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ANALISI LIBIA/1 – IL RUOLO DELL’EUROPA

QUELLO CHE SUCCEDE IN LIBIA

ANALISI LIBIA/1 – IL RUOLO DELL’EUROPA

Ampliando l’analisi a livello sistemico, tra le cause delle torture nelle prigioni libiche dei richiedenti asilo occorre annoverare il processo di esternalizzazione dell’Unione Europea in generale e dell’Italia in particolare nella gestione, o potremmo dire nella difesa (come se ci fosse qualcosa da difendere) dei confini meridionali. Lo scopo di questa esternalizzazione è quello di prevenire che troppi (e verrebbe da chiedere sulla base di cosa si decide il numero giusto) richiedenti asilo giungano in Europa. L’Italia, per ovvi motivi geografici e storici, è in prima linea nella gestione delle

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relazioni con la Libia, accordandosi e aiutandola nel mantenere i richiedenti asilo al di là del Mare Nostrum con accordi i cui particolari non sono stati mai resi noti.

Come afferma Human Rights Watch (2006, pp. 91, 92), è dalla metà degli anni ’80 che l’Europa tenta questa sorta di esternalizzazione, la quale ha preso più corpo negli ultimi 10-15 anni. I principi base indicanti la direzione in cui si sta muovendo l’Unione Europea sono tre, che in parte si sovrappongono:

1. “Paese terzo sicuro”: i richiedenti asilo sono riammessi in quelli che si ritengono essere Paesi terzi sicuri esterni all’UE attraverso i quali sono transitati, sempre più spesso ponendo scarsa attenzione all’effettiva protezione riservatagli in questi Paesi. Coloro che sono rimpatriati verso presunti Paesi sicuri sono spesso sottoposti a ulteriorideportazioni verso Paesi con minore capacità di valutare equamente le loro richieste o di soddisfare le loro necessità di base. Alcuni Stati membri dell’UE hanno applicato il concetto di “paese terzo sicuro” per un certo periodo di tempo, basandosi su una rete di accordi di riammissione bilaterali o multilaterali, la maggior parte dei quali contengono scarse tutele per i richiedenti asilo.

2. “Capacity building”: strettamente collegata al concetto di “paese terzo sicuro” si serve della cooperazione allo sviluppo per creare sufficienti condizioni di protezione in un paese terzo affinché gli Stati dell’UE possano concludere accordi di riammissione con il governo di quel paese. In tal modo i richiedenti asilo verrebbero rimpatriati verso paesi in grado di assicurare loro standard di protezione minima. Questa versione contiene un elemento positivo relativo alla formazione preventiva di competenze (“preventive capacity building”); in tal modo, un minor numero di migranti e rifugiati sentirebbero la necessità di percorrere pericolose strade in mano ai trafficanti e sarebbe per loro più facile trovare protezione nella regione. Tuttavia, la maggior parte dell’assistenza per la formazione di competenze dell’UE verso i paesi in cui transitano o trovano ospitalità i rifugiati è andata al rafforzamento dei controlli di confine e al pattugliamento dell’immigrazione.

3. “Appalto”: in base a questa versione, tutti i richiedenti asilo o la maggior parte di quanti giungono o presentano domanda in Stati dell’UE verrebbero inviati verso paesi al di fuori della stessa e i loro casi sarebbero gestiti da funzionari di nomina UE. I richiedenti asilo sarebbero avviati in centri di transito al fine della valutazione delle loro richieste in Paesi al di fuori dell’UE, indipendentemente dal fatto di essere passati

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attraverso quei Paesi. Gli Stati membri dell’UE non sarebbero legalmente vincolati a garantire la tutela dei rifugiati, ma potrebbero selezionare e decidere chi e quanti rifugiati accettare. Quasi certamente i richiedenti asilo vedrebbero ridurre notevolmente i loro diritti procedurali di presentare ricorso e di ricevere l’assistenza di un legale. Mentre i richiedenti la cui richiesta è stata accettata sarebbero ricollocati in uno Stato membro dell’UE in base a delle quote, rimane poco chiaro per quanto tempo essi dovrebbero attendere per ricevere un’offerta di ricollocazione, come sarebbero trattati una volta riconosciuti quali rifugiati ma in assenza di un’offerta di ricollocazione, o cosa accadrebbe ai richiedenti la cui domanda viene respinta.

In pratica, si cerca quindi di tenere lontani i richiedenti asilo dalle coste europee da una parte impegnandosi a sviluppare le capacità di un paese terzo vicino di fornire assistenza ai richiedenti asilo e dall’altra “appaltando” l’esame stesso della richiesta per far arrivare in Europa solo coloro la cui domanda viene accettata: in quel momento sarebbe deciso infatti dove far stabilire i rifugiati che sarebbero portati a destinazione in maniera sicura, senza obbligarli ad affrontare pericolose traversate per mare.

Se tra il dire e il fare non ci fosse di mezzo (quasi letteralmente…) il mare, questi principi potrebbero anche essere accolti, ma come vengono attuati nella pratica e che garanzie offrono i paesi terzi? Tra questi ovviamente c’è la Libia, che venne già coinvolta alla fine degli anni ’90 nella questione. Venne infatti deciso alla III Conferenza euromediterranea che la Libia poteva diventare partner del cosiddetto Processo Barcellona (un insieme di accordi tra paesi europei e nordafricani che si affacciano sul Mediterraneo) in quanto aveva accettato le condizioni necessarie, tra cui la promessa di agire in conformità alla Dichiarazione universale del 1948, lo sviluppo di un sistema politico democratico e pluralista, la lotta all’intolleranza e al razzismo.

Avendo visto quello che succede nelle carceri libiche, come vi vengono trattati i migranti e i richiedenti asilo e sapendo che la Libia ha ratificato, tra gli altri, la Convenzione contro la tortura e i trattamenti crudeli, inumani e degradanti (incluso il primo protocollo opzionale) e la Convenzione internazionale sulla protezione dei

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diritti dei lavoratori migranti e dei loro familiari, cioè essendo a conoscenza di come stanno le cose nei fatti e sulla carta, il fatto che nessun paese europeo si sia mai pronunciato contro l’inclusione della Libia nel Processo Barcellona o in altre relazioni riguardanti l’immigrazione mostra in tutta la sua evidenza che dietro a questi accordi ci sono ben altri interessi che quelli dei richiedenti asilo.

Una delle riserve della Libia nella partecipazione ai tavoli sull’immigrazione era infatti relativa all’offerta di 9 milioni di dollari l’anno da parte dell’Unione Europea come contributo per fermare l’immigrazione clandestina. Solo le spese stanziate dai libici (o meglio: che hanno affermato di aver stanziato) nei successivi dieci anni per lo sviluppo di paesi fonte di emigrazione erano leggermente superiori: 3-400 milioni di dollari ogni anno, 3-4 miliardi in totale (Human Rights Watch 2006, p. 99).

Come molte altre questioni riguardanti i diritti umani, queste vengono seppellite da altre ritenute più importanti o più urgenti. In questo caso la cosa è quasi banale, specie nel caso italiano, emblematico dell’atteggiamento Europeo in generale. La preoccupazione principale dell’Italia non è mai stata la questione umanitaria, l’aiutare i richiedenti asilo che arrivano sul suolo italiano, bensì la questione politica, che imponeva di bloccare nella massima misura possibile gli sbarchi a Lampedusa in nome di una fantomatica “sicurezza percepita”: si accomunavano (e si continuano ad accomunare) erroneamente l’immigrazione clandestina con gli sbarchi e con la criminalità.91 Per non perdere voti e magari guadagnarne altri era perciò necessario fermare quegli sbarchi che dalla primavera inoltrata fino all’estate invadevano i telegiornali preoccupando la pancia di molti elettori.

Questa “politica della paura” ha avuto nella destra xenofoba italiana i suoi migliori interpreti, sempre pronti a parlare alla “pancia” degli elettori. Ma questo genere di politica purtroppo non è presente solo nella destra italiana: è un atteggiamento trasversale, sia in Italia che in Europa. Come afferma Žižek (2008, pp. 45-47) oggi predomina quella che egli chiama biopolitica postpolitica. Il filosofo sloveno intende

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