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QUADERNI del Consiglio Superiore della Magistratura

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CORSI DI FORMAZIONE E DI AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE PER I MAGISTRATI

LA PROVA

NEL PROCESSO CIVILE

V

OLUME

P

RIMO

FRASCATI, 12-14 giugno 1997, 4-6 giugno 1998, 8-12 maggio 1995, 28-31 ottobre 1996, 3-7 novembre 1997 ROMA, 19-23 maggio 1997, 16-20 febbraio 1998, 23-27 febbraio 1998,

2-6 marzo 1998, 22-27 giugno 1998, 29 giugno, 3 luglio 1998, 6-10 luglio 1998

QUADERNI

Consiglio Superiore della Magistratura del

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QUADERNI DEL

CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Anno 1999, Numero 108

Pubblicazione interna per l’Ordine giudiziario curata dalla Nona commissione tirocinio

e formazione professionale

(3)

INDICE GENERALE

VOLUMEPRIMO

LA PROVA NEL PROCESSO CIVILE

CAPITOLOI

I PRINCIPI GENERALI IN MATERIA DI PROVE Giovanni VERDE – La prova nel processo civile. Profili di

teoria generale . . . 13 Andrea ZULIANI – I princìpi che regolano la materia delle

prove nel sistema del processo civile; precisazioni termino-

logiche . . . 37 Roberto BEGHINI – Princìpi generali in materia di istruzio-

ne probatoria . . . 55 Giuseppina LEO – Il diritto alla prova nella giurisprudenza

della Corte Costituzionale . . . 71

CAPITOLOII

L’ATTIVITÀ ISTRUTTORIA

NEL PROCESSO ORDINARIO DI COGNIZIONE:

POTERI DELLE PARTI E DEL GIUDICE Michele FORNACIARI – L’attività istruttoria nel rito civile

ordinario: poteri delle parti e poteri del giudice . . . 85 Luciana RAZETE – L’attività istruttoria. In particolare i po-

teri del giudice e delle parti . . . 119

(4)

Luigi Paolo COMOGLIO – Poteri delle parti e ruolo del giu-

dice nella fase istruttoria del processo civile ordinario . . . . 191 Alessandro SILVESTRINI – Le innovazioni introdotte dalla

legge di riforma n. 353 del 1990 in materia di istruzione pro-

batoria . . . 241 Claudio VIAZZI – Poteri del giudice e prassi giurispru-

denziali nell’istruzione probatoria: una serie di questioni

aperte . . . 257

CAPITOLOIII

I SINGOLI MEZZI DI PROVA

Modestino VILLANI – Alcuni profili problematici della con-

sulenza tecnica d’ufficio nel processo civile . . . 293 Patrizia MORABITO – La consulenza tecnica d’ufficio . . . . 319 Andrea ZULIANI – La consulenza tecnica . . . 361 Antonietta SCRIMA – L’interrogatorio della parte: interroga-

torio libero e interrogatorio formale . . . 365 Teresa MASSA – Interrogatorio libero e tentativo di conci-

liazione . . . 391 Angelo CONVERSO – L’interrogatorio libero delle parti e il

tentativo di conciliazione . . . 415 Luciana RAZETE – Prova testimoniale, giuramento deciso-

rio, interrogatorio formale . . . 455

VOLUMESECONDO

Angelo CONVERSO – Le prove: interrogatorio formale, con- fessione, le prove per testimoni e per presunzioni, le prove documentali, i giuramenti, le prove acquisite in altri proces-

si, il notorio, il rendimento del conto . . . 9

6

(5)

Paolo CORDER – La prova per testimoni . . . 99 Luigi Paolo COMOGLIO – Le prove di tipo documentale . . 141 Mario CONTE – La prova documentale . . . 185 Andrea ZULIANI – Le prove documentali . . . 215 Francesco Cesare D’ALESSANDRO – Prove atipiche argo-

menti di prova e presunzione . . . 225 Enrico STEFANI – I singoli mezzi di prova: prova testimo-

niale, interrogatorio formale, giuramento decisorio, prova

documentale, consulenze . . . 257

CAPITOLOIV

L’ISTRUTTORIA NEI PROCEDIMENTI SOMMARI Riccardo CONTE – La prova nel procedimento per decreto

ingiuntivo e nell’istanza d’ingiunzione ex art. 186-ter . . . . . 339

CAPITOLOV

LA VALUTAZIONE DELLA PROVA:

IL RAGIONAMENTO DEL GIUDICE Michele TARUFFO – La valutazione della prova. Prova libe-

ra e prova legale. Prove e argomenti di prova . . . 413 Paolo GARBOLINO – La logica del probabile e la prova giu-

ridica . . . 437 Giulio UBERTIS – Profili epistemiologici della prova . . . 451 Letizia GIANFORMAGGIO – Criteri logici di controllo del

ragionamento probatorio . . . 469 Federico ROSELLI – Il ragionamento del giudice e la moti-

vazione del provvedimento. Il controllo sul ragionamento probatorio attraverso il controllo sulla motivazione nella giu-

risprudenza della Corte di Cassazione . . . 485

(6)
(7)

Il volume raccoglie le relazioni tenute sull’attività istruttoria e sulle prove civili nei due incontri di studio interamente dedicati alla materia delle prove nel processo civile (Frascati, 12-14 giugno 1997, le prove nel processo civile, incentrato sui temi della valutazione delle prove e del ragionamento di fatto; Frascati, 4-6 giugno 1998 le prove civili, nel cui àmbito sono stati esaminati i singoli mezzi di prova), nei corsi di aggiornamento all’esercizio di funzioni civili (Frascati, 8-12 maggio 1995, 28-31 ottobre 1996, 3-7 novembre 1997), nelle settima- ne di studio per gli uditori giudiziari in tirocinio ordinario nominati con D.M. 10 aprile 1996, 30 maggio 1996, 24 febbraio 1997, 23 dicem- bre 1997 (Roma, 19-23 maggio 1997, 16-20 febbraio 1998, 23-27 feb- braio 1998, 2-6 marzo 1998, 22-27 giugno 1998, 29 giugno, 3 luglio 1998, 6-10 luglio 1998).

La raccolta comprende contributi di alcuni tra i maggiori studio- si della materia delle prove sia sotto il profilo più strettamente giuri- dico, sia sotto il profilo epistemologico e filosofico.

Accanto a questi, le relazioni dei magistrati rappresentano oltre che una approfondita ed efficace riproduzione dello stato di dottrina e giurisprudenza in tema di preclusioni istruttorie, poteri del giudice e delle parti nell’attività istruttoria, singoli mezzi di prova, un tentati- vo di riflessione e approfondimento sulle principali problematiche che il giudice civile affronta nell’esercizio quotidiano della giurisdizione, per questo accanto a temi classici sono affrontate anche le questioni inerenti le tecniche di conduzione dell’interrogatorio libero (del tenta- tivo di conciliazione) e della prova testimoniale, le tecniche di verba- lizzazione ed altri problemi di rilevanza pratica. Sotto questo profilo il volume vuol essere dunque uno strumento di lavoro ed uno stimolo alla riflessione sui molti modi di “gestione” del processo civile.

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V OLUME P RIMO

C

APITOLO

I

I PRINCIPI GENERALI

IN MATERIA DI PROVE

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LA PROVA NEL PROCESSO CIVILE.

PROFILI DI TEORIA GENERALE

Relatore:

Prof. Giovanni VERDE

Ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Napoli

SOMMARIO: 1. Premesse logiche e terminologiche. – 2. La relatività del concetto di prova. – 3. Quale sistema probatorio? – 4. Quale prova? – 5. Specificità della prova giuridica. – 6. Il c.d. diritto alla prova. – 7. Il “quantum” della prova.

– 8. L’“an” della prova e la ripartizione degli oneri probatori. – 9. Brevi con- siderazioni conclusive.

1. – È importante che si discuta della prova nel corso di sedute in cui sia previsto il confronto non solo tra studiosi e operatori del pro- cesso, ma anche con i cultori di epistemologia, di filosofia e di logica giuridica (*).

Sento, perciò, il bisogno di mettere in chiaro alcune mie convin- zioni sull’argomento, anche al fine di provocare un dibattito che possa servirmi a controllare se e fino a che punto io sia nel giusto.

Mi sarà perdonato un approccio assai empirico al problema. Così, parlerò della prova come del mezzo per la ricostruzione di vicende passate senza neppure sfiorare il problema dell’esistenza di cose, stru- menti o uomini in sé significanti (il che all’occhio della filosofia mo- derna dovrebbe risultare come frutto di un ingenuo pragmatismo) e per non complicare l’esposizione, assumerò che, nel processo, finisco- no coll’essere poste a confronto proposizioni fattuali, di cui quelle che chiamiamo prove servono a predicare con i termini dell’esistenza o della conformità al vero le altre proposizioni fattuali che le parti hanno sottoposto al controllo giudiziale o che lo stesso giudice si è posto come tema di indagine. Darò, d’altra parte, per scontato che sia possibile distinguere le proposizioni fattuali da quelle giuridiche o, se

(*) È, infatti, il testo – con quale leggera aggiunta e modificazione e con il corre- do delle note bibliografiche appena indispensabili – della relazione tenuta per conto del C.S.M. a Frascati nell’incontro del 12-14 giugno 1997.

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si preferisce, il fatto dal diritto, pur essendo consapevole che la distin- zione nel concreto non è sempre facile da cogliere e che tra fatto e diritto vi è un rapporto di reciproca interazione. E farò ancora qual- che arbitrio che i logici mi vorranno perdonare nella convinzione che qualche grado di approssimazione, in nome di un’aderenza maggiore al linguaggio comune, ai giuristi possa essere perdonata (1). Infatti, il logico, che esamina al microscopio il fenomeno, analizza le proposi- zioni di fatto e mette in chiaro come qualsiasi proposizione, anche la più innocua ed innocente, non è priva di elementi valutativi. Ciò avvie- ne per l’influenza principale di due elementi: a) qualsiasi discorso è condizionato dal contesto nel cui àmbito viene esplicitato; b) qualsia- si proposizione fattuale è influenzata dal rapporto di causa ad effetto.

Esemplifichiamo, partendo dalla seconda delle considerazioni ora fatte, e assumiamo che la proposizione fattuale da sottoporre a con- ferma sia la seguente: “Tizio ha ucciso Caio con un colpo di fucile”. È evidente che tale proposizione già include un rapporto di causa ad effetto che è estraneo alla verifica strettamente probatoria. I testimo- ni, infatti, potranno affermare di aver visto Tizio imbracciare il fucile e puntarlo mentre dallo stesso partiva lo sparo e subito dopo Caio cadere e, se del caso, di averne visto la ferita e constatato la morte. Il testimone, insomma, descrive una sequenza che si colloca nel tempo e nello spazio, che diventa, nel linguaggio comune, una sequenza cau- sale. Lo scambio è talmente penetrato nel nostro comune modo di comportare che quasi non ce ne rendiamo conto, finché il logico non ce lo evidenzia. Il fatto è che siamo abituati a ragionare in termini di correlazioni causali, quelle che per gli empiristi e i kantiani rispec- chiano un’attività organizzativa della mente umana e per i realisti una sorta di invisibile “colla cosmica” che fa parte della realtà. È, però, chiaro che l’indagine probatoria riguarda la conferma delle proposi- zioni che descrivono i singoli eventi e la loro successione nello spazio e nel tempo (Tizio ha imbracciato il fucile; dal fucile è partito uno sparo; Caio è caduto; il suo corpo presentava una ferita; Caio è morto), là dove il collegamento causale è il prodotto di inferenze tratte dalle regole d’esperienza o da regole scientifiche. Così, nell’ipotesi fatta, si conclude che Tizio ha ucciso Caio secondo una deduzione di altissima probabilità che potrebbe venir meno se si provasse che il fucile di Tizio era caricato a salve.

14

(1) Riprendo l’osservazione di BONATTI, nell’Introduzione a QUINE, Quidditates.

Quasi un dizionario filosofico, trad. it., Milano, 1991, p. 17.

(13)

Quanto all’influenza del contesto in cui una proposizione descrit- tiva oggetto di prova si colloca, si sono, ad es., confrontate le seguen- ti due proposizioni – a) la terra si abbassò rispetto al sole alle ore 6.00 del 20 dicembre 1990; b) il sole si alzò rispetto alla terra alle ore 6.00 del 20 dicembre 1990 –. A prima vista le due proposizioni descrivono lo stesso evento, ma ad un’analisi più attenta si scopre che la prima descrive il fenomeno dal punto di vista della teoria copernicana, men- tre la seconda è frutto della concezione tolemaica. Appare chiaro, allora, che la descrizione del fatto è quasi sempre assiologicamente orientata (2).

Questo aspetto del problema interessa particolarmente i cultori del processo penale e dovrebbe aiutarci a comprendere come la logica di ricerca che ispira l’organo dell’accusa o, in genere, la parte possa (e debba) essere diversa da quella alla quale è obbligato il giudice.

Il problema del nesso causale è, invece, tale da ripresentarsi in qualsiasi processo. Apparirà chiaro che la possibilità di risalire da una sequenza spaziale e/o temporale ad una sequenza causale è legata alla percentuale di probabilità che – secondo determinate regole – un fatto dato si ponga come produttivo di un evento. Nell’esempio fatto il grado di probabilità è massimo se non vi è prova di altri accadimenti che, inserendosi nella sequenza spaziale e temporale, possano aver determinato l’evento. Altre volte – e ciò avviene normalmente – il grado di probabilità è minore. In questi casi si è alla ricerca di stru- menti operativi (tratti dalle scienze statistiche, matematiche ecc.), uti- lizzando i quali il giudice potrebbe pervenire al suo convincimento in maniera oggettiva e razionale (3). Di ciò diremo qualcosa più avanti.

2. – Torniamo con tutte le nostre approssimazioni al tema della prova giuridica.

Si dice che la prova è strumento per la ricerca della verità. Ma di quale verità parliamo? Spesso si contrappone una verità assoluta o anche materiale ad una verità relativa o convenzionale e ci si chiede se

(2) V., anche per indicazioni, PIZZI, Oggettività e relativismo nella ricostruzione del fatto: riflessioni logico-filosofiche, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, 1992, p. 195 ss.

(3) V. in proposito e dal punto di vista del logico, GARBOLINO, Probabilità e prova in un’ottica operativa, in Dir. penale e processo, 1995, p. 998 ss.; id., Pregi e difetti del sil- logismo statistico, ivi, 1996, p. 1532 ss., e dal punto di vista del giurista, PATTI, Libero convincimento e valutazione delle prove, in Riv. dir. proc., 1985, p. 481 ss. (a questi Aa.

rinvio per ulteriori riferimenti).

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il processo debba tendere all’una o all’altra. Sono, a mio avviso, do- mande in larga misura oziose e che non meriterebbero i fiumi di paro- le che sono stati spesi, se dietro di esse non si celassero opzioni di valo- re spesso assai rilevanti, scelte ideologiche e, non di rado, precise maniere di risolvere i conflitti di interessi. I filosofi e i logici potranno sentirmi, ma se non prendo abbagli oggi si constata un notevole con- senso sull’idea che lo stesso concetto di verità è un concetto relativo al contesto nel cui ambito viene registrato. Per esemplificare, se sulla base delle conoscenze esistenti in un dato momento gli storici proce- dono a diverse ricostruzioni di una vicenda passata, noi saremo dispo- sti a riconoscere come maggiormente attendibile la ricostruzione che ci sembra abbia seguito il percorso ricostruttivo e argomentativo più persuasivo e corretto. Se vengono scoperti nuovi documenti o nuove cose significanti che consentono di modificare il precedente discorso ricostruttivo, avremo una nuova e diversa rappresentazione della vicenda. Possiamo dire che la prima era falsa e che la seconda è vera?

e siamo sicuri che la seconda ricostruzione è quella vera e che non ne sia possibile una nuova e diversamente argomentata? Bastano queste banali considerazioni per convincerci: a) che il concetto di verità è necessariamente relativo a un determinato contesto; b) che è consen- tito fare raffronti fra le tecniche di ricerca soltanto al fine di stabilire quale sia quella che consente di raggiungere i migliori risultati possi- bili soltanto in relazione al contesto dato (4).

Per il passato e non di rado ancora oggi riaffiora il confronto fra il giudice e lo storico (5). È un confronto fuorviante se si intende sta-

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(4) Al riguardo, anche per i necessari riferimenti bibliografici, v. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, spec. capp. I e III, al quale si aggiunga almeno VOCINO, Sulla c.d. “attuazione della legge” nel processo di cognizione, in Studi in onore di E. Redenti, II, Milano, 1951, pag. 598 ss. (studio che mi è caro per la sua straordi- naria modernità ancora oggi a cinquanta anni da quando fu scritto). In questo conte- sto, la contrapposizione verità formale-verità materiale (che in linea logica non avreb- be senso), allude all’esigenza che ciascun ordinamento predisponga gli strumenti di ricerca della verità nella maniera in cui sia possibile attingere i risultati più attendibi- li nel rispetto di altri valori (ad. es., quelli sottesi al divieto dell’uso di scienza privata del giudice; alla certezza delle relazioni giuridiche; alla tutela dei diritti della persona ecc.), cui si annette primaria importanza: v., in questo senso, VERDE, Prova legale e formalismo, in Foro it., 1990, V, c. 466 s. In questa prospettiva il dato extraformale funge da molla costante perché la disciplina positiva delle prove sia sempre adeguata ai valori in cui la collettività si riconosce nell’attuale momento storico.

(5) Mi sia consentito di limitare i richiami, nel quadro di una bibliografia assai vasta, a CALAMANDREI, Il giudice e lo storico, ora in Opere giuridiche, I, Napoli, 1965,

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bilire che il giudice è un ricercatore di verità al pari dello storico, e ciò per la semplice ragione che la ricerca del giudice avviene nell’ambito di un contesto che è diverso da quello che caratterizza la ricerca dello storico. Può, quel raffronto, riuscire di quale utilità se è utilizzato come una via per individuare se, quali e quante delle tecniche di ricer- ca dell’uno siano utilizzabili dall’altro.

Ancora: oggi si suole contrapporre uno schema di processo teso alla ricerca della verità materiale e un altro che si accontenta di una verità convenzionale; e si aggiunge che il primo modello è tipico di un’ideologia del processo per la quale lo Stato assume su di sè il com- pito di rendere giustizia sostanziale, mentre il secondo è uno schema cui fa ricorso lo Stato che, tramite il processo, mira ad assicurare la pace sociale (6). Chiarito che la contrapposizione tra verità materiale

p. 398 ss.; CALOGERO, La logica del giudice e il suo controllo in cassazione, Padova, 1937 (rist. 1964), p. 128 ss. e TARUFFO, Il giudice e lo storico: considerazioni metodo- logiche, in Riv. dir. proc., 1967, p. 438 ss..

(6) Sul primo tipo di processo si vedano, ad es., TROUSSOV, Introduction à la théorie de la preuve judiciaire, tr. franc., Moscou, s.d. (ma 1965); GWIASDOMORSKI e CIESLAK, La preuve judiciaire dans les pays socialistes à l’époque contemporaine, in La preuve, Rec. Soc. Jean Bodin, vol. XIX, IV, Bruxelles, 1965, p. 84 ss.; CERRONI, Il pen- siero giuridico sovietico, Roma, 1969, p. 192 ss.. Quanto al secondo modello di proces- so, lo stesso risponde alle concezioni prevalenti nel mondo occidentale. Ciò non vuol dire che non esista l’aspirazione a processi “giusti”, prospettandosi un ampio ventaglio di soluzioni che danno vita a diversi modelli di processi caratterizzati dalla diversa maniera di disciplinare le modalità di accertamento dei fatti (sul punto è sufficiente richiamare l’ampia indagine di TARUFFO, La prova ecc. cit – e prima ancora lo studio dello stesso a., Il processo civile “adversary” nell’esperienza americana, Padova, 1979 –, influenzata, peraltro, dal pregiudizio che una indagine “pura” in argomento non possa essere condotta da chi svolga la professione d’avvocato (v. p. 7), perché questi è con- dannato ad un inevitabile scetticismo (quale, al contrario e non si sa per quale ragio- ne, non attingerebbe il giudice). Se così fosse e posto che la scienza del diritto è una scienza sociale a servizio dei bisogni umani (e non, come direbbe CAVALLONE, Ora- lità e disciplina delle prove nella riforma del processo civile, ora in Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, spec. p. 454 in nota; id., Crisi delle “Maximen” e discipli- na dell’istruzione probatoria, ivi spec. p. 304 ss. in nota o in uno qualsiasi degli altri scritti raccolti nel citato volume su Il giudice e la prova ecc., uno strumento per specu- lazioni teoriche volte ad ottenere consensi nei consessi nazionali ed internazionali), le intere biblioteche in cui vi sono libri che trattano della prova giuridica sarebbero pres- soché inutilizzabili e, di fatto, inutilizzate, posto che custodirebbero opere incompren- sibili e, comunque, prive di valore per la maggior parte di coloro cui sarebbero pur sempre destinate. Proprio in materia di prova, del resto, e di fronte alla proposta di applicare il c.d. teorema di Bayes (sul calcolo matematico al fine del giudizio di pro- babilità) è venuto l’ammonimento di chi ha ricordato come il processo deve essere comprensibile alla collettività per la quale deve servire: TRIBE, Trial by Mathematics:

Precision and ritual in the Legal Process, in Harv. L. Rev., 1971 (84), p. 1329.

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e verità formale (o convenzionale) non ha molto senso, nel detto modo si vuole solamente dire che esistono processi nei quali le tecni- che di accertamento dei fatti sono più vicine al principio secondo il quale ogni fatto rilevante deve poter essere provato e altri processi nei quali quel principio è sottoposto ad un numero più ampio di filtri pre- ventivi.

Nella stessa maniera deve essere inquadrata la conseguenziale questione circa il carattere specifico della prova giuridica (7). È que- sta una specie dell’ampio genere della prova o appartiene ad un mondo a se stante? Ci sentiamo di rispondere alla domanda in coe- renza con quel che si è finora osservato: se la ricerca della verità è rela- tiva al contesto nel quale si svolge, ogni indagine probatoria non può non avere una sua specificità. Ciò, peraltro, non vuol dire che ci tro- viamo di fronte a mondi chiusi ed impenetrabili, perché le tecniche e le esigenze di un mondo possono essere utilizzate o avere rilievo anche negli altri mondi possibili. Ma la scelta delle une e la valorizzazione delle altre dipende da opzioni di valore, da scelte ideologiche e, come si è detto, non infrequentemente dalla volontà di perseguire determi- nati interessi.

Esemplifico: i regimi autoritari o, se vogliamo entrare ancora più nel dettaglio e fare qualche esempio tratto dalla storia recente, il poten- te teorizzatore delle tecniche processuali in tema di indagini istrutto- rie delle tecniche processuali in tema di indagini istruttorie utilizzate nella Russia staliniana (mi riferisco a Wyschinski) sposano di regola la fede nella verità materiale. La conseguenza è che il diritto delle prove, in quei regimi, scade ad un insieme di norme regolamentari il cui valo- re garantistico è pressoché nullo, che è l’anticamera perché il processo

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(7) Sulla questione si interroga TARUFFO, La prova ecc. cit., spec. p. 301 ss., che (a p. 317) rimprovera alla dottrina italiana (e specificamente anche chi scrive, a p. 303 nt. 5) di applicare al tema delle prove la concezione positivistica per cui è giuridico ciò che è regolato da norme ed è irrilevante ciò che non è giuridico.

Confesso che il senso della critica mi sfugge. Non sembra discutibile che il giuri- sta debba studiare il fenomeno all’interno del contesto che è oggetto del suo studio (ossia del “giuridicamente rilevante”). Ciò non vuol dire che il giurista sia chiuso in una sorta di ampolla impenetrabile e che non debba vivere in collegamento con la realtà che lo circonda, cogliendone le suggestioni o le indicazioni che provengono dalla società civile. Ciò che non può accettare è di leggere la realtà giuridica in fun- zione della realtà materiale, naturale o di quell’altro mondo di valori non giuridici che si voglia prescegliere; non può dimenticare, insomma, che la regola juris, fa da filtro e traduce in forma normativa ciò che nel momento storico dato costituisce un risultato possibile.

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si trasformi in meccanismo d’oppressione. Sul che è, forse, ancora oggi il caso di ricordare le preoccupate considerazioni di Calamandrei e di Segni sollecitate dalle opere giuridiche di alcuni autori della Germania nazista (alludo a Baumbach e Lenz), che fecero temere addirittura che fosse in forse la sopravvivenza del processo civile (8).

I regimi ispirati a un’ideologia liberale, al contrario, ritengono che lo strumento più corretto di indagine nel processo sia quello che fa perno sull’antagonismo delle parti. In tale prospettiva, esistono, poi, ordinamenti (ad es., quelli dell’Europa continentale occidentale) che preferiscono una disciplina analitica della prova e altri (quelli di tra- dizione anglosassone) che, invece, preferiscono disciplinare analita- mente i modi di assunzione delle prove nel processo, vuoi tramite le regole dell’adversary system vuoi tramite le c.d. eslcusionary rules. La conseguenza, nel primo caso, è quella di un prezzo che la certezza può pagare alla giustizia e, nel secondo caso, è quella del prezzo che la capacità suggestiva del difensore fa pagare alla idoneità rappresenta- tiva del mezzo probatorio (9).

3. – Più interessante potrebbe essere un’altra questione. Esiste un sistema probatorio processuale migliore degli altri?

La risposta, in astratto, parrebbe semplice. Il sistema migliore è quello che consente al giudice di sperimentare tutte le vie per giunge- re alla verità. Paradossalmente è quello che riduce il diritto probatorio ad uno scarno enunciato: il giudice deve poter acquisire e utilizzare secondo il suo “prudente apprezzamento” (o, se si preferisce, secondo un quantum di probabilità predeterminato) qualsiasi dato, comunque acquisito, che gli consenta di stabilire se un fatto rilevante per il pro- cesso è o meno vero (10). D’altra parte, gli storici non hanno bisogno

(8) V. CALAMANDREI, Abolizione del processo civile?, ora in Opere cit., I, p. 386 ss.; SEGNI, Alcuni orientamenti della dottrina processuale germanica, ora in Scritti giu- ridici, I, Torino, 1965, p. 196 ss..

(9) Di questi temi ebbi già ad occuparmi nella voce Prova. B) Teoria generale e dir.

proc. civ., in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, p. 519 ss., a cui rinvio il cortese lettore che voglia ulteriori ragguagli.

(10) Il principio viene fatto risalire a THAYER, A preliminary Treatise on Evidence at Common Law, New York, 1889, p. 518, sul quale v., fra noi, COMOGLIO, Le prove, in Trattato diretto da P. Rescigno, Torino, 1985, p. 19 ss.; DONDI, L’evoluzione della “Hear- say Rule” nel processo civile angloamericano, in Riv. dir. proc. 1979, p. 109; TARUFFO, Il diritto alla prova nel processo civile, 1984, pp. 77 s., 103 ss. (ma l’intero suo successi- vo volume su La prova ecc. cit., è costruito in questa prospettiva); VIGORITI, Garanzie costituzionali del proc. civile, Milano, 1970, p. 96 s..

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di alcun catalogo di regole a cui attenersi nel condurre le loro indagi- ni mirate alla ricostruzione di fatti passati.

Viene da chiedersi, allora, la ragione per la quale non c’è ordina- mento che non abbia sentito il bisogno di darsi un proprio diritto pro- batorio, semplice o complicato che sia (11). La risposta viene imme- diata, quando dal piano dei principi si passa alle applicazioni concre- te. È possibile che il giudice utilizzi nel processo la sua scienza priva- ta? è possibile che utilizzi, come prova, la lettera privata illecitamente sottratta? Ciascuno di noi è istintivamente portato a rispondere con un no secco alla prima domanda (perché il giudice che utilizzasse la scienza privata, prima ancora di offendere il diritto di difesa e una fon- damentale regola della civile convivenza, dismetterebbe le vesti del terzo imparziale), mentre potrebbe nutrire più di un dubbio in ordine alla seconda questione (12). Nel momento in cui il legislatore discipli-

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(11) L’osservazione è comune: v. ad es. CARNELUTTI, La prova civile, 2aed., Ro- ma, 1947, p. 27; CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Mi- lano, 1962, I, p. 265; DENTI, L’evoluzione del diritto delle prove nei processi civili con- temporanei, ora in Processo civile e giustizia sociale, Milano, 1971, p. 91 s.; MICHELI, L’onere della prova, rist., Padova, 1966, p. 192 s.; REDENTI, Dir. proc. civ., Milano, 1985, II, p. 64 ecc.. In questa prospettiva la prova legale finisce con l’essere un capito- lo della legalità della prova, alla quale ha dedicato pagine illuminanti FURNO, Accer- tamento convenzionale e confessione stragiudiziale, ristampa, Milano, 1993 (su cui v. se vuoi, la mia Prefazione, spec. a p. XI ss.) e diventano di estremo interesse le recenti prese di posizione dei cultori del processo penale: v. ad es., AMODIO, Modalità di pre- levamento dei campioni e diritto di difesa nel processo per frodi alimentari, in Riv. it. dir.

e proc. pen., 1970, p. 110; id., Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimo- nianza, ivi, 1973, p. 310 ss.; CONSO, Natura giuridica delle norme sulla prova nel pro- cesso penale, in Riv. dir. proc., 1970, p. 7 ss.; NOBILI, Il principio del libero convinci- mento del giudice, Milano, 1974, p. 55 ss. e 276 ss.; ZAPPALÀ, Il principio di tassatività dei mezzi di prova nel processo penale, Milano, 1982, p. 222 s..

(12) La risposta sarebbe anch’essa negativa in un sistema nel quale fosse affer- mato il principio per il quale “nemo tenetur edere contra se”. Il nostro ordinamento ha – come sappiamo – superato tale divieto, ammettendo l’ordine di esibizione (sul quale v. da ultimo, CAVALLONE, voce Esibizione delle prove nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 665, ss. e, prima, LA CHINA, voce Esibi- zione delle prove, in Enc. dir., XV, Milano, 1966, p. 698 ss.).

Si potrebbe allora, così ragionare: se la parte può essere costretta a produrre il documento anche contro la sua volontà, non c’è ragione per non prenderlo in conside- razione quando sia prodotto dall’altra parte che ne è venuta in possesso illecitamente.

L’illecita appropriazione, qui, verrebbe in rilievo nel campo del diritto penale, ma sarebbe ininfluente nel processo civile (in questa prospettiva v. RICCI G.F., Le prove ille- cite nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, p. 68 ss.). In senso diverso e argomentando dal fatto che nel caso di mancata osservanza dell’ordine di esibizione l’ordinamento fa derivare non la prova, ma l’argomento di prova, v. CARNELUTTI, Ille-

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na il processo, non può ignorare la questione e non può non regolar- la: ecco un primo nucleo di disciplina giuridica del fenomeno. Ma quel nucleo è destinato ad arricchirsi mano mano che si procede nel- l’analisi. Si scopre, allora, che il diritto probatorio è al centro di com- plicate valutazioni ed ampiamente condizionato da fattori storici, sociali, culturali, religiosi ecc.. Si è, infatti, posto in rilievo che il siste- ma della prova legale è servito nel passato a razionalizzare la valuta- zione della prova e più in generale il giudizio di fatto, eliminando le

“prove irrazionali” e l’arbitrio soggettivo del giudice (13). La preva- lenza, negli ordinamenti di civil law, della prova documentale sulla prova testimoniale è dovuta a complesse valutazioni, che non riguar- dano soltanto il processo, ma lo stesso problema della circolazione dei beni, che, nel nostro ordinamento, è largamente improntata al forma- lismo giuridico (14). La tradizionale diffidenza, poi, verso il testimo- ne e, in particolare, verso il testimone interessato è il precipitato di una civiltà che di sicuro non fonda sulla “fiducia”. La previsione di una “gerarchia” delle prove si collega ad un atteggiamento di sfiducia verso il giudice e si pone come strumento per evitare a priori prassi giudiziali autoritarie (15). Non basta. La verità processuale non è un valore assoluto; vi sono altri valori che non meritano minore prote- zione: si pensi al diritto alla privacy o alla libertà di manifestare il pro- prio pensiero senza la preoccupazione che ciò possa diventare ogget- to di indagine nel processo. Inoltre, la prova (16) è normalmente costi-

cita produzione di documenti, in Riv. dir. proc. civ., II 1936, p. 63 ss., 70; nonché ALLO- RIO, Efficacia giuridica di prove ammesse ed esperite in contrasto con un divieto di legge?, in Studi in onore di B. Biondi, IV, Milano, 1965, p. 218 ss.. Sul problema v., di re- cente, COMOGLIO, Le prove cit., p. 173 ss..

(13) V. per tutti, GIULIANI A., Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridi- ca, Milano, 1961, p. 185 ss..

(14) In proposito v., se vuoi, il mio scritto su Prova legale e formalismo cit., in Foro it., 1990, V.

(15) Scriveva CARNELUTTI, La prova civile cit., p. 61 ss. che la disciplina legale della prova “non è stata mai informata all’arbitrio e non è più informata al pregiudizio bensí viene costituita secondo lo scopo (politico) di ottenere la conoscenza dei fatti controversi per la via più rapida e più sicura”.

Non è un caso che le richiamate esigenze abbiano oggi sollecitato l’attenzione dello studioso del processo penale (V. Aa. citt. retro, a nota 11).

(16) Il problema non è solo quello delle tecniche adoperabili per costringere le persone a rendere dichiarazioni che volontariamente non avrebbero mai rese; questo è solo uno dei momenti più appariscenti del fenomeno, sui cui v. già DENTI, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, in Riv. dir. proc., 1972, p. 255, che non a caso ricordava il sempre attuale monito di Beccaria: “Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere una persona e diventi cosa”.

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tuita da un elemento “significante” il cui significato deve essere estrat- to con l’uso di un’appropriata tecnica di ricerca, la quale non può non prevedere la partecipazione o il controllo degli interessati. Di qui un reticolo più o meno spesso di regole che disciplinano le modalità di acquisizione al processo degli strumenti probatori e l’estrazione dei loro enunciati rappresentativi (17).

Insomma, il diritto delle prove di un paese nasce da esperienze stratificate nei secoli, così che pensare di poterlo cancellare con un colpo di spugna in nome di un credo quasi religioso di una fede nella libera valutazione del giudice che abbia ad oggetto ogni fatto rilevan- te comunque provato potrebbe innestare nel nostro sistema elementi di novità le cui ripercussioni non sono immaginabili a priori. È prefe- ribile, allora, procedere per piccoli passi, al fine di esaminare quali siano i margini per una ulteriore razionalizzazione del nostro diritto probatorio compatibile con il sistema nel suo complesso con riforme che non determinino crisi di rigetto (18).

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(17) Sul rispetto di queste esigenze v., almeno, CAVALLONE, Oralità e disciplina delle prove ecc. cit., in Il giudice e la prova ecc. cit., p. 437 ss.; MONTESANO, Le “prove atipiche” nelle “presunzioni” e negli “argomenti” del giudice civile, in Riv. dir. proc., 1980, p. 231 ss.; TARZIA, Problemi del contraddittorio nell’istruzione probaboria civile, in Riv.

dir. proc., 1984, p. 634 ss.. In generale per un quadro riassuntivo dei problemi del con- traddittorio anche in relazione al problema dell’istruzione nel processo civile, v.

COMOGLIO, voce Contraddittorio, in Dig. disc. priv., Sez. civ., IV, Torino, 1989, p. 7 ss.

La tendenza a fare uso degli elementi probatori comunque acquisiti fa sì che la giurisprudenza non sia molto sensibile a questo aspetto del problema; per questa ragio- ne, ad es., ha ritenuto utilizzabile nel processo civile una perizia effettuata in un pro- cesso penale al quale la parte non aveva partecipato in considerazione dell’irripetibilità degli accertamenti compiuti in tale sede e di una mancata tempestiva contestazione dei risultati (così Cass. 20 genn. 1995, n. 623, in Giust. civ., 1995, p. 2460 ss.) o, addirittu- ra, ha utilizzato al fine della formazione del suo convincimento la deposizione de rela- to ex parte relativa a fatti favorevoli alla parte cui il teste si riferisce (così, Cass. 14 febb.

1990, n. 1095, in Dir. Fom. e pers., 1990, I, 1128) o ha fondato il suo convincimento sul solo comportamento processuale (Cass. 25 giugno 1985, n. 3800, in Giust. civ., 1986, I, p. 1445 ss. con nota di FERRONI, Uno strano congegno: L’argomento di prova, ovvero il giudice indovino). Per contro Cass. 26 nov. 1994, n. 10066, in Riv. inf. e mal. profess., 1995, II, p. 609 ha ritenuto che l’accertamento del giudice penale con cui questi abbia escluso che il datore di lavoro sia stato responsabile dell’infortunio non eslclude che l’INAIL, assente da tale processo, possa provare la responsabilità del datore medesimo ai fini dell’azione di rivalsa, avvalendosi sia del materiale probatorio utilizzato dal giu- dice penale sia degli ulteriori elementi di prova acquisiti nel processo civile.

(18) Insomma a chi (v. retro, nota 6) rimprovera ad altri lo “scetticismo avvoca- tesco” di quanti sono abituati ad unire il ruolo dello studioso a quello dell’avvocato (rimprovero che avvalora con il richiamo a qualche scritto di giuristi anglosassoni: qui a Twining) si potrebbe replicare che non è meno fallace il dottrinarismo di chi, non

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4. – Se, a questo punto, ci chiedessimo che è prova, capiremmo che la risposta varia in funzione delle opzioni ideologiche.

Chi parte dall’idea che la prova giuridica costituisce una specie del genere prova o, per parlar figurato, un capitolo di un unico libro, è tendenzialmente portato a non fare differenze: è prova tutto ciò che può essere utilmente utilizzato per la ricostruzione del fatto rilevante.

Tra i vari mezzi di prova sarebbero consentite differenze soltanto di tipo, per così dire, naturalistico, nel senso, per esemplificare, che il documento è cosa “naturalmente” diversa dalla testimonianza o dal generico indizio. Tutti, peraltro, sarebbero elementi allo stesso modo significanti e spetterebbe al giudice nel concreto e al momento della valutazione assegnare all’uno o all’altro maggior valore ai fini della formazione del suo convincimento. L’intero diritto delle prove potreb- be ridursi, con qualche adattamento, alla proposizione che l’art. 2727 c.c. usa per definire la presunzione: è prova ogni elemento che con- sente al giudice, secondo il suo prudente apprezzamento, di risalire dal fatto noto al fatto ignorato. In questo modo sarebbero superate d’un solo balzo le questioni e le polemiche circa la tassatività dei mezzi di prova e l’ammissibilità delle prove atipiche.

Sarebbe tutto ciò segno di un effettivo progresso?

Vista dall’angolo di visuale del giudice si sarebbe tentati di rispon- dere affermativamente. Il giudice, infatti, potrebbe con qualche orgo- glio rivendicare a se stesso la funzione di “sovrano regolatore” di ciò che è utilizzabile per la formazione del suo convincimento; egli potrebbe assegnare a se stesso il ruolo di “misura” o di “metro” dei da- ti significanti per la risoluzione della singola vicenda processuale.

Mi permetto di esprimere il dubbio che questo giudice corrispon- da a una figura “ideale” che trascende le possibilità umane: egli do- vrebbe essere equilibrato e paziente; dotato di intuito investigativo, ma disposto a metterne sempre in dubbio i risvolti applicativi; avere doti medianiche o sovrannaturali che egli consentano di stabilire dov’è la verità e dove l’artificio o la menzogna; avere il coraggio di scegliere con sicura capacità selettiva, nel ventaglio di soluzioni possibili, quel- la più affidabile, e via di questo passo. Ebbene, se ci fosse uno solo che si riconoscesse in questo ritratto, dubiterei della sua idoneità alla fun-

vivendo i concreti problemi del processo, li studia in un ambiente rarefatto, in una sorta di torre d’avorio nella quale si è confinato per la sua passione speculativa. D’altra parte, non è costante la critica secondo cui nell’accademia vi è frattura tra passi e teo- ria? e non dovremmo fare ogni sforzo per dimostrare che si tratta di una critica non meritata?

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zione, perché ogni sua attitudine sarebbe guastata dalla imperdonabi- le presunzione.

Il tipo di giudice storicamente dato, al quale si deve fare riferi- mento e nel quale il giudice-persona può riconoscersi, è, invece, l’uo- mo medio, con i limiti suoi propri, anche se deve trattarsi di persona sensibile e acculturata.

Ma è, questo giudice concreto (e non astratto o ideale), capace di portare sulle sue spalle il fardello dell’indagine probatoria nel proces- so, camminando senza debordare sulla lamina sottile che corre tra l’invadenza e la superficialità, il troppo e il troppo poco? Senza ripete- re le osservazioni fatte in relazione ai regimi autoritari, proviamo a vedere che cosa è successo o succede nei sistemi inclini a ridurre all’es- senziale l’ambito della disciplina giuridica delle prove. Si tratta in genere di ordinamenti che non hanno alle spalle un grosso bagaglio di storia (si pensi a talune esperienze del processo dell’antica Roma o del medio-evo o, per passare ai nostri giorni, alle esperienze del processo anglosassone o della comunità europea in via di formazione). Potrem- mo, in queste esperienze, cogliere un filo comune: la tendenza a scam- biare la prova con l’argumentum, ad esaltare la capacità dialettica di persuasione rispetto all’analitico riscontro fattuale, a qualificare come

“artificiale” la prova che deve soccombere rispetto all’evidenza dell’e- sortazione oratoria, “inartificialis” e perciò sicuramente genuina.

Ciascuno, su questi temi, può esprimere la sua scelta, che è frut- to della sua personale maniera di cogliere i valori ad essa sottesi.

Quando, tuttavia, la scelta sia nel senso che comunque vada perse- guito l’obiettivo che nel processo deve essere utilizzabile tutto ciò che è rilevante, non si possono eludere due problemi specifici: se e come deve essere disciplinata l’introduzione del dato significante nel pro- cesso; se e come debba essere valutato il dato significante non intro- dotto e/o non introducibile nel processo con il rispetto delle regole di assunzione.

Sul primo punto le regole saranno ridotte al minimo, se si ritiene che il giudice deve essere sovrano nella ricerca istruttoria; si concrete- ranno in un reticolo minuzioso e, talora, asfissiante (più di frequente, di regole di esclusione), se si ritiene che il giudice non deve essere per- sonalmente implicato nella ricerca per non comprometterne l’impar- zialità. Ancora una volta abbiamo dinanzi due possibili sbocchi finali:

un processo autoritario e un processo esposto al prevalere della capa- cità dialettica o della abilità difensiva dell’avvocato.

Per quanto concerne il secondo aspetto del problema, c’è da chie- dersi se sia utilizzabile nel processo il dato probatorio assunto senza il

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rispetto delle regole del processo (ad es., la testimonianza resa fuori udienza e senza contraddittorio ovvero quella resa fuori udienza dal terzo interessato) o addirittura acquisito in modo illecito (ad es., la registrazione di una conversazione privata effettuata senza autorizza- zione o la sottrazione e l’apertura abusiva di una lettera).

Anche qui si scontrano le due solite posizioni: la prima che è disponibile a utilizzare tali elementi probatori anche se ne depotenzia il valore (ma, in un sistema nel quale tutto è rimesso alla discrezione del giudice, non è facile stabilire in che cosa consista questo depoten- ziamento) e la seconda che esclude, in via di principio, la possibilità di utilizzazione della prova illecita e che arriva, pur se con qualche riserva, ad analoga conclusione quanto alla prova assunta in forma atipica.

La scelta tra le due posizioni, quando non si voglia essere condi- zionati dal dato positivo, è ancora una volta una scelta di valore e, quindi, rimessa alle opzioni legate al modo di sentire di ciascuno di noi (19).

5. – Proviamo ora a porci la stessa domanda – che è prova? – nel- l’ambito di una concezione che dà rilievo alla specificità della prova giuridica, escludendo che questa sia parte di un più ampio genere.

La risposta è semplice: è prova ciò che il legislatore vuole che sia prova e nella maniera e nella misura in cui lo vuole. Le conseguenze applicative sono molteplici: il legislatore deve disciplinare il fenomeno nei dettagli; può e deve individuare i mezzi di prova ammissibili; può fissare una gerarchia tra i mezzi di prova. Inoltre, mentre, secondo la precedente concezione, il giudizio di rilevanza assorbe quello sull’am- missibilità, nel senso che è ammissibile la prova rilevante; secondo questa concezione, il giudizio di ammissibilità precede quello di rile- vanza, nel senso che il giudice deve chiedersi se una prova è rilevante

(19) Volutamente, nel trattare i temi di questo paragrafo, ho omesso ogni richia- mo bigliografico. Il lettore potrà ritrovare le fonti delle riflessioni qui riassunte nelle opere richiamate in precedenza. Aggiungerei come testimonianza del processo di for- mazione di un diritto probatorio in sede comunitaria, BIAVATI, Accertamento dei fatti e tecniche probatorie nel processo comunitario, Milano, 1992. Mi sembra interessante aggiungere soltanto che un giudice, nel trattare di recente a scopi didascalici il tema delle prove (VIAZZI, La riforma del processo civile e alcune prassi giurisprudenziali in materia di prove: un nodo irrisolto, in Foro it., 1994, V, spec. c. 116 ss.), ha sottolineato l’importanza decisiva che, in questo campo, assume il ruolo del giudice, la sua forma- zione, la sua identità.

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solo dopo che l’abbia giudicata ammissibile (20). Le differenze tra le due concezioni in astratto sono assai nette, esprimendo due posizioni antitetiche. In concreto tendono ad attenuarsi, perché, come si è visto, la prima concezione non può fare a meno di una sia pur ridotta disci- plina legale della prova e la seconda non può fare a meno di misurare la bontà e completezza del proprio sistema, facendo i raffronti con il buon senso comune. Avviene, così, che in ogni ordinamento, anche in quello che detta il regolamento più analitico della prova, esiste una clausola finale, che consente alla disciplina di autocompletarsi con un riferimento a dati extragiuridici.

Mi riferisco alla necessità di dare comunque ingresso all’indizio, che è base della insopprimibile inferenza presuntiva. Non credo di sba- gliare quando mi spingo ad affermare che i codici non sono in grado di definire gli indizi. Questi, infatti, sfuggono ad ogni tentativo di cata- logazione e sono ribelli per loro natura a qualsiasi tentativo di rego- larne nel processo i modi di acquisizione.

L’indizio, possiamo dire, si propone da solo al giudice con la sua costituzionale invadenza ed il giudice è tanto più disponibile a lasciar- sene sopraffare quanto più è corrivo alla ricerca della verità materiale o suggestionato dall’idea che, dovendo essere ammissibile tutto ciò che è rilevante, nel processo è utilizzabile qualsiasi dato probatorio, comunque acquisito. Spesso avviene, allora, che il giudice risolve la

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(20) Vediamo come pone il problema l’a. che più di tutti fra noi è fautore di un sistema probatorio che sia il più vicino possibile alla dottrina di Thayer e, prima anco- ra, all’insegnamento di Bentham. Orbene, TARUFFO, La prova ecc. cit., p. 337 s. nota che il problema dell’impiego della prova è risolto dagli ordinamenti con l’uso combi- nato di due criteri (quello logico della rilevanza e quello giuridico dell’ammissibilità) ed osserva che “vi è tra essi un ordine logico secondo il quale la priorità spetta al cri- terio della rilevanza: se una prova è irrilevante, infatti, non ha senso chiedersi se essa sia o no giuridicamente ammissibile, poiché la sua acquisizione sarebbe comunque inutile. Di conseguenza il criterio di ammissibilità opera soltanto nel senso di esclude- re nel processo prove che sarebbero rilevanti per l’accertamento dei fatti”. Chi abbia fatto tesoro delle premesse poste nel primo paragrafo di questo lavoro, potrà com- prendere che tale proposizione è accettabile nell’ottica di chi massimizza la “freedom of proof” secondo la concezione benthamiana. Chi, invece, da rilievo prevalente alla legalità della prova, è portato a costruire una proposizione opposta. Nella realtà, nes- sun giudice, se trova che la prova urta contro un divieto soggettivo (es., incapacità del teste) o oggettivo (es., impossibilità di provare patti aggiunti o contrari al contenuto del documento) e nessun avvocato, potendo denunciare la violazione di legge da parte del giudice che ha ammesso una prova inammissibile, si avventurerebbe in un ricorso per cassazione fondato sul difetto di motivazione perché la prova (inammissibile) è anche irrilevante.

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questione di fatto dando valore agli indizi all’insaputa delle parti e senza che su di essi si sia sviluppato un sufficiente contraddittorio e/o che le parti abbiano avuto la possibilità di introdurre nel processo dati idonei a neutralizzare la carica persuasiva che il giudice è propenso a ricollegare ai medesimi.

È strano che la dottrina, la quale da sempre ammonisce che il giu- dice non deve percorrere la “terza via” sulla questione di diritto senza aver provocato il contraddittorio tra le parti, non abbia sentito la gra- vità del problema, quando, tramite gli indizi, il giudice voglia percor- rere una “terza via” per risolvere la questione di fatto (21). Anche i codici, dei quali si lamenta un’eccessiva invadenza regolamentare in tema di prova, non somministrano indicazioni esaustive. Gli artt. 2727 ss. c.c. forniscono agli indizi il passaporto d’ingresso nel nostro pro- cesso, ma – come si è detto – non sarebbe stato possibile fare diversa- mente. Dall’art. 2729 è dato desumere due regole: il giudice, nell’am- mettere e dare rilievo all’indizio, deve adoperare la sua prudenza, che sembrerebbe corrispondere a quella di cui discorre l’art. 116, ma che è diversa, posto che il giudice può utilizzarli solamente se “siano gravi, precisi e concordanti” (22); gli indizi non possono essere utilizzati nei casi in cui il legislatore esclude la prova per testimoni.

È poco. Manca qualsiasi disposizione che regoli il procedimento di acquisizione dell’indizio al processo, quasi che il giudice lo possa estrarre dal materiale processuale a suo piacimento e quando oramai si è riservato per la decisione; manca qualsiasi regola di esclusione. In

(21) Una significativa eccezione è data dallo studio di MONTESANO, Le “prove atipiche” ecc. cit., in Riv. dir. proc., 1980, p. 231 ss., i cui risultati sono stati da me ripre- si in Profili del processo civile. 2. Processo di cognizione, Napoli, 1996, p. 135 ss. Mon- tesano preferisce parlare di prove atipiche piuttosto che di indizi (p. 244), ma poi chia- risce che all’art. 2729 c.c. si possono ricondurre soltanto “quelle in cui il fatto da pro- vare non risulta, per specifica e concreta disposizione, da alcuno strumento istruttorio, ma viene invece argomentato da quel risultato” (p. 245): che è cosa non diversa da ciò che io intendo per indizio. In giurisprudenza sulla nozione di indizio e di prova pre- suntiva v., di recente, Cass. 4 febb. 1993, n. 1377, in Giust. civ., 1993, I, 1495 ss.; 21 genn. 1995, n. 701, in Dir. giur. agr. e amb., 1996, II, 245 e, in relazione alla vexata quae- stio del saldaconto bancario, Cass. 10 agosto 1990, n. 8128, in Foro it., 1991, I, 128.

(22) Sul punto v. MONTESANO, op. ult. cit., p. 244, nonché il mio Prova legale e formalismo, cit., in Foro it., 1990, V, c. 465 ss. e Profili ecc. cit. 2. p. 135 s. Mi sembra acuta l’osservazione di Montesano (a p. 238 s.) secondo cui la prova acquisita al pro- cesso contra ius non è necessariamente inefficace, quando i risultati siano stati utiliz- zati dalle difese delle parti, dando luogo alla configurazione o di fatti specifici o ad aspetti del comportamento processuale che è fonte di “argomento di prova”.

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questo modo diventa legittimo chiedersi se possa essere utilizzata come indizio la prova illecita, la prova assunta illegittimamente, la prova atipica o innominata. Si ripropongono, in altri termini, le stes- se questioni che abbiamo già esaminate nella prospettiva di una diver- sa concezione della prova. Ma forse abbiamo qualche base più solida per risolvere le relative questioni.

A mio avviso, nel momento in cui il giudice dà valore all’indizio, se in precedenza non è stato provocato il contraddittorio, egli, non essendo l’ipotesi molto diversa, dovrebbe applicare l’art. 184 ult.

comma c.p.c. ed assegnare alle parti un termine per controdedurre ed eventualmente articolare una prova contraria. Non dovrebbe essere come indizio una prova ottenuta con mezzi illeciti e neppure dovreb- be essere consentito di valutare come indizio una prova raccolta senza il rispetto delle regole di acquisizione processuale tutte le volte in cui sia ancora possibile farvi ricorso (penso, ad es., alla dichiarazione resa dal terzo fuori dal processo, quante volte questo terzo possa esse- re sentito regolarmente come testimone, non potendo una generica esigenza di economia processuale prevalere sul rispetto dell’immedia- tezza e del contraddittorio). A maggior ragione non dovrebbe essere consentito di valutare come indizio la prova formata fuori dal proces- so e che mai potrebbe essere formata o utilizzata nel processo (si pensi alla testimonianza resa fuori dal processo da un terzo che non potrebbe essere sentito come testimone in quanto interessato; ovvero al documento affatto privo dei requisiti di legge perché abbia risalto probatorio (23).

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(23) Non diversamente CAVALLONE, Critica della teoria delle prove atipiche, ora in Il giudice e la prova, cit., p. 335 ss. e MONTESANO, op. ult. cit., p. 238 s.. Per una diver- sa prospettiva vedi RICCI G.F., Le prove illecite nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc.

civ., 1987, p. 34 ss.; id., Premesse ad uno studio sulle prove atipiche, Arezzo, 1990, spec.

p. 172 ss., dove altri richiami, cui adde almeno TARUFFO, La prova ecc. cit., p. 354 ss.

Sul punto è facile cadere in equivoci. Per es., argomenta Taruffo (a p. 358) che “la traccia di una frenata non si forma in contraddittorio ma ciò nonostante è un indizio rilevante; una certificazione amministrativa non si forma in contraddittorio ma può fornire elementi utili di conoscenza”. È facile obiettare che: a) la traccia della frenata è l’indizio, che viene assunto nel processo tramite l’ispezione diretta del giudice o l’ac- certamento del consulente tecnico, e che tale traccia, ove non decifrabile nel suo signi- ficato tramite il comune patrimonio di conoscenze, deve essere interpretata e resa intelleggibile da un tecnico che usi al sua particolare scienza; b) la certificazione ammi- nistrativa, in quanto proveniente dal pubblico ufficiale competente, fa prova fino a querela di falso dei fatti attestati dal medesimo; se tali fatti, poi, hanno un rilievo pro- batorio indiretto, possono essere utilizzati dal giudice come presupposto per un ragio- namento presuntivo.

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Molto si discute, a questo proposito, della prova scientifica. A mio avviso, bisogna qui distinguere il dato significante dal procedimento necessario per decifrarne il significato. Il primo ben può essere ricon- dotto alla generica nozione di indizio (quando non abbia la più impe- gnativa veste di documento). Il secondo non può non concretarsi in una tecnica di decifrazione che è legata al grado di conoscenze cui in un determinato contesto culturale si è pervenuti. La via, allora, è quel- la di un allargamento della nozione di consulenza tecnica fino a ricomprendervi anche tali ipotesi e della introduzione di validi momenti di controllo a garanzia del diritto di difesa (24).

6. – In questi anni si è usato come una sorta di grimaldello per for- zare le limitazioni di cui è costellato il nostro diritto probatorio l’ar- gomento secondo il quale il diritto alla prova sarebbe un complemen- to irrinunciabile del diritto di azione e di difesa costituzionalmente protetto dall’art. 24 (25).

L’argomento è di quelli destinati a provare troppo: da un lato, infatti, è innegabile che un diritto d’azione e di difesa cui sia sottratto il diritto alla prova sarebbe un diritto soltanto apparente; dall’altro lato, però, è da dimostrare che il legislatore non possa prevedere limi- ti alle prove utilizzabili e regole di assunzione, che comunque circo- scrivano la possibilità di utilizzazione del mezzo probatorio (26).

(24) Come già aveva visto DENTI, Scientificità della prova ecc. cit., in Riv. dir.

proc., 1972, p. 414 il problema vero, in questo settore, è quello della attendibilità dei metodi scientifici adoperati – che non devono, comunque, recare attentato alla fonda- mentale dignità della persona – e quello di un controllo che ottenga un diffuso con- senso della collettività.

(25) V., ad es., COMOGLIO, La garanzia costituzionale dell’azione e il processo civi- le, Padova, 1970, p. 148 ss.; 301 ss.; id., Le prove, ecc. cit., p. 19 ss.; TARUFFO, Il dirit- to alla prova nel proc. civ., in Riv. dir. proc., 1984, pp. 74 s., 103 s.; id., Note per una rifor- ma del diritto delle prove, in Riv. dir. proc., 1986, p. 258 s.; VIGORITI, Garanzie costi- tuizionali del proc. civ., Milano, 1970, p. 96 s. Per applicazioni giurisprudenziali di tale diritto v. Cass. 12 maggio 1994, n. 4643, in Foro it., 1996, I, c. 264 ss. e in Giust. civ., 1994, I, c. 2135 ss. (sulla possibilità di utilizzare i risultati dell’istruttoria ufficiosa con- dotta nella fase preliminare del procedimento di adozione).

(26) V. agli Aa., citt. retro, a nota 10 e, da ultimo, ANDOLINA-VIGNERA, I fon- damenti costituzionali della giustizia civile. Il modello costituzionale del processo civile italiano, 2aedizione, Torino, 1997, p. 97 ss. Questi Aa. ripercorrendo l’itinerario segui- to dalla Corte, non sempre ne condividono le scelte anche perché appaiono fortemen- te influenzati dalle tesi di Taruffo in tema di prove. Gli stessi, però, non escludono la possibilità di vincoli e limiti, pur se non assoluti: ed è quanto basta ai fini del presen- te scritto.

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Non voglio qui sindacare quale sia stato l’atteggiamento della Corte Costituzionale al riguardo. Mi sembra, però, che dalla giuri- sprudenza della Corte si possa trarre una linea direttrice: sono inco- stituzionali i limiti o i divieti assoluti (27), così come sono incostitu- zionali i vincoli egualmente assoluti degli accertamenti condotti fuori dal processo (28); quanto ai limiti relativi, bisogna procedere ad un esame caso per caso, giacché si devono ritenere legittimi quando essi non provochino diseguaglianze nelle possibilità difensive delle parti (29) e quando le ragioni tecniche che sono a base dei medesimi appaiano prevalenti rispetto alla generica esigenza di garantire il dirit- to di azione e di difesa (30). Che questa linea ispirata a grande caute-

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(27) In questo senso v., ad es., le sentenze 3 giugno 1966, n. 53 e 27 giugno 1973, n. 94, in Foro it., 1966, I, 991 e 1973, I, 2012. Per la seconda decisione “il solo fatto del- l’esclusione di un mezzo di prova, come quello della testimonianza, non costituisce di per se stesso violazione del diritto di difesa, ben potendo il legislatore in piena discre- zionalità limitarne o escluderne l’ammissibilità” (qui il richiamo anche alle sentenze nn. 112/70 e 128/72.

(28) Cfr. sent. 22 dicembre 1961, n. 70, in Giur. cost., 1961, p. 1282 ss. con nota di CAPPELLETTI, Diritto di azione e di difesa e funzione concretizzatrice della giurispru- denza costituzionale (art. 24 Cost. e “due process of law clause”). Si tratta della senten- za che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 nn. 1 e 2 l. 23 maggio 1950, n. 253, nella parte in cui demandava al genio civile gli accertamenti delle condizioni tecniche e della necessità di sgombero di un immobile. Cappelletti, chiosando la deci- sione, rilevava che in questo modo si cominciava a combattere la tendenza a svalutare la ricerca o il giudizio sul fatto, “mentre è chiaro invece che la istruzione non altro rap- presenta se non l’iter formativo della decisione”.

(29) Cfr. sent. 18 maggio 1989, n. 251, in Foro it., 1989, I, 2700 che, in relazione al processo amministrativo, ha ribadito che le limitazioni circa “la possibilità di utilizza- re certi mezzi probatori sono insite in ogni sistema processuale in ragione della pecu- liarità della controversia relativa a ciascuno di essi”; 20 dicembre 1989, n. 560, ivi, I, c.

3084 che ha riaffermato lo stesso principio in relazione al processo tributario (come regolato dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 736); 2 marzo 1990, n. 108 (ord.), ivi, 1990, I, c.

3083. Non si discosta da tale logica la decisione 23 aprile 1987, n. 146, in Riv. dir. proc., 1987, p. 704 ss. con mia nota (La Corte Costituzionale e la disciplina delle prove nel pro- cesso del pubblico impiego), che ha dichiarato illegittimi gli articoli che, disciplinando il processo amministrativo in materia di pubblico impiego, ha affermato la necessità che il processo amministrativo, quando riguarda diritti soggettivi, deve poter utilizza- re tutti i mezzi di prova consentiti nel processo ordinario.

(30) V. sent. 23 luglio 1974, n. 248, in Giur. cost., 1974, p. 3586 con nota di Cap- pelletti e in Riv. dir. proc., 1976, p. 41 ss. con nota di Comoglio, che ha dichiarato ille- gittimo il divieto di testimoniare posto a carico dei prossimi congiunti dell’art. 247 c.p.c. e ha lasciato in vita l’art. 246 c.p.c. sul divieto di testimoniare di chi ha interesse in causa (la Corte, benché successivamente sollecitata da altre ordinanze di remissio- ne, è rimasta ferma sulla costituzionalità dell’art. 246); sent. 22 dicembre 1989, n. 568, in Foro it., 1990, I, 2141 che ha dichiarato illegittimo l’art. 13 comma 4 e 5 l. 12 agosto

(29)

la debba considerarsi assai ragionevole mi sembra confermato dal fatto che i fautori del principio della piena utilizzabilità di ogni ele- mento di prova hanno reagito con vivacità polemica soltanto in rela- zione alle decisioni che hanno confermato la validità del divieto di testimoniare del soggetto che abbia un interesse in causa (ex art. 246 c.p.c.) (31). Ma si tratta di vedere fino a che punto la soluzione della Corte non sia stata influenzata dalla consapevolezza che tutto il nostro diritto probatorio è condizionato da una premessa: non essere utiliz- zabile a fine probatorio la scienza privata della parte processuale a meno che tale scienza venga incanalata in dichiarazioni cui, per il con- tenuto o per la forma secondo la quale sono rese, si debba assegnare una particolare efficacia probatoria.

È la premessa o, secondo i gusti, il pregiudizio che ha reso finora impossibile l’introduzione nel nostro sistema della testimonianza giu- rata della parte.

D’altra parte, se il diritto alla prova esprime un valore meritevole di considerazione, anche la funzione di garanzia che si assegna al dirit- to delle prove è un valore non trascurabile. Gli studiosi del processo penale hanno avvertito il rischio che la battaglia in favore del princi- pio del libero convincimento del giudice e della eliminazione di ogni limite o divieto probatorio può consapevolmente o inconsapevolmen- te trasformarsi in una battaglia contro la configurazione meramente tecnica dell’attività del giudice. Ed è così che gli stessi studiosi del pro- cesso penale in questi anni hanno reclamato e continuano a reclama- re la parità delle armi nell’attività istruttoria, la possibilità di un’effet- tiva partecipazione alla formazione della prova e di un effettivo con- trollo nel corso dell’indagine istruttoria. Paradossalmente gli stessi hanno richiamato proprio l’art. 24 per invocare, come coessenziale al diritto di difesa, una disciplina dei procedimenti probatori che non può non tradursi in limiti e divieti (32).

19662, n. 1338 nella parte in cui, salva la necessità della prova scritta sull’esistenza del rapporto di lavoro, da fornirsi al lavoratore, non consente di provare altrimenti la dura- ta del rapporto stesso e l’ammontare della retribuzione; sent. 24 febb. 1995, n. 62, in Foro it., 1996, I, 83 che ha rigettato la riproposta questione di illegittimità costituzio- nale dell’art. 246 c.p.c. sia pure con riferimento limitato ai giudizi di divisione del patri- monio comune tra i coniugi. Per una recente definizione giurisprudenziale di terzo interessato cui si indirizza il divieto di testimoniare, v. Cass. 13 marzo 1996, n. 2058, in Giust. civ., 1996, I, p. 1943 ss..

(31) V., fra molti, i commenti di Cappelletti e Comoglio richiamati alla preceden- te nota.

(32) V. gli Aa. richiamati retro a nota 11.

(30)

7. – È da chiedersi se esista una maniera per misurare il quantum di prova sufficiente per fondare il convincimento del giudice; se cioè vi sia una maniera meno approssimativa ed empirica per definire ciò che il legislatore chiama “prudente apprezzamento”.

Lo svolgimento di questo tema richiama un altro problema: quale è la “quantità” di cognizione sufficiente per esprimere una decisione definitiva? La domanda può essere costruita anche diversamente, per- ché si tratta di stabilire se esiste un modello di processo contenzioso a cognizione piena che fissi il minimo indispensabile di attività istrutto- ria che il giudice deve compiere prima di decidere, così che qualsiasi disciplina che si discosti da tale minimo potrebbe porsi come lesiva dei valori generalmente accettati e, quanto al nostro ordinamento, fatti propri dalla Carta Costituzionale.

Possiamo ricavare qualche riscontro dottrinario dal vivace dibat- tito teso a segnare la linea di confine tra processo ordinario e proces- si sommari, sul presupposto che sarebbe illegittimo (o irragionevole) un processo ordinario che non fosse correlato ad almeno un grado di giudizio a cognizione piena (33). Ma, se non prendo abbaglio, quasi non è investigato il problema relativo alla misura di questa cognizio- ne “piena”. La soluzione del quale passa per le già percorse strade antitetiche legate a differenti presupposti ideologici: per gli assertori del libero convincimento giudiziale, inteso come libertà di indagine oltre che di valutazione, sarà piena la prova soltanto se sarà realizza- ta la condizione per la quale è ammissibile ogni prova rilevante; per i cultori della specificità della prova legale sarà piena la cognizione che realizzi il modello processuale ritenuto idoneo dal legislatore secondo scelte sindacabili soltanto con il metro della ragionevolezza (dove sarà ragionevole la disciplina limitatrice che riposi su adeguata e apprez- zabile giustificazione), della eguaglianza e del rispetto del principio del contraddittorio. Altro e diverso è il problema di un “misuratore”

del prudente apprezzamento o dell’intime conviction del giudice. La Corte Costituzionale sembra aver finora seguito questa linea direttiva.

Quando, ad es., ha dichiarato l’illegittimità di alcune disposizioni in tema di prova applicate al processo in materia di pubblico impiego, non ha ritenuto illegittimo il modello del processo amministrativo in

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(33) V. il volume su I procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti, in Atti del XVII Convegno naz. dell’Associazione tra gli studiosi del processo civile tenu- to a Palermo il 6-7 ottobre 1989, Milano, 1991, cui adde almeno PAGANO, Contributi allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, Napoli, 1997.

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