, in cui il diritto è sospeso e si torna indietro ai secoli dello “splendore dei supplizi”.14 Con l’unica differenza che al posto di una folla esaltata o disperata c’è l’occhio neutro di una fotocamera digitale…

E quando le immagini dall’occhio della fotocamera arrivano sul telegiornale, esplode l’indignazione. Oggi non possiamo più accettare questi comportamenti! Insomma, dopo tutti i documenti elaborati e ratificati in mezzo mondo, i soldati della nazione più potente del pianeta e che si erge a difesa dell’umanità non possono comportarsi in quella maniera. In effetti, il problema principale di tutti i documenti umanitari è

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sempre stata la loro effettiva applicazione. Per questo, prima di parlare dell’abolizione della tortura osserveremo l’elaborazione delle due grandi dichiarazioni del XVIII secolo, la Dichiarazione di indipendenza degli USA e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino in Francia, prestando attenzione ai loro contenuti e alla loro fattiva applicazione.

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CAPITOLO 2

LE GRANDI DICHIARAZIONI DEL ‘700

LA RIFLESSIONE SETTECENTESCA SUI DIRITTI UMANI – LA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA AMERICANA (1776)

Nel XVIII secolo vengono elaborate le prime grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo, in particolare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Già 23 anni prima era stata ratificata la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, redatta per la maggior parte dal futuro presidente Thomas Jefferson, la quale influenzò la Dichiarazione francese. A sua volta, la Dichiarazione d’indipendenza prese le sue forme a partire dai Bills of Rights dei vari stati americani, almeno per quanto riguarda il linguaggio politico. Osserviamo quindi le relazioni tra questi vari documenti, soprattutto cercando di capire quali sono i diritti attribuiti ‘agli uomini e ai cittadini’, a quali radici filosofico-politiche fanno riferimento e la valenza pratica delle parole scritte in essi. Per questa analisi cercherò di seguire principalmente il sentiero tracciato da Gerhard Oestrich, che mette bene in evidenza “la storicità dei diritti riconducendoli costantemente al contesto costituzionale-materiale in cui essi si dispiegarono”, come osserva Gustavo Gozzi (2001, p. VII). Questo sarà fondamentale per capire come impulsi universali nelle dichiarazioni rientrino in realtà nella risposta a problemi circoscrivibili storicamente e geograficamente, ponendo un veto “preventivo” sulla loro attuazione pratica.

Per quanto riguarda le Costituzioni dei singoli stati americani, Oestreich si mette in contrapposizione alle tesi di Jellinek secondo cui i diritti naturali elencati derivano da un processo di secolarizzazione delle originarie richieste di libertà religiosa (Gozzi 2001, pp. XXI-XXIII). In realtà, l’analisi dei Bill of Rights dei singoli Stati non conferma questa tesi, anzi: in Virginia la libertà religiosa compare soltanto nel sedicesimo

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