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ANALISI SITUAZIONALE: IL TURNO DI NOTTE NEL CAMPO 1A DELLA PRIGIONE DI ABU GHRAIB

SITUAZIONISMO AD ABU GHRAIB

ANALISI SITUAZIONALE: IL TURNO DI NOTTE NEL CAMPO 1A DELLA PRIGIONE DI ABU GHRAIB

Avendo avuto esperienza nel campo delle prigioni, lo “Staff Sergeant” Frederick venne assegnato al comando di un piccolo gruppo di altri riservisti della Polizia Militare durante il turno di notte. Il suo compito era di sorvegliare le attività nei quattro campi del sistema di detenzione, che includeva circa 400 detenuti. Poco dopo che Bush ebbe dichiarato “missione compiuta” la situazione divenne un inferno, con continui attacchi al campo. Gli ordini, nel caso di un attacco, erano di rastrellare tutta la zona e arrestare ogni sospetto. Questo portò alla deportazione di interi nuclei familiari. L’età media nel campo era intorno ai 20 anni, ma non mancavano bambini di dieci e ultrasessantenni, tutti insieme nelle stesse celle. Ovviamente il Sergente Frederick non era preparato a questo, ma non sapeva

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neanche a chi rivolgersi perché nel campo i superiori non c’erano quasi mai, specie durante il turno di notte che veniva quindi svolto senza supervisione. Frederick avrebbe voluto avere indicazioni precise di cosa fare, dato che stavano internando uomini, donne e malati di mente senza distinzione, violando (secondo lui) il codice militare (Zimbardo 2007, p. 346).

Anche il ritmo di lavoro era massacrante: il suo turno cominciava alle 4 di pomeriggio e terminava 12 ore più tardi, quando andava a dormire… in una cella! Infatti, come abbiamo già detto, lo spazio era ridottissimo all’interno dell’hard site, mentre all’esterno il pericolo di attacchi era troppo alto. Questo ritmo veniva tenuto per ben quaranta giorni di seguito (sette giorni su sette), dopodiché il Sergente aveva un giorno di riposo.

Un altro problema, per un uomo abituato a stare in allenamento, era la scarsissima qualità dei pasti (che spesso addirittura saltava) e l’impossibilità di fare attività fisica regolare. Certo, si trovava in “guerra”, sapeva a cosa andava incontro, ma la situazione era estremamente stressante (nonché scandalosamente disorganizzata).

Nel campo non si trovavano soltanto poliziotti militari e prigionieri: spesso arrivavano contractors civili (forniti dalla Titan Corporation) che dovevano compiere gli interrogatori o aiutare come traduttori, e ancora più spesso si aggiravano nei campi di prigionia agenti della CIA. Questi non fornivano quasi mai il nome e non portavano alcun tesserino identificativo, agendo quindi in una situazione di deindividuazione. Abbiamo visto dall’esperimento di Stanford la pericolosa riduzione del senso di responsabilità personale che questa condizione comporta. Infatti, alcune indagini dell’esercito hanno scoperto che i membri dell’intelligence si erano resi responsabili di alcuni tra i peggiori “abusi” sui prigionieri. Frederick aveva in custodia, ad esempio, anche 15-20 “detenuti fantasma”, così definiti perché non esisteva alcuna prova della loro incarcerazione. Erano ritenuti prigionieri importanti, e per questo gli interroganti avevano dato disposizione di utilizzare qualunque mezzo disponibile per estrapolare “informazioni utili” (actionable intlligence). Il Ser. Frederick testimoniò di aver visto un membro della Delta Force uccidere uno di

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questi detenuti fantasma: ma a nessuno importò nulla.71 Dentro Abu Ghraib, a nessuno importava cosa succedeva.

Possiamo notare diverse somiglianze (fatte le debite proporzioni) tra la situazione di Abu Ghraib e l’esperimento di Stanford, riconoscendo alcuni punti chiave che hanno portato alle torture sui detenuti. In primo luogo la forte deindividuazione in cui tutti erano immersi: i soldati per il caldo non portavano neanche le uniformi (su cui avevano i tesserini), mentre i contractors e gli agenti della CIA non fornivano neanche i loro nomi. La condizione di anonimato in cui tutti versavano può essere ritenuto uno dei fattori che più hanno influenzato il comportamento delle guardie, che non si sentivano responsabili delle proprie azioni. Come le guardie dell’esperimento di Stanford, anche i militari ad Abu Ghraib sentirono la mancanza di addestramento e di regole specifiche. Anche la costante noia è una similitudine con la situazione vissuta dai partecipanti all’esperimento di Zimbardo: è pericolosa perché spinge alla ricerca di eccitazione. Con la mancanza di supervisione da parte di ufficiali superiori le guardie avevano un potere totale sui prigionieri, e vennero scelti per i giochi perversi dei militari annoiati. Bisogna aggiungere anche la forte paura che tutti provavano: quotidianamente si verificavano attacchi al campo dall’esterno, ma anche nell’hard site c’era poco da star sicuri. Le guardie irachene che collaboravano con gli americani erano corrotte, e oltre a facilitare la fuga ai detenuti, permettevano l’introduzione nelle celle di armi.72 Tutti questi fattori rendevano la situazione bollente: possiamo dire che si trattava davvero di un “cesto marcio”, in grado di corrompere anche le mele buone. Questa è anche la conclusione (inserita nell’Appendice G) cui giunse uno dei rapporti sugli abusi

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Si trattava di Al-Jamadi, soprannominato “Ice-man” perché dopo averlo ucciso venne infilato in un sacco per cadaveri pieno di ghiaccio per rallentare la putrefazione. È presente in una delle foto giunte ai media: lui nel sacco con il ghiaccio, accanto a Lynndie England sorridente che mostra il pollice alzato. Tra l’altro, è stato ammesso che dalla morte di questo detenuto-fantasma non è stata tratta alcuna informazione utile. V. Zimbardo 2007, pp. 409-11.

72 Una volta scoppiò una rivolta con un detenuto armato di fucile a pompa, munizioni e baionette. V.

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occorsi ad Abu Ghraib, redatto da una giuria indipendente e diretto da James Schlesinger (che incontreremo di nuovo):

“Il potenziale per il trattamento abusivo dei detenuti durante la Guerra Globale al Terrorismo era del tutto prevedibile in base alla fondamentale comprensione di principi di psicologia sociale accoppiati alla consapevolezza di numerosi fattori di rischio ambientali conosciuti. Tali condizioni non scusano e neanche assolvono gli individui implicati in comportamenti deliberatamente immorali o illegali, sebbene certe condizioni abbiano elevato la possibilità di trattamenti abusivi”.73

L’Appendice continua, e cita esplicitamente l’esperimento di Stanford, che avrebbe dovuto essere di monito per evitare le torture che si sono poi verificate. La psicologia sociale non può prevedere la reazione di ciascun singolo individuo di fronte alle pressioni di una data situazione. Ma può prevedere il comportamento di un gruppo di persone in quella situazione. A riprova che le torture dipesero più dalla situazione che dai singoli coinvolti, i militari americani di Abu Ghraib non furono gli unici ad abusare dei prigionieri. Anche dei soldati britannici torturarono i prigionieri detenuti nella prigione di Basra: anche in questo caso spesso gli abusi ebbero carattere sessuale e omofobico, del tutto simili a quelli di Abu Ghraib. E chissà quanti casi di torture non conosciamo…

Il Ser. Ivan “Chip” Frederick venne accusato di cospirazione al fine di maltrattare i detenuti, abbandono del posto, maltrattamento di detenuti (per l’uomo incappucciato con gli elettrodi, che era stato convinto di dover rimanere con le braccia sollevate altrimenti sarebbe stato elettrificato), atti indecenti con altri (forzò alcuni detenuti a masturbarsi di fronte ad altre persone, sia uomini che donne). Frederick si era già definito colpevole, e la testimonianza di Zimbardo doveva servire per mostrare le specifiche influenze situazionali che avrebbero portato lui e gli altri a commettere quelle azioni. Purtroppo per Frederick, la testimonianza del

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professore non ebbe molto peso, e il verdetto lo condannò a otto anni di carcere. Soltanto lui, Charles Graner (che aveva svolto un ruolo paragonabile a quello di Guardia Hellmann nell’esperimento di Stanford) e Lynndie England (la ragazza con l’iracheno al guinzaglio e che filmava i rapporti sessuali con Graner) subirono una condanna maggiore di un anno e mezzo di carcere. Le altre pene variavano tra una lettera di reprimenda e sei mesi di carcere. Risultò evidente che le foto rese pubbliche avevano avuto un peso notevolissimo.

È difficile dire se otto anni di carcere siano una pena equa, eccessiva o insufficiente. Il problema è che in quel tribunale vennero processati gli esecutori materiali delle torture, ma non si prese in esame la questione scottante della responsabilità oggettiva di altri soggetti più in alto nella catena di comando. Perciò, Zimbardo avanza di un livello la sua analisi, per andare a ricostruire il Sistema che aveva creato la Situazione appena analizzata.

ANALISI SISTEMICA: GLI ALTI GRADI DELL’ESERCITO E