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SITUAZIONISMO AD ABU GHRAIB

IDENTITA’, PERCEZIONE E TOLLERANZA

Inizialmente la mia intenzione era di studiare il caso dei richiedenti asilo, ma notando quanto appunto le narrazioni si somigliassero e la notevole varietà di categorie (sfollati, profughi, rifugiati, beneficiari di altri tipi di protezione, diniegati, clandestini…) che si differenziano tra loro in alcuni casi solo per motivi giuridici credo sia necessario fare un minimo di chiarezza terminologica. Anche perché la

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percezione comune viene influenzata notevolmente dal termine con cui si identificano singoli o gruppi di persone, modificando tra l’altro l’approccio empatico della cittadinanza, non solo di quella “globale” che ne sente parlare soltanto al telegiornale, ma anche di quella “locale” dove eventualmente possono essere portati i nuovi arrivati come è successo con coloro che fuggivano dai paesi nordafricani in fiamme proprio quest’anno. La tolleranza degli italiani (ma certo non solo), la nostra tolleranza, spesso è affetta dalla “sindrome di Nimb” ed in qualche modo etnocentrica. “Nimb” è un acronimo che sta per not in my backyard, “non nel mio cortile”, e si riferisce a tutte quelle situazioni in cui anche in presenza di una diffusa approvazione o riconoscimento della necessità di un determinato provvedimento (che può essere la costruzione di una discarica come l’ospitare dei migranti) la comunità che viene toccata materialmente si ribella alla decisione, proponendo eventualmente altri siti considerati più adatti. Nessuno vuole pagare più degli altri, sicuramente non per veder guadagnare l’affarista di turno ma spesso purtroppo neanche quando lo scopo è apprezzabile. L’etnocentrismo della nostra tolleranza è evidenziato invece dallo iato tra teoria e pratica: specie nel caso dei migranti, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare… Siamo tutti a favore dell’aiuto di persone che stanno peggio di noi, almeno finché tale aiuto non supera lo sforzo di mandare 2 euro via sms in beneficienza. Oltre a questo, è anche la nostra concezione pratica stessa di tolleranza che viene messa a dura prova dalla presenza nel “nostro” territorio dell’altro. Per noi tollerare in un certo senso significa non

disturbare, farsi gli affari propri, evitare il contatto (Žižek 2008, pp. 46, 47). Quindi,

come noi non disturbiamo loro, loro non devono disturbare noi, dato che tra l’altro la nostra tolleranza spesso è prontissima a dissolversi quando non è reciproca.

Tornando al nostro intento di fare chiarezza, riporto le definizioni di alcune delle categorie più importanti tratte da una pubblicazione relativa al progetto Presenze

trasparenti portato avanti da alcune associazioni e promossa dai Centri di Servizio

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Il richiedente asilo è colui che, avendo lasciato il proprio Paese d'origine, inoltra in un altro Stato la richiesta per il riconoscimento dello status di rifugiato.

La sua domanda viene esaminata in Italia dalle Commissioni territoriali esaminatrici (collegate e coordinate dalla Commissione Nazionale): fino al momento della decisione in merito alla sua domanda egli è un richiedente asilo.

Rifugiato:

Il rifugiato è colui che "avendo il fondato timore d'essere perseguitato per la stia razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole, domandare la protezione di detto Stato". Questa definizione, introdotta dall'articolo 1 della Convenzione di Ginevra, è stata ripresa dalla legge di attuazione n. 722 del 19,54 nel sistema giuridico italiano.

Beneficiario di protezione sussidiaria:

Viene chiamato beneficiario di protezione sussidiaria il richiedente che non ha i requisiti per essere riconosciuto rifugiato ma che la Commissione territoriale ritiene meritevole di protezione poiché sussistono fondati motivi per ritenere che se tornasse nel suo Paese correrebbe il rischio di subire un danno grave e per questo no vuole tornarvi o non può tornarvi.

Titolare di protezione umanitaria:

Il permesso di soggiorno per protezione umanitaria viene generalmente rilasciato dalle Questure dietro raccomandazione delle Commissioni Territoriali, quando - a seguito di esito negativo della domanda d'asilo (nei casi in cui non sussistano le condizioni per il riconoscimento dello status ai sensi dell'art. 1 della Convenzione di Ginevra) - si riscontra che sarebbe comunque pericoloso per la persona il rientro nel Paese di origine.

Il titolo viene rilasciato sulla base del principio del non-refoulement (non respingimento) sancito dall'art. 33 della Convenzione di Ginevra, ripreso dall'art. 19 del Testo Unico sull'immigrazione (D.Lgs. 286/98), e dall'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. Il soggiorno per motivi umanitari può essere rilasciato anche direttamente dalle Questure sulla base del combinato disposto dell'art. 5, comma 6.

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art. 19 del D.Lgs. 286/98 ed art. 28 del regolamento attuativo 394 99 punto D, che non è stato modificato dalla nuova normativa.

Titolare di protezione temporanea:

La protezione temporanea viene rilasciata nelle situazioni di emergenza umanitaria sulla base di un DPCM emanato in ottemperanza all'art 20, comma 1 del D.Lgs. 286/98. Viene concessa non sulla base della valutazione di singole situazioni individuali ma ad un gruppo omogeneo di persone provenienti da uno stesso Paese o area geografica a causa degli sconvolgimenti generalmente bellici in atto. L'art. 20 recita: “con DPCM, (...) sono stabilite, (...), le misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni del presente Testo Unico, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all'Unione Europea”. Il permesso ha una validità limitata nel tempo decisa dallo stesso DPCM e prorogabile solo sulla base di un nuovo Decreto che terrà conto del perdurare della situazione di pericolo per le persone in quel paese o area. Titolari di tale protezione sono stati i cittadini kosovari, ma ancor prima i cittadini albanesi, della Bosnia-Erzegovina e della Somalia.”

A queste categorie occorre aggiungere gli sfollati e i profughi: in caso di guerra o calamità naturali le persone costrette a scappare dalla propria abitazione vengono definiti sfollati se rimangono nel loro paese (o se attraversano frontiere non riconosciute a livello internazionale), mentre si parla di profughi nel caso giungano all’estero. Dato che le legislazioni nazionali devono recepire le norme ratificate attraverso trattati e convenzioni internazionali, non è automatico che i profughi vengano considerati rifugiati, anche se possono aspirare al riconoscimento di tale status. In Italia, in mancanza di una legislazione chiara e, soprattutto, stabile in materia di diritto d’asilo, è stata fornita protezione umanitaria in casi emergenziali come nel caso dei profughi dalle zone dell’ex-Jugoslavia. Infine, si parla di “sfollati interni” nei casi di quei potenziali rifugiati che sono già fuggiti per timore di persecuzioni dalla propria casa ma si trovano ancora nei confini del proprio stato. È evidente come si trovino in situazioni ad altissimo rischio, non godendo di alcuna protezione internazionale (anche se in alcuni casi recentemente l’UNHCR sotto

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mandato ONU se ne è fatto carico: ma si è trattato comunque di eccezioni). Lo stato di eccezione in cui si trovano a vivere è particolare: come dice la testimonianza riportata sotto, in alcuni casi abitano in dei non-luoghi (D’Alconzo 2003, pp. 36, 37):

“…mi permetto il riferimento ad un'esperienza personale da me vissuta in Turchia. Lì ho avuto modo di recarmi dapprima nel Kurdistan Turco, dove ho visitato i villaggi bruciati dall'esercito e parlato con persone che mi raccontavano cose purtroppo già note. In quella fase ho avuto solo conferme, se ancora ve ne fosse il bisogno. Quello che mi ha colpito, potrei dire di più, è stato in seguito visitare i sobborghi di Istanbul; in particolare sono stata ad Ayazma, a cinque chilometri dal centro, una delle tante baraccopoli che circondano la città. Soltanto ad Ayazma vi sono 6000 profughi interni Curdi già fuggiti dalle zone del Kurdistan Turco, molti dei quali semplicemente aspettano un passaggio in nave per arrivare in Europa. Alcuni di loro erano lì da un anno e mezzo, in una condizione di non esistenza. Definire Ayazma un non-luogo mi sembra addirittura poco. Un sobborgo urbano, adiacente ad un'industria chimica, con casupole improvvisate tra mucchi di spazzatura, bambini e animali che corrono nei rifiuti. Ecco, loro sono sfollati interni: sono stati già perseguitati, non sono ancora in Europa. Sono registrati nell'anagrafe delle zone di provenienza, dove non si trovano più, e ad Istanbul ufficialmente non esistono. Non sono ancora arrivati in Europa, dunque non hanno status di rifugiati, insomma non sono nessuno, non hanno assistenza sanitaria, non hanno veramente nulla. Esistono poche associazioni di volontariato che fanno qualcosa per loro, per il resto queste persone non esistono, sono scorie di persecuzioni compiute e di definizioni giuridiche troppo strette. Devo dire, per non render loro un torto, che non ho visto disperazione nei loro occhi, ho sentito profumo di sapone e di pane in quei sobborghi, ho visto una dignità veramente commovente. Queste persone sapevano di andare da qualche parte, e comunque avevano uno sguardo di speranza, soprattutto rivolto a noi Europei.”

La caratterizzazione di queste persone è in negativo, perché non hanno nulla e non

sono nessuno, degli homo sacer all’ennesima potenza. E se in alcuni casi, come

quello di Ayazma, qualcuno riesce a renderne testimonianza riuscendo così a restituire loro almeno una parte dell’umanità perduta, dove i gruppi sono meno

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consistenti o si tratta di singole persone, il rischio che il mondo si dimentichi di loro perpetrando all’infinito la loro condizione di vittime è davvero reale.

Personalmente, per definire le persone di cui parlerò utilizzerò soprattutto i termini “migranti” e “rifugiati”: “migranti” perché parola dal significato generico che include chiunque si sposti dal proprio paese di origine a tempo indeterminato, e “rifugiati” come identificativo di tutti quei migranti che si spostano non soltanto per motivi economici. Tra l’altro, anche a livello giuridico non è una definizione scorretta: lo status di rifugiato, infatti, non viene concesso ma riconosciuto: ovvero, chiunque si allontani dal proprio paese per fondato timore di persecuzioni è un rifugiato; questo status deve essere poi riconosciuto ufficialmente dai paesi in cui si trova la persona. Una persona potrebbe essere di fatto un rifugiato ma non essere riconosciuta come tale dal paese in cui si trova: si troverebbe a far parte della categoria dei diniegati, ovvero coloro ai quali la Commissione non riconosce né lo status di rifugiato né altri tipi di protezione.

Districarsi nel labirinto terminologico delle definizioni giuridiche è tanto importante quanto disorienta, ma appunto è necessario conoscere i vari tipi di protezione che può essere garantita e i motivi per cui viene concessa per valutare se i diritti “di carta” vengono effettivamente applicati. Oltre a questo, c’è anche un’altra questione. I nomi non sono neutri, c’è sempre una certa accezione nel loro utilizzo, che può indicarci l’atteggiamento verso di essi da parte di chi ne parla. Un esempio evidente l’abbiamo avuto quest’anno con i massicci approdi a Lampedusa delle “carrette del mare” in fuga dal caos delle rivoluzioni nordafricane. Chi c’era a bordo? Nei telegiornali e sugli organi di informazione le parole comunemente usate erano due: profughi o clandestini.

L’utilizzo di certi vocaboli nei mass media influenza fortemente la percezione di questi nuovi arrivati: non sono mancate, infatti, polemiche sul fatto che alcuni politici locali avevano fornito la propria disponibilità ad accettare l’invio nelle

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proprie regioni di un certo numero di profughi, ma non di clandestini. Il nonsense della faccenda deriva dal fatto che stavano parlando delle stesse persone fisiche. Addirittura, per quasi un mese l’identità dei nuovi arrivati a Lampedusa è rimasta in un limbo, non si sapeva cosa fossero… finché il 5 aprile la loro identità è stata decisa per decreto: tutti quelli arrivati fino al giorno prima erano rifugiati, tutti quelli che sarebbero arrivati dal giorno successivo clandestini.

Nel decreto si garantiva che sarebbe stato concesso un permesso di soggiorno temporaneo di 6 mesi: proprio in quei giorni a Livorno stavo intervistando alcuni ragazzi tunisini portati in Toscana da Lampedusa, che non hanno avuto problemi: li hanno portati in questura e dopo pochi giorni hanno ricevuto il loro permesso, visto che erano arrivati in Italia più o meno alla fine di marzo. Se qualcuno avesse avuto dei contrattempi, dei problemi da risolvere e fosse partito una o due settimane più tardi, cosa sarebbe successo? Sarebbe stato rimpatriato in Tunisia. Ed ecco cosa sarebbe successo, come ci raccontano due ragazzi tunisini:

Intervistatore: Se qualcuno di voi volesse tornare in Tunisia, rischierebbe qualcosa in questo momento?

Yaman e Hamin: Se torniamo con i documenti regolari, come quelli che ci daranno a breve, non ci fanno niente. Chi invece in Italia è clandestino e ritorna in patria perché viene espulso, viene condannato ad un anno di carcere in Tunisia e deve pagare una multa di seimila dinari (tremila euro). Per la legge significa lasciare il territorio senza autorizzazione.

Intervistatore: Esiste ancora la Guardia Presidenziale, quella che si era mostrata più violenta nei confronti dei ribelli?

Hamin: No, non esiste più. Alcune di queste guardie sono ancora nascoste, e non sanno dove si trovino né chi siano. Altre si sono consegnate all’autorità e sono entrati nella polizia “normale”.

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Intervistatore: Nel caso in cui tornaste in patria da clandestini con dei rimpatri forzati, cosa vi aspetterebbe nei carceri tunisini? Innanzitutto, l’anno di carcere viene scontato davvero?

Yaman e Hamin: eccome!

Hamin: In più, mentre siamo in carcere arriva la multa, che noi non possiamo pagare. La dobbiamo pagare “di prigione”… ogni giorno vale circa un euro e mezzo, fai un po’ il conto…

Intervistatore: A voi è mai capitato di scontare una condanna in carcere?

Interprete: No, a loro no. Ma conoscono alcuni amici che sono stati in carcere.

Intervistatore: Cosa succede nelle carceri tunisine?

[sorridono]

Yaman: Maltrattamenti, violenze, non si mangia bene, non c’è assistenza medica.

Hamin: Se i parenti portano da mangiare, le guardie perquisiscono tutto, anche il mangiare. Addirittura, dicono che è vietato portare certe cose da mangiare. Hai una visita sola a settimana, e solo i parenti stretti (mamma, padre, fratelli… solo chi ha lo stesso cognome) possono venirti a trovare. Non possono lasciarti più di trenta euro a settimana, che ti devono bastare per comprare un po’ di mangiare in più, le sigarette… se non ti bastano rimani senza.

Intervistatore: Violenze fisiche sono frequenti?

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Yaman: Non si allontana tanto da Guantanamo…79

Hanno vinto i partiti xenofobi, che da un lato hanno strumentalizzato la concessione dei permessi a quelli che fino al giorno prima chiamavano clandestini, e dall’altro hanno risolto (o almeno hanno provato a risolvere) il problema di tutti gli africani che volevano andare in altri paesi (soprattutto in Francia e Germania) ma non potevano legalmente varcare il confine di stato.

Stabilire una cesura così pesante significa deumanizzare le persone, il primo passo verso abusi sempre più pesanti. Significa che il meccanismo di imporre l’uso di definire gli esseri umani con aggettivi che sono il massimo dell’indeterminatezza e dell’anonimato funziona, visto che non ci sono state proteste. La popolazione è stata allarmata in maniera eccessiva per l’arrivo dei clandestini, una parola che (similmente ad irregolari) evoca delle non-persone che hanno meno diritti di noi, presenti abusivamente a casa nostra, che vivono di espedienti, di attività marginali o illegali, che delinquono perché non possono fare altro. E questo ovviamente porta anche a non volerli, a non tollerarli neppure. Gli epiteti, le etichette, gli stereotipi, fanno perdere di vista le motivazioni reali, le condizioni di vita a casa di chi rischia la vita per venire da noi e da noi si aspetta almeno un po’ di rispetto.

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CAPITOLO 6