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DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO (1789)

LE GRANDI DICHIARAZIONI DEL ‘

DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO (1789)

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 è di importanza capitale nella storia dei diritti umani, in quanto per la prima volta un documento “umanitario” possedeva un impulso universale. Non era certo la prima volta che veniva emanata una dichiarazione di diritti, ma per la prima volta l’oggetto del documento non erano solo i cittadini di una nazione ma, almeno idealmente, tutta l’umanità. Nella Dichiarazione infatti non vengono menzionate classi o gruppi particolari, mentre si parla dei diritti “naturali, inalienabili e sacri dell’uomo”, degli “uomini” che “nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”, come è scritto nel preambolo e nel primo articolo. E proprio dal preambolo si intuisce l’ampiezza ideale della Dichiarazione:

“I rappresentanti del popolo francese, costituiti in Assemblea nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le sole cause delle sventure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno deciso di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro continuamente i loro diritti e i loro doveri; affinché gli atti del potere legislativo e quelli del potere esecutivo ritraggano maggior rispetto dal poter essere in ogni istante messi a confronto con il fine di ogni istituzione politica; affinché i reclami dei cittadini, avendo d’ora in poi a proprio fondamento princìpi incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della costituzione e la felicità di tutti. In conseguenza, l’Assemblea nazionale riconosce e dichiara in presenza e sotto gli auspici dell’Essere Supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino”.

Solo l’incipit in cui viene presentato l’“autore” della Dichiarazione (il popolo francese, attraverso i suoi rappresentanti) tradisce la specifica origine del documento, il soggetto particolare che lo ha enunciato. L’oggetto, invece, è molto più generale: sono i “governi” in generale, che hanno le radici dei loro problemi radicate nel disprezzo dei diritti naturali dell’uomo, e “ogni istituzione politica”, che attraverso la separazione dei poteri e i reclami dei cittadini che possono/devono

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controllarne l’operato deve mantenere vivo il rispetto dei principi presentati nella Dichiarazione.

La Dichiarazione del 1789 porta quindi questa importante novità: ma, nonostante le pretese universalistiche, rimane pur sempre un documento elaborato in un preciso contesto storico con influenze sia sincroniche che diacroniche che possiamo individuare. Se le fondamenta della Dichiarazione provengono indubbiamente dal clima illuministico-razionalista europeo e dallo spirito rivoluzionario dell’epoca, i suoi “muri portanti” sono essenzialmente francesi, date le diverse dottrine sociali elaborate dai più famosi illuministi transalpini che prepararono la strada verso il riconoscimento dei diritti dell’uomo. Con l’aggiunta dello spirito rivoluzionario si rese possibile l’idea di elaborare una Dichiarazione dei diritti con un target (idealmente) universale.

Tra i philosophes che più influenzarono il pensiero politico francese (e conseguentemente europeo, data la valenza di modello di Stato di diritto portato dalla Rivoluzione in Francia e da Napoleone in Europa) ricordiamo Voltaire, con la sua accanita difesa della libertà di pensiero e di espressione contro le ingerenze sia del sovrano che della Chiesa cattolica. Il suo modello ideale (e idealizzato) era l’organizzazione politica dell’Inghilterra, dove vigeva una monarchia parlamentare in cui i poteri del sovrano erano limitati in modo da renderlo “potentissimo per fare il bene” ma con “le mani legate per fare il male”, e in cui “i signori sono grandi senza insolenza e senza vassalli e in cui il popolo partecipa al governo senza confusione”.22 Al contrario, in Francia, i parlamenti e soprattutto il clero limitavano i diritti religiosi e civili di tutti. Uno stato laico per Voltaire era quindi necessario per ottenere quella tolleranza che gli stava tanto a cuore, e credeva che un sovrano “illuminato” avrebbe potuto portare importantissime novità nella società, come in parte stava facendo Luigi XIV con la sua riorganizzazione della nazione.

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Un altro illuminista che contribuì alla creazione di quel clima necessario per ideare una Dichiarazione dei diritti dell’uomo è Montesquieu, spesso in polemica con Voltaire ma anche con degli importanti punti in comune.23 Innanzitutto, Montesquieu elaborò la fondamentale divisione dei poteri come garanzia di un sistema di governo bilanciato e non dispotico: l’importanza di questa concezione è evidenziata dal fatto che venne subito accolta nella Dichiarazione del 1789 e divenne anche un cardine della Costituzione francese. Con Voltaire condivideva l’ammirazione per il modello inglese, il quale garantiva un controllo reciproco tra i poteri e molte libertà (di stampa, di religione, nelle iniziative commerciali) ai propri cittadini. Per Montesquieu, il fulcro di un buon sistema politico (che egli identifica con le monarchie costituzionali) si trova nell’obbligo di obbedire alle leggi, le quali però non devono essere uguali per tutti ma anzi garantire diritti diversi a ciascuno: l’obiettivo quindi non è un’uguaglianza sociale o un’uniformità giuridica ma la sovranità della legge. Questa si deve accordare con le leggi naturali impresse nei cuori degli uomini, in una sintonia tra diritto positivo e diritto naturale che abbiamo già trovato nei Bill of rights degli Stati coloniali in America: dalla seconda metà del ‘700 in Francia si sviluppa l’idea che le legislazioni positive debbano essere un’emanazione di una preesistente legge naturale universale. In particolare, questa sintonia si manifesta “nella legittimità della ricerca del benessere, con evidenti implicazioni di concretezza “borghese”: compiti delle arti e delle leggi era contribuire alla prosperità di tutti… “più le arti saranno coltivate e la proprietà assicurata, più la legge naturale sarà stata effettivamente assicurata”24. È evidente come la diffusione dell’idea di una legge fondamentale di natura a cui tutti sono sottoposti e con la quale deve andare a braccetto il diritto positivo è una premessa indispensabile per l’elaborazione di una Dichiarazione dei diritti dell’uomo con anelito universale. Montesquieu, che tra l’altro si opponeva alla condizione di schiavitù, aveva già un pensiero “universalista”: “Ogni dovere particolare soccombe,

23 Voltaire difendeva le prerogative monarchiche e discuteva con Montesquieu soprattutto sulla

distinzione fondamentale tra assolutismo e dispotismo.

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quando, per osservarlo, non sia possibile adempiere ai doveri che ci concernono come uomini. Si può pensare al bene della patria quando è in gioco il bene dell’umanità? Certamente no! Il dovere cui adempiamo come cittadini diventa un crimine quando ci fa dimenticare il nostro dovere di uomini”25.

Anche Rousseau mise al centro della sua teoria politica la libertà, soprattutto quella “civile”, contrapponendola alla libertà naturale che hanno tutti gli uomini nell’originario “stato di natura” e che barattano con la prima quando entrano a far parte di una società. Nel Contratto sociale (1762) esprime la sua idea di come dovrebbe essere un governo giusto: dato che nessun uomo per natura è subordinato ad un altro, occorre che la società sia organizzata tramite l’accordo di tutte le volontà per far sì che l’autorità sia legittima. Secondo Oestreich “sfugge così al democratico Rousseau il vero problema dei diritti dell’uomo, che consiste nel provvedere all’uomo una sfera individuale riservata, contro un potere statale a lui estraneo” (Oestreich 1978, p. 74). Nell’utopia di Rousseau (utopia fino a un certo punto: egli si ispirava alla sua Repubblica Ginevrina, della quale tesse le lodi all’inizio del Contratto sociale e della quale si proclama “cittadino di un libero Stato e membro del corpo sovrano”)26 “ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere, sotto la suprema direzione della volontà generale”27. Data questa comunanza di volontà nella costituzione della società, il corpo sovrano è il popolo: a differenza di Montesquieu e Voltaire, Rousseau critica il governo inglese perché, secondo lui, il popolo inglese crede di essere libero, ma lo è soltanto nel momento in cui vota. Rousseau è contro il sistema di rappresentanza, per lui la vera libertà si manifesta nella possibilità del popolo (il quale esprime la volontà generale) di decidere su ogni legge. Egli è stato accusato anche di aver posto le basi del pensiero totalitario, anche per la mitica figura del “legislatore”, un “uomo straordinario” in grado di creare in una comunità primitiva le istituzioni che

25 Montesquieu, Lo spirit delle leggi, 1748, cit. in Oestrich 1978, p. 73. 26

Rousseau, Contratto sociale, 1762, cit. in Tortarolo 1999, p. 143.

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armonizzino la volontà generale. L’accusa cade nel vuoto: il desiderio espresso da Rousseau era ben diverso: la vera libertà, ciò che gli stava più a cuore, sarebbe stata ottenuta solo in una comunità di uomini liberi ed eguali in grado di esprimere attraverso la propria volontà generale delle leggi che non fossero autodistruttive ma che, invece, portassero prosperità a tutta la società. Un pensiero, quindi, in un certo senso meno incentrato sui diritti e le libertà individuali rispetto a molti suoi contemporanei, e più rivolto a un egualitarismo sociale. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, non sarà una voce molto ascoltata.

Avranno più influenza invece i fisiocrati, in particolare Mirabeu che fu addirittura presidente del comitato per la Dichiarazione nell’Assemblea nazionale costituente. Per i fisiocrati la ricchezza proviene dalla terra, dall’agricoltura, e chiedevano allo Stato di rilanciarla. Il loro interesse principale era l’economia: in particolare elaborarono la teoria del “dispotismo legale” o “monarchia economica”, secondo cui il sovrano deve seguire e far seguire le leggi naturali dell’economia. Non si sarebbe seguito quindi una legislazione arbitraria, ma quella naturale dell’ordine delle cose: anche qui torna quindi il parallelo tra diritto positivo e diritto naturale, interpretato però in questo caso in seno all’economia, tant’è vero che le leggi fondamentali, immutabili in natura, per Mirabeau sono la proprietà personale (intesa nel senso del “diritto al libero sviluppo della persona”),28 il diritto alla proprietà mobiliare e terriera, della libertà economica e della sicurezza giuridica; i diritti fondamentali sono invece la proprietà, la libertà (soprattutto economica), e la sicurezza. Accanto a questi, proprio per l’importanza data all’economia nelle loro teorie politiche, si trovano altri diritti sociali come quello al lavoro (“diritto inalienabile all’uomo”), “alla libera scelta professionale, alla libera circolazione, all’esenzione da reclutamenti coatti, ma anche all’educazione, quale premessa all’innalzamento economico di tutti gli strati sociali. Come in Inghilterra il concetto della property, così anche in Francia la propriété includeva un’ampia gamma di fattori essenziali alla vita economica, con determinazione diversa a seconda delle

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epoche” (Oestreich 1978, p. 75). Infatti in Inghilterra per property si intendeva l’insieme dei diritti di libertà riconosciuti a una persona, incluso quello di disporre della propria forza lavoro e delle proprie capacità ai fini della propria sussistenza.29 È interessante il relativismo della parola “proprietà” nell’Inghilterra del XVII-XVIII secolo e nella Francia del ‘700: una diversità, forse un’evoluzione, anche semantica che comporta grandi differenze e soprattutto un ampliamento di significato. Sia la

property che la propriété hanno nel loro significato una stretta relazione con il

lavoro: da parte inglese includeva la libertà nell’uso della propria forza lavoro, mentre per i fisiocrati significa libertà individuale nell’iniziativa economica. I due concetti sono, se non imparentati, almeno simili. Ma la propriété naturelle francese era concepita anche in contrasto con la schiavitù dei neri (oltre che contro varie forme di servitù feudale), che non potevano essere privati di questo insieme di diritti. L’ampliamento del concetto di “proprietà” possiamo dire che porta con sé anche un ampliamento del concetto di “uomo”. Abbiamo visto la contrapposizione tra “schiavi neri” e “uomini liberi” nel caso degli Stati coloniali in America: agli schiavi neri non erano concessi quei diritti per cui i coloni si sarebbero battuti di lì a breve contro la propria madrepatria; per i fisiocrati invece anche loro, in quanto uomini, godono dei diritti fondamentali tra cui la propriété e i suoi “diritti collaterali” come la libera scelta della propria professione. Credo che questa espansione denotativa sia stata uno dei presupposti per arrivare a stipulare una Dichiarazione dei diritti dell’uomo con aspirazioni universalistiche.

Ad ogni modo, la nuova interpretazione in chiave antifeudale del diritto di proprietà fu un elemento rivoluzionario, come molte altre rivendicazioni basate sul diritto di natura, nella consapevolezza che teoria sociale e diritto dovessero andare nella stessa direzione. Come scrive ancora Oestreich (1978, p. 76), “la fusione di diritto

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Scrive Oestreich sulla property: “Il concetto della property (=proprietas), nel Medio Evo e anche nel XVII secolo, era molto più esteso di oggi. Il suo campo includeva l’insieme dei diritti di libertà

riconosciuti ad una persona. Liberty e property, durante il XVII secolo, erano termini inseparabili; e per il singolo la property denotava anche la libera facoltà di disporre della propria forza lavoro e delle proprie capacità ai fini dell’autoconservazione. Si trattava dunque dell’ambito giuridico personale, con inclusi i diritti di faida e di resistenza”. V. Oestreich 1978, p. 44.

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storico e naturale valse già a preparare il terreno a una dichiarazione di diritti fondamentali. Essa ormai non necessitava che dello slancio rivoluzionario… cui la Rivoluzione americana avrebbe offerto un ulteriore modello di riferimento”.

In Francia non tutti erano d’accordo sullo stipulare una dichiarazione dei diritti: il significato politico di totale separazione dal vecchio sistema politico non era quello che desideravano tutti, ma molte delle cahiers de doléances (delle richieste e lamentele da presentare al re, sotto sua esplicita richiesta) chiedevano dei diritti, se non universali almeno specifici: chi la tolleranza religiosa, chi la libertà di espressione, chi l’uguaglianza di fronte alla legge. Alcuni, soprattutto dei nobili, come quelli della regione di Béziers, chiesero esplicitamente all’assemblea generale di stilare una dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (Hunt 2007, p. 102). Il dibattito tra chi esigeva un nuovo governo alla cui base vi fossero i diritti dell’uomo e coloro che avrebbero preferito riformare la monarchia già esistente non è molto chiaro: sicuramente molti deputati ritenevano che una proclamazione del diritto di uguaglianza avrebbe potuto causare non pochi problemi nella società francese, molto più differenziata socialmente rispetto a quella americana. In ogni caso il 4 agosto venne deciso di apporre una dichiarazione dei diritti all’inizio della nuova Costituzione: così veniva segnato lo scopo del nuovo Stato, ovvero difendere proprio tali diritti dell’uomo.

Inizialmente il dibattito dell’Assemblea si incentrò su quello che sarebbe stato il preambolo della dichiarazione, e ci mostra l’impulso universalista che pervadeva i deputati. Si disquisiva infatti se i diritti avessero origine dalla natura o da Dio: nel clima razionalista dell’Illuminismo, prevalse la prima opzione, anche se nel preambolo la dichiarazione venne descritta come elaborata “sotto gli auspici dell’Essere supremo” per accontentare la maggior parte della popolazione, che era religiosa, e soprattutto il potente clero (Oestreich 1978, pp. 78-9 e Hunt 2007 pp. 104- 5). La pretesa di universalità risulta evidente sin dal primo articolo in cui si afferma, nella prima parte, che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”: non menzionando né gruppi né categorie particolari si indica tacitamente come i

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diritti elencati siano una prerogativa di tutte le persone in quanto tali. I diritti fondamentali, inalienabili, sono espressi nell’articolo seguente e vengono individuati nella libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Questi diritti devono essere assicurati dallo Stato (la cui sovranità richiede nella Nazione e non in gruppi specifici, secondo l’art. 3), che tramite la Legge intesa come espressione della volontà generale (art. 6) regola le libertà e l’esercizio dei diritti naturali stabilendo dei limiti: tali limiti sono “solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti” (art. 4). Il penultimo articolo afferma che uno Stato che non difende i diritti naturali dell’uomo e non ha una separazione tra i poteri non ha una Costituzione, ribadendo quindi lo scopo del governo.

A livello pratico, come è ben risaputo, la sua applicazione non fu così universale: venne infatti decisa una contribuzione minima per poter partecipare attivamente alla vita pubblica che tenne fuori gran parte della popolazione dal diritto di voto. In effetti, l’uguaglianza di cui si parlava nella Dichiarazione era di un tipo ben specificato: la seconda parte del primo articolo, infatti, legittima le differenze sociali che “non possono essere fondate che sull’utilità comune”. La Dichiarazione non proclama quindi un uguaglianza reale tra tutti gli uomini, e neanche tra tutti i cittadini francesi. Certo, una pietra miliare della storia dei diritti umani era stata appena posta alla base della nuova Costituzione e il sistema di Ancien Régime con i suoi privilegi “castali” aveva ricevuto un colpo praticamente mortale, ma per ora a godere dei benefici di questi cambiamenti erano soprattutto i proprietari borghesi, alleatisi con i nobili nel circoscrivere la portata reale della Dichiarazione (Oestreich 1978, p. 81). L’uguaglianza proclamata nella Dichiarazione si rivolgeva contro i privilegi particolari della nobiltà come l’esercizio del potere di polizia e giustizia e i vantaggi sociali ed economici di cui tale classe godeva: si trattava di eliminare questi “diritti particolari” con l’affermazione di altri diritti universali di cui avrebbero avuto diritto tutti i cittadini (pur limitandone l’azione concreta), come afferma il preambolo alla Costituzione del 1791:

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“L’Assemblea nazionale, volendo stabilire la Costituzione francese sui princìpi ch’essa ha riconosciuto e dichiarato, abolisce irrevocabilmente le istituzioni che ferivano la libertà e l’uguaglianza dei diritti. Non vi è né nobiltà, né paria, né distinzioni ereditarie, né distinzioni di ordini, né regime feudale, né giustizie patrimoniali, né alcuno dei titoli, denominazioni e prerogative che ne derivavano, né alcun ordine cavalleresco, né alcuna delle corporazioni o decorazioni, per le quali si esigevano delle prove di nobiltà, o che supponevano delle distinzioni di nascita, né alcun’altra superiorità, all’infuori di quella dei funzionari pubblici nell’esercizio delle loro funzioni. Non vi è più né venalità, né eredità di alcun ufficio pubblico. Non vi è più, per nessuna parte della Nazione, né per nessun individuo, alcun privilegio o eccezione al diritto comune di tutti i Francesi. Non vi sono più né giurande, né corporazioni di professionisti, arti e mestieri. La legge non riconosce più né voti religiosi, né alcun altro legame che sia contrario ai diritti naturali, o alla Costituzione”30.

Nonostante la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 sia stata posta immediatamente prima della Costituzione, nel Titolo I di quest’ultima vengono riportate le “Disposizioni fondamentali garantite dalla Costituzione”. Queste traducono in diritto pubblico i diritti elencati nella Dichiarazione, e ne aggiungono anche di nuovi: ammissibilità di tutti i cittadini a qualunque impiego con l’unica discriminante delle proprie capacità, tassazione proporzionale, uguaglianza delle pene per ogni cittadino, libertà di circolazione e divieto di arresto arbitrario, libertà di pensiero, di stampa e di religione, di riunione; viene sancita l’inviolabilità della proprietà privata; vengono creati e organizzati i Soccorsi pubblici e l’Istruzione

pubblica gratuita “nelle parti d’insegnamento indispensabili a tutti gli uomini”.

Il prezzo dell’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi: il caso di Haiti

L’abolizione della schiavitù non fu automaticamente approvata dopo la Dichiarazione: anzi, era scontato che i diritti degli “uomini” non valessero per le donne né per gli schiavi. Di più, già l’8 marzo 1790 i deputati decisero che la

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Costituzione e la Dichiarazione non sarebbero stati applicati nelle colonie, con la motivazione che i principi contenuti in questi movimenti non erano applicabili nei territori coloniali a causa delle grandi differenze di luoghi, costumi, clima e prodotti, come sostenne il portavoce della commissione coloniale Antoine Barnave31. Giudizi degni del relativista più convinto, verrebbe da dire, se non li avesse pronunciati colui che è passato alla storia come l’inventore della “dialettica assembleare”: mentre gli altri erano abituati a leggere discorsi scritti e immodificabili, l’abilità dialettica e retorica di Barnave gli permettevano di esprimersi “a braccio” ma con discorsi lucidi e coerenti risultando molto più convincente dei suoi colleghi. Era tra l’altro uno dei più importanti esponenti della “sinistra” dell’assemblea, ma dopo la