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OBBLIGATI ALLA PARTENZA

ANALISI DELLA SITUAZIONE IN ERITREA

Prima di vedere cosa rischiano i rifugiati eritrei in Libia nel loro percorso verso una vita più sicura, soffermiamoci sulla situazione descritta dalla lunga testimonianza di Mussie Hadgu, basandoci anche su due rapporti riguardanti l’Eritrea di Human Rights Watch e di Amnesty International. I due rapporti sono molto simili e trattano più o meno gli stessi argomenti, ma quello di HRW è stato redatto nel 2009, mentre l’altro di AI risale a cinque anni prima: la situazione descritta è la medesima, in tutta la sua tragicità.

La storia dell’Eritrea già ci fornisce gli elementi per capire alcuni punti fondamentali di quello che accade nella nostra ex colonia.

Dopo la seconda guerra mondiale l’Eritrea venne tolta all’Italia per divenire un protettorato britannico. Nonostante la volontà di molti eritrei di costituire una nazione indipendente, l’Assemblea delle neonate Nazioni Unite votò un piano sostenuto dagli Stati Uniti per fare dell’Eritrea un’unità autonoma e federata con l’Etiopia, ma a questa subordinata, e supervisionarono l’elaborazione di una nuova

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Costituzione e le elezioni finché nel 1952 il governo britannico ebbe termine. Appena due anni dopo l’Etiopia, che voleva impedire l’autonomia del piccolo vicino, bandì tutti i gruppi politici e i giornali indipendenti e obbligò a sostituire nelle scuole e nelle istituzioni il tigrino e l’arabo (le due lingua maggiormente diffuse in Eritrea, oltre al tigré) con l’amarico, lingua ufficiale etiope. Alla fine, nel 1962 l’Etiopia annetté ufficialmente l’Eritrea, dando inizio (nell’assoluto silenzio delle Nazioni Unite) all’impero etiope e a una trentennale guerra di liberazione da parte di un gruppo armato chiamato Eritrean Liberation Front (ELF), la maggior parte dei cui componenti erano musulmani che abitavano i bassopiani costieri del paese. A questi si aggiunsero, a partire dalla metà degli anni Sessanta e in particolar modo negli anni Settanta, molti nuovi membri di religione cristiana (seppur molto secolarizzati) provenienti dagli altopiani, più istruiti e imbevuti di ideologia marxista, che avevano l’intento non solo di ottenere l’indipendenza ma anche di trasformare la società dall’interno. Questa “corrente” di estrema sinistra fuoriuscì definitivamente nel 1970 dall’ELF per costituire il nuovo Eritrean People’s Liberation

Front (EPLF). ELF ed EPLF si combatterono, anche in maniera violenta e a danno dei

civili eritrei.82

È da questo movimento, dall’EPLF, che discende la “casta” al potere oggi in Eritrea: Isaias Afewerki, attuale presidente del paese, ne fu infatti il fondatore. Aiutato dall’Unione Sovietica e da Cuba (almeno fino al 1974, quando fu l’Etiopia a legarsi all’URSS e ad usare le armi sovietiche proprio contro l’EPLF), dimostrò la sua spietatezza con ogni dissidente politico, anche solo sospetto, creando un clima di terrore degno della rivoluzione francese o, meglio, delle cosiddette “purghe” di staliniana memoria. In ogni caso, nel 1991 l’EPLF (aiutato anche dal movimento armato etiope Tigray’s People Liberation Front, TPLF) riuscì a sconfiggere l’esercito etiope e a formare un governo di transizione, prima di dissolversi e convertirsi nel

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V. David Pool, From Guerillas to Government: The Eritrean People’s Liberation Front, Oxford: James Currey; and Athens, Ohio: Ohio University Press, 2001, pp. 47-56, cit. in Human Rights Watch 2009, p. 12.

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partito che è oggi al potere in Eritrea, il People’s Front for Democracy and Justice (PFDJ).

Di fatto, il PFDJ controlla tutta l’Assemblea, in quanto per metà è composta da membri del partito e l’altra metà è comunque nominata da altri membri . Secondo il report di HRW, dal 1991 al 1998 sono proseguiti arresti e detenzioni arbitrarie, esecuzioni sommarie, sparizioni e morti sospette, cancellando le speranze di uno sviluppo più democratico e pluralista della nazione. Nel 1996 vennero creati anche dei tribunali speciali gestiti da militari che agiscono ancora oggi senza procedure standard ed emettendo sentenze rivedibili solo dal presidente in persona (Human Rights Watch 2009, pp. 14, 15).

Paradossalmente, la Costituzione elaborata dal PFDJ stanzia numerose garanzie nell’ambito dei diritti umani. Tale Costituzione è l’emblema di quello che accade un po’ in tutto il mondo: è stata scritta, è stata pubblicata, è stata elogiata, e poi è rimasta in un cassetto. A causa degli attriti con l’Etiopia per questioni di confine, infatti, gli eserciti di entrambe le nazioni tra il 1998 e il 2000 si scontrarono in una guerra terminata con un precario “cessate il fuoco” dichiarato da entrambe le parti. Secondo il presidente Afewerki, il ritardo nello sviluppo democratico del paese è da attribuire proprio a questa situazione difficile al confine e alle ingerenze statunitensi.83

Nel 2002 una commissione concordata da entrambe le parti diede ragione all’Eritrea, ma l’esercito etiope non si è mai spostato e non ha mai accettato la decisione della commissione, che dopo uno stallo di quattro anni la capovolse. Questo ribaltamento fece infuriare Afewerki che arrestò il personale delle Nazioni Unite, le quali per risposta inviarono una “forza di pace” nella zona contesa. E gli eserciti rimangono tutt’oggi dispiegati a pochi metri l’uno dall’altro.

Questa continua condizione di guerra permanente, anche se “non guerreggiata”, è sicuramente uno dei motivi delle caratteristiche estreme del servizio militare eritreo

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descritte nella testimonianza prima riportata. Le torture sono la punizione standard in ambito militare. A parte i pestaggi, i metodi descritti sono tutti relativi a diversi modi di legare il prigioniero in posizioni scomode ed ereditati dal partito di governo direttamente dal gruppo armato che ne rappresenta la “costola” originaria, l’EPLF. Tali metodi venivano usati nello stesso periodo anche dal Derg etiope, come afferma un report di Amnesty International.84

Prima ancora, come risulta palese dai nomi delle tecniche di tortura, i metodi descritti da Hadgu venivano utilizzati dai coloni italiani. Di sicuro, già dalla prima esperienza coloniale in Eritrea erano presenti dei carceri che avrebbero fatto invidia ad Abu Ghraib. Alcune caratteristiche del funzionamento di queste prigioni sono rimaste immutate: a Nocra (nelle isole Dahalak nel Mar Rosso) ne era situato uno, dove la temperatura altissima e la penuria d’acqua “costituivano… strumenti aggiuntivi di punizione”. Ecco una breve descrizione del penitenziario (Del Boca 2005, pp. 81, 82):

Non si hanno che pochissime testimonianze sulla vita quotidiana a Nocra. L'isola, che ospitò quasi sempre detenuti politici, era rigidamente vietata a tutti. Il capitano Eugenio Finzi, della marina militare, che la visitò nel 1902, così descriveva la situazione: «I detenuti, coperti di piaghe e di insetti, muoiono lentamente di fame, scorbuto, di altre malattie. Non un medico per curarli, 30 centesimi pel loro sostentamento, ischeletriti, luridi, in gran parte han perduto l'uso delle gambe ridotti come sono a vivere costantemente incatenati sul tavolato alto un metro dal suolo». Quelli che cercavano di fuggire da questo inferno, e che venivano quasi sempre ripresi, come nel marzo 1893 quando si tentò una fuga in massa, erano immediatamente fucilati. Chi erano gli sventurati ospiti di Nocra? All'inizio soltanto criminali comuni. Poi, dal 1889, anche politici, ossia capi e gregari di tribù che non accettavano la dominazione italiana, ma anche spie o presunte tali, collaboratori infedeli, agitatori, maghi e indovini che predicavano le fine della presenza degli italiani. Nel 1892, con Oreste Baratieri governatore militare e civile della colonia, il carcere di Nocra raggiunse, con

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un migliaio di detenuti, il massimo della sua capienza. Di alcuni prigionieri siamo anche in grado di fornire i nomi. Nel settembre 1895, alla vigilia del disastro di Adua, furono relegati nell'isola Memer Walde Ananias, il liccè Wolde Jesus, e il grasmac Sadòr, tre nobili tigrini la cui sola colpa era stata quella di raggiungere il campo di Baratieri per iniziare, su incarico di ras Johannes Mangascià, trattative di pace. Il grasmac Sadòr, già avanti con gli anni, non era in grado di sopportare il clima dell’isola e le crudeltà che vi si praticavano e moriva in detenzione.

Come abbiamo visto, ci sono più somiglianze che differenze tra le prigioni descritte da Hadgu e questa: sono separati da più di cento anni di storia, ma i prigionieri vengono trattati ancora più o meno nelle stesse maniere: scarsità di cibo e acqua (che per i detenuti di Nocra come per molti delle prigioni eritree attuali era ed è salata), niente assistenza medica, repressioni della massima durezza, costretti a stare incatenati o legati in posizioni scomode e dolorose per lunghi periodi di tempo, presenza di “innocenti” e criminali comuni.

Sempre secondo Amnesty, e in linea con la testimonianza di Mussie Hadgu, la detenzione viene utilizzata come punizione per la renitenza alla leva o la diserzione (in questo caso vengono punite anche le famiglie), per aver manifestato opinioni contrarie al governo o alla condotta della guerra, per aver disobbedito a un ordine. Un cittadino rischia di essere arrestato anche per aver espresso il proprio favore verso riforme democratiche, come in ogni dittatura che si rispetti. In ogni caso, non esiste un sistema di giustizia militare e ogni punizione è arbitraria e sommaria. È evidente che le torture sono inflitte come punizioni ulteriori in caso di disobbedienza, ma come emerge dalla testimonianza, vengono anche utilizzate per costringere la vittima a confessare le proprie idee in contrasto con il governo dittatoriale, oppure a confessare di essere in collaborazione con il nemico etiope e a denunciare eventuali complici. In molti casi però la tortura viene riportata al suo nucleo fondamentale, e viene sfruttata la sua capacità di far soffrire gratuitamente l’altro, di umiliarlo, di fargli aprire gli occhi davanti alla sua impotenza nei confronti del carnefice e di renderlo “docile”: un paradosso, se pensiamo che lo stesso obiettivo viene perseguito con la “dolce” biopolitica (in senso foucaultiano) nelle

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nazioni cosiddette sviluppate. Qui è il servizio militare che punta a creare “soggetti obbedienti”: si cerca di tagliare un traguardo della modernità con metodi medievali.

Il servizio nazionale costituisce un elemento chiave della società eritrea, rappresentando emblematicamente la militarizzazione della società e la continuità di potere dell’ex EPLF, che nelle zone controllate durante la lotta per l’indipendenza aveva già l’abitudine di integrare le strutture civili con quelle militari, anche se la coscrizione forzata è pure una diretta conseguenza della sempre presente minaccia dello scoppio di una nuova guerra. D’altronde, il modo in cui viene gestito l’addestramento militare oltre all’estensione abnorme della leva (coscrizione di donne e minori, estensione temporale fino ai 40 anni) ci fa pensare che il suo scopo non sia soltanto quello di difendersi dalla minaccia etiope. In armonia con i suoi iniziali propositi, il PFDJ vuole trasformare la società eritrea: attraverso il servizio militare per adesso cerca di controllarla il più strettamente possibile dal punto di vista ideologico mentre utilizza le reclute per la realizzazione di infrastrutture e vie di comunicazione come strade, cliniche, scuole, edifici pubblici e militari. Queste operazioni sono sotto il comando di una lista di veterani dell’EPLF che formano gli ufficiali dell’esercito regolare, a cui sono sottoposte le reclute e i coscritti nel servizio militare. Oltre a questo, e qui si scorge anche l’utilità ideologica di questo sistema pesantemente coercitivo, il personale militare viene anche impiegato anche nelle scuole come corpo insegnante, essenziale per inculcare principi in armonia con quelli di partito.

I militari lavorano anche nelle cliniche come personale medico, oltre che ovviamente in strutture pubbliche in qualità di impiegati e funzionari. In questo modo l’esercito controlla tutto lo “sviluppo” del paese e si assicura l’obbedienza con i metodi violenti che la testimonianza di Hadgu e i report delle associazioni umanitarie ben descrivono. Nello stesso tempo lo Stato si garantisce ampia quantità di manodopera a prezzi bassissimi, in quanto i militari vengono pagati pochissimo per i lavori che svolgono.

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La spinosa questione dei bambini soldato

Una questione spinosa di cui parla sia la testimonianza di Hadgu sia il report di Amnesty International è la presenza di bambini soldato nell’esercito eritreo. Più precisamente, i racconti parlano di reclutamento forzato di ragazzini tra i 14 e i 16 anni, e secondo Hadgu questi sono particolarmente “ricercati” dall’esercito per avviarli a quello che egli chiama “addestramento al comando”, il che evidentemente implica anche una preparazione ideologica in quanto queste giovanissime reclute dovranno diventare i capi di domani.

La problematica dei bambini soldato è uno degli esempi più evidenti dello scarto tra il discorso umanitario universalista e il discorso antropologico. Secondo qualsiasi organizzazione per i diritti umani i bambini soldato rappresentano un abominio, ed è difficile dare torto a questa rappresentazione nutrita con le narrazioni ben conosciute sui bambini costretti a uccidere i propri genitori, rapiti, drogati e costretti a combattere nei gruppi armati irregolari in diverse zone del mondo. Del resto, la posizione che occupano i bambini nella cultura occidentale nei casi di violenza è sempre quella delle vittime: non se ne parla mai come di attori sociali consapevoli. Tale categorizzazione è riservata a tutti coloro che hanno compiuto 18 anni: prima di quel compleanno la posizione delle associazioni umanitarie è quella di ritenere chiunque non responsabili le delle proprie azioni, o più precisamente viene negata qualsiasi agency, cioè la “capacità di agire secondo scelte razionali in rapporto a obiettivi, valori e presupposti culturali” (la cosiddetta posizione “straight-18”).85 Ma adottare questa posizione in un contesto completamente diverso dall’Occidente, in culture completamente “altre”, è un esempio lampante di proiezione universalistica di un concetto assolutamente etnocentrico. In molte altre culture il bambino diventa uomo ben prima dei 18 anni.

Anche l’immagine che abbiamo dei bambini soldato non è scevra da “influenze ideologiche”: il bambino soldato per antonomasia è il dodicenne della Sierra Leone che imbraccia un AK-47, fucile con cui probabilmente non ha mai sparato perché

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pesa più di quattro chili. Se tale rappresentazione ci disgusta, che dire dei bambini soldato ebrei che lottarono con i partigiani contro i nazisti nei movimenti sionisti e socialisti?86 O ai bambini soldato tra i nostri partigiani italiani? La condanna morale non può essere la stessa. In ogni caso, a parte la questione morale, il nocciolo della questione è un altro: assolvere ogni bambino soldato, indipendentemente da quando, cosa e perché lo ha fatto, può provocare l’insorgere di altri problemi alla fine delle ostilità. Prendiamo brevemente l’esempio della Sierra Leone, dove i bambini soldato hanno commesso oscene atrocità e dopo la guerra sono diventati manodopera sfruttata negli stessi giacimenti diamantiferi che prima cercavano di controllare. Si è cercato di reintrodurre in alcune zone gli ex-bambini soldato, ma questi non sempre sono stati ben accolti, come è comprensibile dopo quello che avevano fatto. Chi aveva meno di 18 anni all’epoca dei fatti è stato dichiarato non perseguibile, e questo non ha soddisfatto il senso di giustizia delle famiglie vittime dei crimini commessi dai bambini soldato. Alcuni di questi adesso chiedono scusa, ed è veramente difficile stabilire le precise responsabilità (Rosen 2005, pp.130-4).

Quello che potrebbe accadere in Eritrea è una versione locale di quello che Levi definiva la “zona grigia” nel secondo capitolo de I sommersi e i salvati riferendosi al contesto concentrazionario nazista, dove a discapito della riduzione schematica necessaria per la sua comprensione, non esisteva una linea che separava nettamente vittime e carnefici.87 In che senso? Nel senso che alcuni oppressi divenivano oppressori a loro volta. Il caso limite che propone Levi e su cui ritorna Agamben è quello del Sonderkommando, cioè quel gruppo di detenuti a cui spettava la gestione dei crematori, ma quello che più fa al caso nostro è la figura del Kapò: capisquadra privilegiati rispetto agli altri prigionieri sui quali avevano il potere assoluto; e lo dimostravano non di rado, picchiandoli selvaggiamente, anche uccidendoli. La vittima era diventata l’oppressore. I giovani coscritti in Eritrea e avviati all’“addestramento al comando” è probabile che in futuro facciano parte

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V. Rosen 2005,

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della “casta” al potere ed esercitino la violenza e la tortura sugli altri, come è successo a loro.

Sarà importante, quando si esaurirà questa fase storica, valutare bene le responsabilità anche di coloro che oggi appaiono come le vittime assolute della tragedia eritrea, se si desidera una giustizia che possa essere accettata dalle vittime “reali”.

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CAPITOLO 7