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Parte II 1.MISURAZIONE

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Academic year: 2022

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Tali dati vengono:

1. digitalizzati e manipolati per creare layer di dati e mappe tematiche;

2. convertiti e formattati per essere utilizzati come input per le simulazioni in modelli di calcolo.

Una differenza sostanziale tra i GIS e i software di cartografia numerica è la possibilità intrinseca dei primi di elaborare dati geografici attraverso algoritmi matematici. Si tratta dei cosiddetti algoritmi di overlay mapping, che consentono di sovrapporre ed integrare più layer informativi, gli algoritmi di buffering, cioè di generazione di aree di rispetto intorno a degli elementi geografici definiti, gli algoritmi per l’analisi di intorno, quelli per la ricerca di percorsi di minimo costo o per la ricerca dei percorsi ottimali, gli algoritmi di segmentazione dinamica ecc... Esistono poi gli algoritmi per l’elaborazione di modelli digitali del terreno che permettono di generare griglie per un modello di calcolo.

Tra questi ricordiamo i TIN e i DEM.

• Un TIN (Triangulated Irregular Network) utilizza un algoritmo che crea una rete di triangoli, i cui vertici sono costituiti da punti di cui si conoscono le tre coordinate, racchiusi in un’area per la quale rappresentano un qualche tipo di superficie (ad es.

la quota). Il TIN, quindi, si utilizza quando si ha a che fare con un insieme sparso di elementi quotati.

• Se si dispone invece di un insieme di punti quotati ordinati in griglie a passo regolare, è possibile generare un DEM (Digital Elevation Model). Un DEM può servire per definire la geometria e le dimensioni di un acquifero.

A partire da un TIN o un DEM è possibile interpolare curve di livello, effettuare analisi di visibilità, generare profili longitudinali, effettuare analisi di pendenza e di esposizione, disegnare carte cliviometriche, generare viste 3D e molto altro. Ma soprattutto è possibile calcolare le lunghezze reali.

Il vantaggi dell’utilizzo del GIS, rispetto ai software standard di generazione di griglie, è che permette un diretto legame tra la struttura della griglia e i dati geografici sui quali è basato.

C’è però lo svantaggio che un GIS non ha funzioni di ottimizzazione così sofisticate come quelli che si trovano in molti software che, automaticamente, riescono a generare griglie con proprietà geometriche tali da assicurare la stabilità numerica, l’accuratezza e la convergenza del modello numerico prescelto.

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1.3.2 RAPPRESENTAZIONE E FORMATO DEI DATI

Nei sistemi informativi territoriali vengono utilizzati due tipi di dati: le informazioni spaziali e quelle alfanumeriche. I dati spaziali forniscono informazioni sulla localizzazione degli oggetti geografici mentre gli attributi alfanumerici descrivono la forma degli stessi. Le informazioni spaziali e gli attributi degli oggetti geografici possono essere memorizzati in due formati:

vettoriale o raster.

La sorgente più comune di dati acquisibili in un GIS sono carte topografiche e tematiche. Atre fonti sono le foto aeree e le immagini da satellite.

-FORMATO VETTORIALE-

L’approccio generalmente usato nei GIS per l’acquisizione in forma digitale delle informazioni territoriali è la rappresentazione per punti, linee e poligoni. Per dati vettoriali si intendono, in altre parole, dati geometrici memorizzati attraverso le coordinate dei punti significativi degli elementi stessi: ad es. un cerchio può essere memorizzato attraverso le coordinate del suo centro e la misura del suo raggio. Tale formato di dati spaziali è compatibile con molti algoritmi numerici di elaborazione di dati.

Il dato geografico in formato vettoriale viene rappresentato attraverso tre componenti:

geometria: Descrive la forma degli oggetti utilizzando le primitive punto, linea ed area.

attribuzione: Descrive le caratteristiche degli oggetti utilizzando un database relazione associato.

relazione: Descrive i mutui legami fra gli oggetti utilizzando le relazioni topologiche (adiacenza, appartenenza e connessione).

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Tipici dati memorizzati in formato vettoriale sono quelli che provengono dalla digitalizzazione manuale di mappe, dai rilievi topografici con strumenti di campagna, dai CAD, dai GPS (Global Positioning Systems).

-FORMATO RASTER-

Un altro tipo d rappresentazione di dati spaziali è conosciuto con il nome di formato raster. I dati geografici sono riportati su una griglia regolare, o matrice, la cui unità elementare è chiamata cella o pixel (Picture Element). Ad ogni cella viene assegnato un valore alfanumerico che ne rappresenta un attributo: in questo modo, per esempio, aree possono essere rappresentate da insiemi di celle adiacenti con lo stesso valore.

I valori assegnati alle celle possono rappresentare sia singoli fenomeni naturali o antropici, sia il risultato della combinazione di più informazioni attraverso metodologie di analisi (ad es. la risultante, per ogni cella, della combinazione di temperatura, direzione del vento e il tipo di copertura vegetale) od anche semplici attributi grafici come la tonalità di colore.

Nel trattamento di dati raster dobbiamo considerare tre fattori:

risoluzione: Dipende dalla fonte dei dati e dalla metodologia scelta per la raccolta.

Un’immagine da satellite, ad esempio, può avere una risoluzione al suolo 10x10 metri.

compressione: Si intende la capacità di comprimere i dati raster, i quali richiedono una capacità di memoria più elevata di quella per i dati vettoriali, per renderli più maneggevoli.

registrazione: Si intendono le tecniche necessarie a georeferenziare e raddrizzare le immagini raster. Infatti le foto aeree e le immagini da satellite, oltre a dover essere posizionate correttamente facendo collimare le coordinate dei punti noti a terra con quelli degli oggetti presenti nell’immagine, devono anche essere ortogonalizzare, ovvero ricalcolate tenendo conto dell’angolo di scatto.

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Nel caso del formato raster, la compatibilità si ha con algoritmi matematici che si basano sull’analisi matriciale. Tipici dati raster sono quelli generati da scanner e dai programmi di interpretazione di immagini satellitari.

Nei moderni GIS, i dati vettoriali e i dati raster coesistono e si integrano a vicenda. I primi sono usati per i dati discreti (ad esempio le vie di comunicazione derivate dalla cartografia). I secondi sono usati per i dati continui (ad esempio l’umidità al suolo derivante da immagini da satellite).

1.3.3 COME IMPIEGARE IL GIS

Allo scopo di rappresentare e gestire le informazioni spaziali mediante un GIS, è necessario definire un modello di dati che sia abbastanza ampio da accogliere al suo interno tutti gli oggetti che esistono nel mondo fisico (aree, linee, punti, quote, ecc..) e che sia sufficientemente elastico da permettere di adattarlo a tutte le combinazioni che effettivamente occorrono nella realtà. Le informazioni geografiche sono memorizzate come una collezione di strati o layer tematici (FIG 10.) che possono essere tra loro relazionati tramite collegamenti e sovrapposizioni geografiche.

Il GIS consente di svolgere le seguenti operazioni:

Input: I dati input riguardano principalmente la strutturazione dei database associati ai GIS opportunamente digitalizzati.

Manipolazione: Molto spesso i dati necessari a svolgere un determinato progetto GIS devono essere trasformati o manipolati per essere compatibili col proprio sistema di riferimento geografico. Ciò accade, ad esempio, quando si è in presenza di informazioni provenienti da scale diverse, con vari gradi di dettaglio ed accuratezza.

La tecnologia GIS offre diversi strumenti per integrare tra loro le basi dati spaziali, renderle congruenti alla scala di analisi del progetto, arrotondare ed eliminare quelle in eccesso.

Gestione: Quando il volume di dati comincia a crescere, lo schema utilizzato è quello relazionale. In esso i dati sono memorizzati come una collezione di tabelle. Alcuni campi comuni fra le differenti tabelle sono utilizzati come chiavi di relazione.

Interrogazione ed analisi: Il GIS consente sia di effettuare delle semplici query interattive (point and click) sia di compiere sofisticate analisi legate ai contenuti propri

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di specifiche discipline territoriali. Un esempio è la Poximity Analysis che consente di rispondere a domande riguardanti, ad esempio, punti situati entro una certa distanza da un altro punto di riferimento.

Visualizzazione: Molte operazioni geografiche hanno come obiettivo finale la stampa di carte e grafici. Le carte forniscono un modo efficiente per mostrare informazioni geografiche.

CAMPI DI APPLICAZIONE DEL GIS:

Il GIS trova applicazione in molti campi:

- pianificazione territoriale;

- gestione delle reti tecnologiche;

- monitoraggio ambientale;

- salvaguardia dei beni culturali;

- simulazione del traffico;

- piani di disinquinamento;

- Piani Regolatori Urbanistici ; - studi di impatto ambientale;

- gestione del patrimonio edilizio;

- controllo della produzione agricola;

- marketing territoriale;

- analisi socio-economiche;

- analisi della domanda dei servizi ; - carte di uso del suolo;

- cartografie tematiche, geologiche, sismiche.

FIG 10. Sovrapposizione layer GIS.

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2. Monitoraggio

Spesso, nelle numerose realtà italiane di studio e di ricerca, le reti di monitoraggio delle risorse idriche sono gestite da una varietà di soggetti (istituzionali e non) al punto che si assiste ad una proliferazione, e talvolta a una sovrapposizione, di iniziative. L’effetto è rappresentato dall’accumulo di un’ingente mole di dati, bagaglio prezioso ma sterile se non trasferito sul piano dell’analisi critica. Soprattutto in passato, si tendeva a privilegiare le fasi operative di campionamento e analisi a scapito della fase di interpretazione e verifica.

La logica che sta alla base di un monitoraggio razionale ed efficace non è tanto quella di realizzare una raccolta di dati, quanto quella di innescare un processo iterativo di aggiornamento critico delle conoscenze. Il monitoraggio deve costituire un momento di sintesi e di validazione del funzionamento del sistema idrogeologico. Le rete di monitoraggio deve essere non una struttura statica, ma uno strumento da adattare periodicamente in funzione delle modificazioni del sistema in studio. La strategia di monitoraggio dipende dai confini naturali, politici e amministrativi della zona, dalla quantità e qualità delle informazioni geologiche e idrogeologiche, dalla presenza o meno di possibili contaminanti e dalla disponibilità di risorse finanziarie.

Sono almeno tre le ragioni per cui bisogna monitorare l’acqua sotterranea:

1. determinare la qualità e la chimica dell’acqua del sito in studio;

2. determinare l’estensione della contaminazione;

3. monitorare una potenziale fonte di contaminazione.

Il monitoraggio delle acque sotterranee deve prevedere:

1. la rilevazione dell’altezza piezometrica;

2. le analisi chimico-fisiche.

Ciò è necessario per poter formulare ipotesi sulla geometria della falda e le relative modalità di alimentazione e di deflusso.

Nel caso dell’intrusione marina, gli obiettivi fondamentali del monitoraggio sono:

1. la localizzazione della profondità a cui si colloca l’interfaccia;

2. la determinazione dell’esistenza e la localizzazione geografica delle fonti di salinità;

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3. la valutazione dell’entità delle variazioni nel tempo e nello spazio della qualità dell’acqua.

Gli acquiferi costieri devono essere continuamente monitorati al fine di essere protetti da fenomeni di intrusione marina. Tali controlli devono essere effettuati a scadenza programmata. La maniera convenzionale di procedere è quella di analizzare in laboratorio1 i campioni di salinità e di misurare le teste piezometriche attraverso pozzi di monitoraggio adeguatamente attrezzati. Negli ultimi tempi sono state affiancate a tali metodi tradizionali di misura metodi indiretti consistenti in esplorazioni geofisiche, in particolare quelli basati su misure di resistività. Il risultato è che si rende più facile ed economico l’ottenimento di grandi quantità di informazioni spesso anche di buona qualità.

PARAMETRI DI UN ACQUIFERO DA TENER SOTTO CONTROLLO

• Il livello d’ acqua nei pozzi

• I profili di salinità nei pozzi

• ER: resistività elettrica

• EC: conducibilità elettrica

• I profili termici

• La concentrazione di cloro

• Eventuali concentrazioni di altri inquinanti

Con un’adeguata politica di monitoraggio è possibile determinare un “livello sostenibile” di utilizzo dell’acquifero

2.1 MOTODI DIRETTI

2.1.1 GENERALITÀ SUI POZZI SPIA

Un pozzo spia, o di osservazione, è un pozzo che penetra per parecchie decine di metri nell’acqua di mare di invasione continentale al di sotto dello strato di acqua dolce.

Esso è trivellato specificatamente a scopo di studio e fornisce molte informazioni circa:

1 Per la valutazione della concentrazione di cloro si può adoperare una soluzione di nitrato di argento.

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• il livello dell’acqua dolce nel sottosuolo e le fluttuazioni nel tempo;

• lo spessore del sistema di acqua dolce;

• la posizione della zona di transizione e i suoi spostamenti nel tempo;

• la profondità del tetto e letto di acqua salata: spessore cuneo intrusivo;

• la stratificazione termica e salina;

• la direzione e velocità del deflusso sotterraneo;

• eventuali correnti verticali.

Permette inoltre: FIG 1. Pozzo spia

• di ottenere dati sulla stratigrafia e composizione litologica del sottosuolo durante la fase di scavo e costruzione;

• di poter valutare le risposte dell’acquifero a specifiche condizioni di stress per iniezione ed estrazione di acqua dolce. Ciò viene solitamente effettuato tramite test di pompaggio che permettono di calcolare la trasmissività e l’indice di immagazzinamento dell’acquifero e di verificare quanto l’attività di estrazione influisca sulle modalità di flusso nel sottosuolo.

Affinché un pozzo di monitoraggio dia delle informazioni attendibili e sia rappresentativo delle reali condizioni dell’acquifero:

1) deve essere costruito con il minimo disturbo per l’ambiente circostante;

2) deve essere costruito con l’adozione di materiali che sono compatibili con l’ambiente geochimico sotterraneo, ovvero che non interagiscono con l’acqua di falda variandone la composizione.

Decisioni operative riguardano:

• il numero di pozzi da posizionare su una determinata area;

• lo schema geometrico di posizionamento dei pozzi;

• il volume da asportare da ciascun pozzo;

• i tempi e le frequenze di estrazione.

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Nel caso di presenza di fenomeni di up-coning di acqua salata, i pozzi di osservazione dovrebbero essere posizionati in corrispondenza dei pozzi di prelievo in modo da poter verificare e studiare la risalita dell’acqua salmastra. D’altra parte, i pozzi così posizionati possono essere influenzati dal flusso verticale presente nelle immediate vicinanze della zona di pompaggio e fornire dei dati errati. Una buona regola è quella di scavare i pozzi di osservazione a una distanza non minore di 1,5 d, dove d è lo spessore dell’acquifero. Per verificare la presenza di anisotropia nell’acquifero, è buona norma posizionare i pozzi spia a uguali distanze, ma in diverse direzioni, rispetto al punto di pompaggio. Infine, per osservare l’entità dell’abbassamento prodotto dall’attività estrattiva e determinare la forma del cono di influenza, i pozzi dovrebbero essere collocati a differenti distanze radiali.

Un network di pozzi ben posizionati consente la mappazione del cuneo salino e l’osservazione del suo avanzamento nel tempo.

2.1.2 MISURE DI LIVELLO

Esistono varie tecniche per misurare il livello istantaneo dell’acqua in un pozzo a scavo o trivellato. Il metodo più diffuso è quello elettrico. L’attrezzatura impiegata è costituita da una sonda collegata mediante un conduttore bipolare ad un comune tester o a una pila con una

FIG 2. Esempio di mappazione dell’avanzamento negli anni del cuneo intrusivo lungo la costa di Monterey.

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lampadina. La sonda è formata da due terminali metallici isolati tra di loro che, quando toccano l’acqua, sono collegati elettricamente dagli ioni salini presenti. In tale fase il tester segnala la chiusura del circuito o la lampadina si accende. Il vantaggio di questo metodo consiste nel fatto che è possibile segnalare immediatamente la presenza di acqua: le misure sono quindi accurate. Non risulta invece un metodo accurato in condizioni non ideali ovvero di in presenza di una superficie d’acqua disturbata.

Nel metodo a “tubo di aria”, l’attrezzatura è costituita, onvece, da una tubo di aria e un compressore. Una volta introdotto il tubo nel pozzo, si determina la pressione necessaria per far uscire l’aria dalla punta immersa e, in base a questa, si determina facilmente la profondità di immersione del punto. Sottraendo questa quantità alla lunghezza totale di tubo introdotto, si calcola l’altezza del pelo d’acqua rispetto al pozzo. Questa tecnica ha il vantaggio di funzionare bene anche quando la superficie dell’acqua nel pozzo è disturbata. Lo svantaggio principale è invece legato all’integrità del tubo d’aria che tende a otturarsi per depositi minerali o a dare risultati erronei per presenza di perdite.

La frequenza di misurazione è determinata dal tipo di fluttuazioni attese e dal quantitativo di dati necessario. Le fluttuazioni di livello possono essere dovute a numerosi fattori:

l’estrazione, la ricarica, l’evapo-traspirazione ecc... Sarà la necessità di avere dati a determinare il quantitativo di misurazioni da effettuare. Esistono però degli strumenti che consentono la registrazione continua delle fluttuazioni del livello all’interno di un pozzo. Una registrazione idrometrografica in un pozzo mostra, ad esempio, la variazione nel tempo del livello idrico. L’apparecchio registratore, detto idrometrografo, è costituito da un galleggiate che trasmette a una puleggia, attraverso un cavo teso, il movimento determinato dalla variazione di livello. Tale movimento viene trasmesso dalla puleggia a una punta scrivente su un tamburo dotato di movimento ad orologeria. La registrazione ottenuta si chiama idrometrogramma.

2.1.3 ANALISI CHIMICHE

I pozzi di monitoraggio possono essere adibiti al prelevamento di campioni con lo scopo di determinare le caratteristiche chimiche dell’acqua del sottosuolo. Tra le analisi più comuni rientrano la determinazione del contenuto dei nitrati, del pH, della temperatura e del cloro.

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Quest’ultimo, in particolare, viene determinato per verificare il grado di contaminazione per effetto dell’infiltrazione del mare.

Se si esegue un carotaggio della salinità lungo la colonna idrica di un pozzo di monitoraggio, si può riconoscere la parte dell’acquifero permeata da acqua dolce, quella interessata dalla presenza della zona di transizione e, infine quella parte di acquifero permeato dall’acqua salata di origine marina. Tipicamente, la distribuzione dei valori di salinità varia in profondità seguendo un andamento simile a quello mostrato in figura:

Si definisce:

- tetto: il contatto tra l’acqua dolce e l’acqua salmastra - letto: il contatto tra l’acqua salmastra e l’acqua salata

Si definisce valore di salinità relativa SR il rapporto:

SR = 100 * (C- Cf) / (Cs- Cf)

dove C è il valore della salinità ad un determinata profondità all’interno della zona di transizione, e Cf e Cs sono i valori di salinità delle acque dolci e di quelle salate rispettivamente.

Stratificazione salina in un pozzo spia

0

50

100

150

200

250

0 salinità (g/l) 10 20 30

profondità del livello

tetto

letto ACQUA DOLCE

ACQUA SALATA

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Rappresentando i valori di SR - z su una carta probabilistica si ottiene una retta. Tale grafico è di grande utilità. Infatti, i dati di salinità nella zona di transizione non sono facili da ottenersi nella pratica. Con la rappresentazione grafica si ovvia questo problema stimando la zona di transizione con l’ausilio di soli due punti di misura di salinità. Il valore del 50% di SR rappresenta, in termini probabilistici, la linea di mezzo della zona di transizione.

Quando l’acquifero è caratterizzato da una distribuzione eterogenea dei parametri di porosità (e quindi permeabilità), si ha una distribuzione irregolare delle acque dolci e salate e il grafico non è più valido.

FIG 3. Rappresentazione su una carta di probabilità dell’andamento della salinità con la profondità.

2.2 METODI INDIRETTI

2.2.1 GENERALITÀ SULLE MISURE GEOFISICHE

Un acquifero costiero può essere caratterizzato da una grande variabilità in termini di parametri idrogeologici o in termini di geologia e stratigrafia del sottosuolo. In generale i pozzi di monitoraggio, da soli, non sono sufficienti per descrivere adeguatamente il sistema perché sono limitati in numero. Per controllare il flusso nel sottosuolo serve invece una fitta rete di punti di osservazione in relazione alla eterogeneità del sito2. In un ambiente salino, inoltre, gli stessi pozzi possono rapidamente deteriorare a causa della corrosione.3 Questo vuol dire che un programma di monitoraggio deve in teoria prevedere la costruzione nel tempo di sempre nuovi pozzi. Questo non è possibile per motivi sia economici che pratici. E’

2 In presenza di stratificazioni e lenti di argille, l’acquifero può risultare essere suddiviso in una serie di sub- acquiferi. In ogni sub-acquifero l’intrusione marina può avvenire in maniera diversa e un adeguato network richiede un grande quantitativo di pozzi per poter studiare separatamente ogni unità.

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necessario pertanto utilizzare dei metodi non convenzionali, ovvero indiretti, che abbiano come scopo quello di aggiungere dati senza dover scavare nuovamente il terreno e richiedere ingenti somme di denaro.

Metodi geofisici basati sulla resistività, o elettromagnetici, sono ideali per mappare l’interfaccia tra acqua dolce e salata.

Le misure geofisiche permettono:

• un mezzo rapido per ottenere informazioni stratigrafiche e per mappare il sottosuolo;

• un mezzo efficace per integrare i dati sull’estensione spaziale della superficie dell’interfaccia acqua dolce-salata;

• un mezzo per scegliere le posizioni rappresentative per effettuare dei sondaggi, posizionare i pozzi, effettuare dei test di pompaggio.

Il risparmio economico sta nel fatto che:

• un piccolo gruppo di personale può spesso ottenere sia informazioni sulla stratigrafia geologica che la mappazione dell’interfaccia;

• l’equipaggiamento può essere facilmente spostato;

• non è richiesta l’escavazione;

• può essere notevolmente ridotto il numero dei pozzi poiché è possibile determinare il numero minimo necessario, l’ubicazione ottimale e la configurazione spaziale più efficace.

I sondaggi geofisici permettono di ottenere dati riguardanti:

• la porosità delle formazioni nel sottosuolo;

• la permeabilità;

• l’elasticità;

• il contenuto di umidità;

• la resistività o la conducibilità;

• le caratteristiche fisico-chimiche dell’acqua sotterranea.

Ogni parametro fisico da vita a uno o più metodi. Tra questi elenchiamo:

1. metodi della resistività elettrica;

2. metodi a rifrazione sismica;

3. metodi a riflessione sismica;

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4. metodi gravitazionali;

5. metodi elettromagnetici.

Mentre alcuni metodi utilizzano campi di forze naturali, come quello gravimetrico e quello magnetico, altri prevedono l’immissione di una qualche forma di energia nel terreno da studiare: propagazione di correnti elettriche, flussi termali, onde acustiche ecc.. La scelta del metodo dipende, ovviamente, dallo scopo della prospezione e dai contrasti tra le proprietà geofisiche che caratterizzano il sottosuolo e che possono evidenziare il presunto obiettivo. In particolare è bene accennare ai metodi gravitazionali e a quelli di resistività.

I metodi gravitazionali sono molto utili quando si vuole stimare se ci sono cambiamenti nella capacità di immagazzinamento di un acquifero non confinato. Si tratta di misurare variazioni di gravità indotte dalle variazioni di massa d’acqua presente. Queste possono essere, ad esempio, dovute agli effetti indotti sull’acquifero dall’oscillazione del livello del mare. Da un punto di vista gravimetrico, la fluttuazione della tavola di acqua dolce è uguale a una variazione della densità dello strato compreso tra il livello massimo e minimo raggiunti dall’acqua nell’acquifero. Se questo strato è poco profondo e poco spesso in confronto all’estensione orizzontale, l’effetto gravimetrico non dipende dalla profondità e si può scrivere:

gz = 2π G ρ h

dove G è la costante gravitazionale, ρ e h sono rispettivamente la densità e lo spessore dello strato. La variazione di densità causata dalla fluttuazione è uguale alla porosità effettiva moltiplicata per la densità dell’acqua. Ad esempio, se assumiamo per h un valore di 30 cm e per ne un valore pari al 20%, dalla formula precedente si ricava che l’entità della variazione gz

è di circa 3 µgal.

Per misurare l’entità della variazione, vengono fatte due misurazioni in due stazioni differenti: una dove le variazioni di massa possono essere ritenute trascurabili e una nell’acquifero in prossimità di canali o fiumi dove la massa d’acqua cambia in relazione alla ricarica. Le stazioni di riferimento devono essere ovviamente situate lontano dall’acquifero.

Nel caso dello studio del processo di intrusione salina, si fa invece riferimento al metodo della resistività che si basa sulla misura delle variazioni della stessa nelle rocce. La resistività misura l’attitudine di un materiale a lasciarsi attraversare da una corrente elettrica. L’unità di

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misura è l’ ohm·m (Ω·m), che può definirsi come la resistività di un prisma di roccia alto 1m e di sezione pari a 1 m2. I minerali costituenti le rocce sono, tranne rare eccezioni come la grafite, degli isolanti perfetti e pertanto presentano dei valori di resistività elevatissimi.

Tuttavia, la presenza nei vuoti di umidità o di acqua di impregnazione riduce in modo sensibile tali valori. Questo, a parità di tipo litologico, viene influenzato essenzialmente dalla porosità della roccia e dalla composizione chimica del fluido (la presenza di sali disciolti nell’acqua aumenta la ionizzazione e quindi la conducibilità). Ne deriva che, pur potendosi riconoscere una differenziazione relativamente netta fra i valori della resistività di vari gruppi di rocce, può verificarsi il caso in cui diverse rocce presentano valori molto prossimi.

I metodi geofisici che si basano sulla misura della resistività, poiché appunto influenzati dal contenuto d’acqua presente nei pori, sono spesso utilizzati per studi idrogeologici lasciando a metodi come quelli sismici a rifrazione e a riflessione il compito di identificare la stratigrafia sotterranea. L’esecuzione di più profili di resistività in direzioni parallele e normali fra di loro consente di disegnare le curve di resistività e ottenere, pertanto, delle carte di resistività del sito riconducibili a carte di conducibilità.

2.2.2 MISURE GEOELETTRICHE DI RESISTIVITÀ

Il metodo di resistività si basa essenzialmente sullo studio del campo elettrico generato nel terreno in seguito all’immissione di una corrente continua o alternata a bassa frequenza4. La distribuzione della corrente è regolata dalla legge di Ohm e se il suolo è elettricamente omogeneo, data una sorgente puntiforme A, la corrente I si distribuisce uniformemente su una sfera di superficie pari a 2πr2. La densità di corrente J sulla generica semisfera sarà data da: I/

2πr2. Poiché il campo elettrico E = -∂V/∂r è uguale al prodotto della densità di corrente per la resistività E = J·ρ, ne discende:

∂V/∂r = -Iρ / 2πr2

La differenza di potenziale tra due punti M e N a distanza r1 e r2 dal punto sorgente A sarà pari a:

VA = Iρ / 2π ( 1/ r1 - 1/ r2 )

4 Possono pensarsi trascurabili i fenomeni di induzione.

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Si consideri un altro punto B collegato ad A mediante un generatore di corrente continua: A è il polo positivo e B è il polo negativo. Se si indicano con r3 e r4 le distanze dal punto B di M e N, si può scrivere:

VB = Iρ / 2π ( 1/ r3 - 1/ r4 )

La differenza di potenziale complessiva che si misura tra i punti M e N, per effetto della corrente continua che fluisce tra A e B, è data dalla somma algebrica delle due espressioni precedenti.

V = Iρ / 2π ( 1/ r1 - 1/ r2 -1/ r3 + 1/ r4 )

Da tale espressione si ricava la resistività del terreno, supposto omogeneo, interessato dal passaggio di corrente.

ρ = V/I * K

essendo K il coefficiente geometrico: Κ =2π ( 1/ r1 - 1/ r2 -1/ r3 + 1/ r4)

Nella realtà il sottosuolo non è elettricamente omogeneo ed isotropo. Pertanto quando in esso si immette corrente, una qualsiasi causa di variazione di conducibilità ne altera il flusso provocando un’anomale distribuzione del potenziale rispetto a quella che si avrebbe in un mezzo omogeneo e isotropo. Quella che si misura nella realtà è una resistività apparente (ρa).

Fissato il centro di misura, man mano che si spostano gli elettrodi aumenta il volume di terreno interessato. E’ pertanto possibile ottenere valori di resistività apparente dipendenti dalle resistività dei litotipi presenti via via in profondità: tali valori sono diagrammati su una

FIG 4. Misure di resistività.

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curva a scala bi-logaritmica. L’interpretazione di tale curva consente di caratterizzare le formazioni nel sottosuolo.

Nello studio dell’intrusione marina si sfrutta la grande differenza di resistività tra la zona satura di acqua salata e quella satura di acqua dolce. Il metodo consiste nel fare misure di resistività ai quali associare un valore di salinità e, in qualche punto, nel controllare l’esattezza dei risultati mediante il prelevamento in pozzi spia di campioni a varie profondità.

Non sempre si ottengono gli stessi risultati. Anzi, errori anche oltre il 15% si riscontrano in zone con pochi dati idrogeologici, geologici e di resistività.

La resistività dell’acqua varia tra 0.2 e oltre 100 Ω·m a seconda della concentrazione ionica e del quantitativo di sali disciolti. La resistività dell’acqua naturale, in assenza di argille, varia tra 1-100 Ωm. La resistività corrispondente ai 240-250 mg/l di solidi disciolti è pressappoco pari a 30-40 Ωm. Tale valore viene solitamente preso come soglia tra l’acqua dolce e salata5.

acqua dolce 40 Ωm acqua salmastra 12 Ωm acqua salata 3 Ωm

La strumentazione utilizzata per la misura della resistività, chiamata quadripolo, consiste in un generatore con due elettrodi metallici introdotti nel terreno. Il potenziale nel terreno è misurato tra due altri elettrodi metallici anch’essi piantati nel terreno. Conoscendo la corrente che circola nel terreno e la differenza di potenziale tra i due elettrodi, si determina la resistività.

2

1 1 1 1 V

R I

AM BM AN BN

⎛ π ⎞

⎜ ⎟ ∆

= ⎜ ⎟

⎜ − − + ⎟

⎝ ⎠

Esistono varie configurazioni circa la disposizione degli elettrodi. Nel caso più semplice, i quattro elettrodi vengono disposti allineati e in modo simmetrico rispetto al centro di misura (FIG 5.).

Esistono delle difficoltà nella interpretazione dei risultati di un sondaggio geoelelettrico. La geoelettrica non può essere utilizzata da sola ma abbisogna di qualche misurazione diretta in pozzi di osservazione. Infatti, una formazione con bassi valori di resistività può essere

5 In verità il valore di confine è compreso tra i 10 e 50 Ωm a seconda dell’uso che si vuole fare dell’acqua.

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ricondotta sia ad una formazione sabbiosa satura di acqua salmastra, sia a una formazione argillosa.

FIG 5. Quadripolo per le misure di resistività.

2.2.3 CALIBRAZIONE CURVA DI CONDUCIBILITA’

Spesso, anziché riferirsi a valori di resistività, si utilizza la conducibilità (ovvero la grandezza inversa). La conducibilità è una misura della capacità dell’acqua di condurre corrente e, inversamente alla resistività, è proporzionale alla concentrazione di solidi disciolti. Nel caso dell’acqua salata, i solidi disciolti includono sali come cloruro di sodio, cloruro di magnesio, cloruro di potassio.

Attraverso misure di conducibilità si può individuare se vi sono delle zone, in prossimità della costa, dove sono presenti valori particolarmente elevati di concentrazioni di sali, ovvero se vi sono zone dove è probabile che ci sia in atto un processo di intrusione del mare. In particolare si fa riferimento alla concentrazione dello ione cloro [Cl-].

I profili di resistività o conducibilità possono essere trasformati attraverso calibrazione in valori di salinità. Esiste una relazione più o meno lineare che lega le concentrazioni del cloro alla conducibilità. Adattando i dati di concentrazione e di conducibilità misurati direttamente nel pozzo6, si ricava un coefficiente di correlazione R2. Maggiore è tale coefficiente è più affidabile è la relazione lineare ipotizzata. Secondo alcuni ricercatori, coefficienti minori di 0,47 non sono accettabili, mentre sono eccellenti risultati sopra 0,97.

Poiché la conducibilità è strettamente legata alla composizione chimica, non è corretto effettuare una calibrazione rispetto a soluzioni saline artificiali di un unico sale. Non è neanche corretto effettuare una calibrazione su una serie di soluzioni la cui composizione chimica è simile a quella delle acque esplorate. Campioni rappresentativi si ottengono invece mescolando quantità variabili di acqua dolce tipica del sito esaminato con l’acqua salata dell’area stessa.

6 Per la misura della conducibilità sono disponibili dei misuratori on-site con cavi che arrivano anche a 100m di B

M

DV

N

I

A

(19)

Una volta trovata la relazione, è possibile ottenere i dati di salinità misurando semplicemente quelli di conducibilità ottenuti con sondaggi geofisici anziché ricorrere a misure in laboratorio di campioni provenienti dai pochi pozzi di monitoraggio presenti nell’area.

2.2.4 CAROTAGGI TERMICI

Spesso lungo le colonne idriche dei pozzi di monitoraggio è possibile determinare, anche contemporaneamente, valori di salinità e di temperatura. I profili di temperatura possono essere di grande utilità. Infatti, l’interpretazione dei dati dei carotaggi termici consente di comprendere quali sono le caratteristiche dell’acquifero per meglio comprendere la struttura

FIG 10.

Conversione di dati geofisici in dati di concetrazione di cloro.

FIG 7. Regressione lineare tra la concentrazione di cloro e la conducibilità.

(20)

del flusso sotterraneo, identificare la posizione delle diverse falde e localizzare la zona di contatto fra acque di diversa provenienza.

Gli studi che impiegano i carotaggi termici per la caratterizzazione del flusso delle acque sotterranee partono dal presupposto che il prolungato contatto fra le acque sotterranee e le rocce attraversate favorisca l'instaurarsi di un equilibrio termico fra i due corpi. L'acqua tende ad assumere la temperatura della roccia attraversata. Come è noto, il gradiente geotermico naturale è pari a circa l°C/33 m. Ciò vuoi dire che, partendo dal valore medio della temperatura atmosferica in superficie, ogni 33 metri di profondità la temperatura del sottosuolo cresce di 1°C. Ne dovrebbe pertanto conseguire che le acque situate a una maggiore profondità al di sotto della superficie terrestre sono caratterizzate da una temperatura più alta. In effetti, l'esame di numerosi carotaggi effettuati anche in uno stesso sito indicano che anche a parità di profondità rispetto al suolo le acque sotterranee possono presentare valori di temperatura anche sensibilmente differenti. Questo è legato a una diversa velocità di attraversamento della massa rocciosa da parte delle acque, ovvero è legato al tempo di contatto fra i due corpi. Se questo tempo è breve, l'acqua sotterranea tenderà a conservare la propria temperatura originaria che è quella atmosferica al momento dell'infiltrazione. La velocità di attraversamento dell'ammasso è funzione principalmente della permeabilità del mezzo. Ne discende pertanto che le variazioni del gradiente termico che si possono misurare nelle acque sotterranee in veri punti alla stessa quota altimetrica possono essere indice di una variazione della permeabilità del mezzo.

Variazioni di temperatura possono però essere dovuti anche alla presenza di acque di diversa provenienza all’interno dello stesso acquifero. Esiste ad esempio una differenza tra la temperatura caratteristica delle acque dolci di prima alimentazione (circa 4-14°C), relazionata ai fattori climatici che intervengono sulla temperatura delle precipitazioni, e quella delle acque salmastre sotterranee intruse nell’acquifero. Inoltre, la ricostruzione spaziale della temperatura dell’acqua sotterranea può essere utile nella distinzione tra ingressione marina laterale o per richiamo di acque salmastra sotterranee di vecchia intrusione.

Infine, i profili di temperatura sono necessari, in fase di elaborazione di dati geofisici, per convertire in maniera più accurata la conducibilità del fluido misurata nel pozzo in una conducibilità specifica. Esistono in letteratura delle formule che permettono di effettuare le correlazioni tra i profili di temperatura, i profili di conducibilità e la lunghezza del cavo utilizzato nel pozzo.

(21)

3. Modellazione

3.1.1 MODELLI 1D, 2D, 3D

Un modello completo per descrivere il processo di intrusone dovrebbe essere 3D-transitorio e dovrebbe tener conto delle variazioni di densità e della dispersione. Un siffatto modello, se esiste, non solo è complicato, ma abbisogna di molti dati input che nella maggior parte dei casi non sono disponibili o, comunque, richiederebbero troppo tempo per essere raccolti. E’

d’obbligo, pertanto, riferirsi a modelli più semplici che studiano il fenomeno dopo aver eliminato parte della complessità per mezzo di assunzioni.

Tramite le assunzioni è possibile:

Secondo il Centro Nazionale di Modellazione dell’Acqua del Sottosuolo:

“Un modello è la descrizione semplificata, con un linguaggio matematico, di un sistema di acqua sotterranea esistente accompagnato da un codice che simula le condizioni al contorno, i parametri del sistema e le condizioni di stress dello stesso.”

L’acqua salata è non reattiva e pertanto, come soluto, non è complicata da modellare a differenza di molte altre sostanze che danno invece luogo a trasformazioni chimiche e biologiche nei suoli e negli acquiferi. La presenza di sale, però, altera la densità dell’acqua in maniera tale da indurre a importanti effetti sui campi di pressione e di flusso e, quindi, sulla dinamica della circolazione nel sistema. Quello dell’intrusione marina è quindi un fenomeno densità dipendente, sia per il flusso che per il trasporto, e i modelli che intendono descriverlo devono incorporare la relazione costitutiva tra concentrazione di soluto e densità.

Nello studio del fenomeno dell’intrusione marina, lo scopo della modellazione è principalmente quello di determinare la forma e l’estensione dell’interfaccia e il dominio di flusso del sistema acquifero.

3.1 CLASSIFICAZIONE DEI MODELLI

(22)

1. ridurre la dimensione del sistema: 3D → 2D → 1D;

2. semplificare le condizioni al contorno in termini di geometria e di eterogeneità del sistema;

3. semplificare le equazioni fisiche che governano il sistema.

Le semplificazioni riguardano solitamente la forma dell’interfaccia, la miscibilità delle due fasi e le condizioni di regime. Non è superfluo sottolineare che anche i modelli semplificati possono essere molto complessi da risolvere e abbisognano necessariamente dell’ausilio di codici (programmi) di calcolo.

1D

MODELLO 2D

3D

MODELLO ANALITICO

ELEMENTI FINITI

NUMERICO DIFFERENZE FINITE

VOLUMI DI CONTROLLO

MODELLO DETERMINISTICO

STOCASTICO

FIG 1. Schema di classificazione dei modelli. MODELLI 1D

Si tratta di modelli che hanno alla loro base un numero elevato di assunzioni e che pertanto raramente trovano applicazione nella realtà, a meno di non trovarsi in condizioni particolari.

La zona di mescolamento tra l’acqua salata e dolce è assunta nulla (ipotesi di immiscibilità:

interfaccia netta) e le condizioni di regime sono stazionarie. Le soluzioni sono analitiche e in forma chiusa.

I modelli 1D non richiedono un grosso quantitativo di dati in quanto solitamente non considerano la variabilità spaziale dei parametri (eterogeneità e anisotropia). Ciò fa si che la

(23)

risoluzione del sistema di equazioni non necessiti di programmi di calcolo ma possa essere svolta anche manualmente.

Ciò nonostante, tali modelli sono di valido aiuto per un primo approccio allo studio del problema e consentono di ben visualizzare i meccanismi base dei processi che intervengono.

Il modello 1D più conosciuto è quello di Ghyben – Herzberg ( Parte I, cap.3).

MODELLI 2D

I modelli 2D richiedono un minor quantitativo di assunzioni di partenza e rappresentano meglio la realtà rispetto ai modelli semplificati 1D. Richiedono un maggior quantitativo di dati poiché considerano anche la variabilità temporale e spaziale dei parametri, ma sono limitati alla simulazione su delle sezioni.

La collocazione delle sezioni deve essere attentamente valutata. I modelli 2D non possono essere utilizzati lì dove si hanno condizioni di flusso radiale, in presenza di geometrie geologiche e idrogeologiche complesse e in presenza di pozzi singoli di estrazione o di infiltrazione. La zona di mescolamento può o meno essere considerata e le condizioni di regime possono essere stazionarie o transitorie.

Le soluzioni sono numeriche e richiedono l’utilizzo di un calcolatore nonché di conoscenze base sui metodi di risoluzione con gli elementi o le differenze finite.

MODELLI 3D

I modelli 3D permettono una formulazione più rigorosa del problema dell’intrusione e sono particolarmente efficaci nell’accomodare:

- le irregolarità nelle geometrie costiere;

- le eterogeneità delle formazioni dell’acquifero;

- le variazioni temporanee delle condizioni al contorno;

- le variazioni spaziali di salinità.

I modelli 3D forniscono maggiore dettaglio e risultati molto più accurati. Abbisognano, però, di alte capacità computazionali e di un’attenzione particolare nei dettagli minuti che possono condizionare l’accuratezza dei risultati. Possono incorrere a problemi associati a oscillazioni e

(24)

e dispersioni numeriche e possono richiedere elevati tempi di elaborazione. Sono adatti, comunque, allo studio approfondito di un qualsiasi acquifero costiero.

E’ chiaro che un sistema naturale non potrà mai essere misurato con dettaglio sufficiente.

Tutti i risultati dei modelli, anche i più sofisticati, non arriveranno mai a rappresentare perfettamente la realtà. In particolare, tanto più i modelli necessitano di dati e tanto più i risultati ai quali arrivano dipenderanno dalla quantità che è stato possibile raccogliere. Questa affermazione può apparire scontata, ma in realtà non lo è. Un modello 3D, infatti, non può essere adoperato se si hanno pochi dati o se questi non sono accurati. Se esso viene comunque adoperato, fornirà dei risultati probabilmente più lontani dalla realtà rispetto a quelli che avrebbe fornito un modello 2D con un quantitativo sufficiente di dati. E’ proprio per questo, ovvero per la difficoltà di reperire i dati, che molto spesso si preferisce ricorre ai modelli 2D anziché ai più complessi 3D.

3.1.2 TIPOLOGIE DI MODELLI

I modelli possono essere di tre tipi: descrittivi, direzionali e predittivi. I modelli descrittivi hanno come scopo quello di aiutare alla comprensione delle dinamiche di un fenomeno o alla caratterizzazione di un sito. I modelli direzionali aiutano invece a prendere decisioni operative circa la risoluzione di determinati problemi. I modelli predittivi, infine, calcolano i valori delle variabili in seguito a ipotesi di scenari futuri. Quest’ultimi vengono anche chiamati modelli dinamici.

I modelli dinamici si distinguono in: modelli di scala, modelli analoghi e modelli matematici.

Modelli di scala sono costruiti con gli stessi materiali di cui è fatto il sistema naturale. Ad esempio, un contenitore di plastica riempito con sabbia o sfere di vetro e acqua può essere usato come modello di un acquifero. L’aggiunta di un tracciante può servire per poter visualizzare il flusso.

Il flusso dell’acqua che attraversa un mezzo poroso è governato da equazioni simili a quelli che governano il flusso di elettricità attraverso un conduttore. Un modello dell’acquifero può essere pertanto costruito usando circuiti elettrici: in tal caso si parla di modelli analoghi in quanto si utilizza l’analogia per la descrizione del sistema reale. Nel caso di modelli analoghi elettrici, il flusso è rappresentato dalla corrente elettrica, il potenziale idraulico corrisponde alla differenza di potenziale e la conducibilità idraulica può essere pensata in termini di

(25)

resistenza elettrica. Attraverso la concatenazione di più circuiti orizzontali è possibile ricostruire l’acquifero tridimensionalmente. Va però osservato che il metodo non si addice ai casi in cui l’acquifero è non confinato perché in tal caso la trasmissività decresce con l’estrazione e con l’abbassamento del livello piezometrico. Il modello elettrico non è capace di simulare ciò, né può descrivere le modalità di trasporto di soluti, la dispersione e la diffusione.

I modelli analoghi o di scala hanno molti svantaggi. Non solo i costi di costruzione e di montaggio possono essere ingenti, ma le possibilità di modellazione si riducono a pochi casi semplici. I modelli matematici, invece, possono adattarsi a quasi tutti i casi. Essi si basano sulla risoluzione di equazioni di base che governano il flusso e il trasporto di soluti. Il più semplice modello matematico è rappresentato dalla legge di Darcy: questo è un esempio di modello analitico. Per risolvere un modello analitico bisogna conoscere le condizioni iniziali e al contorno e tali condizioni devono essere semplici a sufficienza per essere risolte direttamente. Modelli numerici vengono invece adoperati li dove ci si trova di fronte a condizioni iniziali e al contorno complesse o dove il sistema non si presenta omogeneo e isotropo nelle sue proprietà. In tal caso, il problema è affrontato con l’ausilio di calcolatori che trasformano il sistema di equazioni in forme matriciali.

Infine, i modelli si distinguono in stocastici o deterministici a seconda se si assume o meno un’impostazione probabilistica circa la distribuzione dei valori assunti dai parametri.

Quest’ultimo tema verrà trattato nei successivi capitoli.

3.2 MODELLI PER LO STUDIO DELL’INTRUSIONE MARINA

3.2.1 MODELLI A INTERFACCIA NETTA O CON ZONA DI TRANSIZIONE

Nelle ultime decadi numerosi modelli sono stati elaborati per simulare il flusso densità- dipendente e il trasporto del soluto in un mezzo poroso nell’ambito dello studio del problema di intrusione marina lungo le coste. Le difficoltà maggiori della modellazione insorgono essenzialmente quando si tratta di introdurre nel modello la zona dell’interfaccia tra acqua salata e acqua dolce.

Come è stato detto nella parte iniziale di questo trattato, un’acqua sotterranea contiene dei costituenti disciolti dei quali molti compaiono pure nelle acque salate. A basse concentrazioni tali costituenti non influenzano il flusso, che risulta controllato solo dal gradiente idraulico e

(26)

dalla conducibilità idraulica. Man mano però che la concentrazione del soluto aumenta, la massa dei solidi disciolti modifica sostanzialmente la densità. Se le variazioni spaziali della densità sono minime, i metodi matematici per quantificare i campi di velocità e i reticoli di flusso sono abbastanza semplici e lineari. Quando tali variazioni spaziali incominciano a diventare non più trascurabili, come accade negli acquiferi costieri in presenza di intrusione, si ha a che fare con un flusso densità variabile che è molto più complesso da modellare.

Bisogna considerare inoltre che la densità dell’acqua non è influenzata solo dalla quantità di TDS (Solidi Totali Disciolti) ma anche dalla temperatura: un gradiente termico dà luogo a gradienti di concentrazione. Nel seguente trattato verranno assunti come trascurabili i gradienti di temperatura.

Una prima scelta operativa nella modellazione consiste nel decidere se utilizzare un modello che assuma l’esistenza di un interfaccia netta o di una zona di diffusione tra le due fasi acqua dolce-salata.

Simulazioni dell’intrusione marina in acquiferi costieri basati sull’interfaccia netta si preferiscono quando la zona di transizione è stretta in spessore rispetto alla dimensione dell’acquifero o quando si ha a che fare con l’analisi di scale grandi abbastanza da permettere di ignorare le locali variazioni di salinità. L’ approccio assume che gli effetti della dispersione idrodinamica siano trascurabili e che le due fasi acqua dolce–salata siano immiscibili. Ne consegue che il problema può essere formulato in termini di due distinti domini di flusso, che non interagiscono tra loro (non è possibile che il fluido possa passare dalla regione d’acqua dolce a quello d’acqua salata). Se l’acqua salata è statica, la formulazione del problema richiede di analizzare solo il flusso di un sistema e l’interfaccia si sposta in relazione al movimento della testa dell’acqua dolce. Il modello più semplice è quello di G.H. che assume condizioni stazionarie, acqua salata immobile e una distribuzione idrostatica della pressione.

Se invece anche l’acqua salata è in movimento, bisogna risolvere una coppia di equazioni parziali differenziali per i due flussi.

I modelli a interfaccia netta non possono essere sempre applicati in quanto possono condurre a risulti errati. Non possono essere utilizzati, ad es., quando bisogna stimare i rischi connessi all’estrazione di acqua salmastra con bassa salinità.

Un metodo più rigoroso è quello che ammette l’esistenza di una zona di transizione e che quindi considera un solo fluido miscibile con delle proprietà fisiche eterogenee (densità e viscosità) che sono controllate dalle variazioni della concentrazione di solidi disciolti e della

(27)

temperatura del fluido. A loro volta, la concentrazione e la temperatura dipendono dai processi di trasporto (dispersione, diffusione, convezione). Per molti acquiferi lo spessore è abbastanza piccolo da poter trascurare le variazioni di temperatura e il trasporto di calore. La simulazione si riduce allora nella risoluzione simultanea per interazione di due equazioni parziali differenziali non lineari che esprimono la conservazione della massa del fluido e la conservazione della massa del soluto: un equazione del flusso e un equazione del trasporto del soluto.

1° METODO

• Vede il fluido come uno a densità variabile a seconda della concentrazione di sale.

• Le equazioni che governano il processo sono:

- Legge di Darcy;

- Equazione di trasporto del sale visto come soluto.

• Tale procedimento è complicato dal punto di vista numerico e in particolare nella modellazione della zona di transizione dove i gradienti di densità sono elevati.

• Il sistema di equazioni è irriducibile e bisogna procedere alla soluzione per interazione. La non linearità è dovuta principalmente alla dipendenza della densità dalla concentrazione.

2° METODO

• Adotta l’approssimazione dell’interfaccia netta: esistenza di due fluidi immiscibili

• Le equazioni che governano il processo sono:

- Legge di Darcy;

- Conservazione di massa dei due fluidi;

- Continuità della pressione attraverso l’interfaccia.

• Tale procedimento è meno complicato dal punto di vista numerico ma abbisogna comunque dell’utilizzo di codici di calcolo.

I modelli per lo studio del fenomeno di intrusione si distinguono inoltre a seconda che considerino o meno:

1. La zona insatura

La considerano quei modelli in cui:

(28)

a) si analizzano le fonti di acqua salata provenienti dal suolo: ad es. l’acqua di irrigazione contaminata;

b) si studia il processo di salinizzazione dei suoli;

c) si vuole illustrate meglio l’ influenza dei suoli sulla ricarica e sull’entità dell’infiltrazione.

Spesso la ricarica è considerata istantanea per non dover tener conto della zona insatura.

2. La componente verticale del flusso

Va tenuta in considerazione lì dove si vuole valutare:

a) la rilevanza del pompaggio nel causare il fenomeno di intrusione: fenomeno dell’up- coning;

b) l’influenza dei meccanismi di ricarica.

3. L’eterogeneità del sistema reale

La maggior parte dei modelli si applica su formazioni omogenee o comunque costituite da poche unità litologiche con ben definite proprietà. In realtà le formazioni mostrano una grande variabilità spaziale circa le loro proprietà. Nel seguente trattato (PARTE IV) si farà riferimento a un modello che tiene conto della distribuzione non uniforme di alcuni dei parametri che descrivono l’acquifero.

3.2.2 EQUAZIONE DEL FLUSSO IN UN ACQUIFERO OMOGENEO E ISOTROPO

L’acqua sotterranea possiede energia in forma meccanica, termica e chimica. Poiché le quantità di energia variano continuamente nello spazio, l’acqua sotterranea è costretta a muoversi da una regione all’altra per eliminare le differenze che si vengono a creare. Il flusso dell’acqua nel sottosuolo è, pertanto, controllata dalle leggi della meccanica e della termodinamica. Nel seguente trattato, però, si assumerà che l’acqua sia costante in temperatura. In effetti, è pure vero che l’acqua si riscalda muovendosi nel sottosuolo per effetto della perdita di energia meccanica per attrito con la sua trasformazione in energia termica. Ma tale quantitativo è spesso così piccolo da non dar luogo a un apprezzabile incremento di temperatura. L’energia termica va invece essere considerata in presenza di flussi geotermali e fonti radioattive di calore.

(29)

Sono tre le forze esterne che agiscono sull’acqua del sottosuolo. La più ovvia delle tre è la gravità che spinge l’acqua verso il basso. La seconda è la pressione esterna, somma della pressione atmosferica e del peso dell’acqua soprastante il punto considerato. La terza forza è quella molecolare che fa si che l’acqua aderisca alle particelle solide nell’acquifero ed è la causa dei fenomeni di capillarità. Quando l’acqua fluisce attraverso un mezzo poroso, esistono forze che si oppongono al movimento. Queste sono forze di attrito, che agiscono tangenzialmente alla superficie della matrice solida, e forze normali, che agiscono perpendicolarmente alle superfici. Le forze molecolari interne nel fluido resistono invece al movimento sotto forma di viscosità.

Il flusso dell’acqua in un mezzo poroso, in quanto governato dalle leggi della fisica, può essere descritto mediante equazioni differenziali. Poiché è una funzione di numerose variabili, il flusso è descritto attraverso equazioni con derivate parziali calcolate rispetto alle coordinate spaziali e al tempo. Per ricavare l’equazione del flusso, bisogna applicare le leggi di conservazione della massa e dell’energia:

• La legge di conservazione della massa, o principio di continuità, afferma che, dato un volume di controllo, qualsiasi cambiamento nella massa del fluido al suo interno deve essere controbilanciato da un corrispondente cambiamento di massa fuori il volume e/o una variazione di massa immagazzinato nel volume stesso. 1

• La legge di conservazione dell’energia, o primo principio della termodinamica, afferma che in un sistema chiuso, il quantitativo di energia è costante ma può cambiare di forma (secondo principio della termodinamica).

ACQUIFERO CONFINATO

Si consideri in un acquifero confinato omogeneo e isotropo un volume di controllo di dimensioni dx, dy, dz. L’equazione del flusso, in termini di derivate parziali, si ottiene sommando i flussi in entrata ed in uscita e inserendo al relazione di Darcy.

Il fluido si muove solo in una direzione attraverso il volume di controllo. Tale direzione può essere suddivisa nelle tre componenti x,y,z del sistema di riferimento. Se q è il flusso per

1 Il principio richiede la conservazione delle quantità di acqua in etrata e in uscita da un cella infinitesima.

(30)

unità di superficie, ρwqx è la porzione parallela all’asse x, ρwqy è la porzione parallela all’asse y e ρwqz è la porzione parallela all’asse z (ρw è la densità del fluido).

La massa di fluido in ingresso al volume di controllo lungo l’asse x è:

ρwqx dydz

mentre il flusso di massa in uscita è pari a :

ρwqx dydz +∂/∂x ( ρwqx ) dydzdx

L’accumulo nel volume di controllo è pertanto pari a:

-∂/∂x ( ρwqx ) dydzdx.

Poiché ci sono componenti di flusso anche nelle altre due direzioni si ottiene:

accumulo netto= w xq w yq w zq dxdydz

xρ yρ zρ

⎛ ∂ ∂ ∂ ⎞

−⎜⎝∂ +∂ +∂ ⎟⎠ (1)

.

Il volume di acqua nel volume di controllo è pari a:

n dxdydz

dove n è la porosità. La massa iniziale dell’acqua è pertanto:

nρw dxdydz

Il volume della matrice solida è:

(1-n) dxdydz

La variazione della massa nel tempo è data da:

FIG 2. Volume di controllo.

(31)

∂M/∂t = ∂/∂t( nρw dxdydz) (2)

Una variazione di pressione nel volume di controllo dà luogo a una variazione di densità e quindi di porosità dell’acquifero. Si chiami con E la compressibilità dell’acqua. E è definita

come la velocità di cambiamento della densità in seguito a una variazione della pressione:

E dP = dρw / ρw (3)

L’acquifero subisce anche una variazione di volume in seguito alla variazione della pressione.

Assumeremo che tale variazione sia solo verticale. Sia α la compressibilità della matrice solida dell’acquifero. α è data da:

α dP = d (dz) / dz (4)

Mentre l’acquifero si comprime o si espande, n cambia ma il volume solido Vs resta costante.

Pertanto, l’unica deformazione è nella direzione z, e d (dx) e d (dy) sono uguali a 0.

d Vs = 0 = d[(1 – n ) dx dy dz]

da cui si ottiene differenziando:

dz dn = (1 – n) d (dz) (1 n d dz) ( )

dn dz

= − (5)

La pressione P, in un punto dell’acquifero, è pari a :

P = Po + ρwg h

dove Po è la pressione atmosferica ed è costante, mentre h è l’altezza della colonna di acqua sopra il punto. Sostituendo l’espressione dP = ρw dh nella (3) e nella (4) si ottiene:

E ρwg dh = dρw / ρw (3’) αρwg dh = d (dz) / dz (4’) ovvero: dρw =E ρw (ρwg dh ) (3’’)

(32)

d (dz) = α dz ( ρw g dh ) (4’’)

Riscrivendo la relazione (5) insieme alla (4’’):

dn = (1 – n) α ρw g dh (6)

Se dx e dy sono costanti, l’equazione della variazione della massa rispetto al tempo nel volume di controllo, Equazione (2), può essere espressa come:

( ) w

w w

M dz n

n dz ndz dxdy

t t t t

ρ ρ ρ

∂∂ =⎡⎢⎣ ∂∂ + ∂∂ + ∂ ⎤⎥⎦ (7)

Sostituendo le Equazioni (3’), (4’) e (6) nella (7) , si ottiene, con una facile rielaborazione:

(

w w

)

w

M h

g n g dxdydz

t αρ βρ ρ t

∂ ∂

= +

∂ ∂ (8)

L’accumulo netto di materiale espresso dall’Equazione (1) deve essere uguale all’Equazione (8), che è la variazione di massa nel tempo.

( )

x y z

w w w w

q q q h

dxdydz g n g dxdydz

x y z ρ αρ βρ ρ t

⎡∂ ∂ ⎤ ∂

−⎢⎣ ∂ + ∂ + ∂ ⎥⎦ = + ∂ (9)

Dalla legge di Darcy:

qx= - K ∂h /∂x

qy= - K ∂h /∂y

qz= - K ∂h /∂z

Sostituendo queste nella (9) si arriva alla equazione principale in 3D del flusso in un acquifero confinato per un mezzo poroso e omogeneo:

(33)

( )

2 2 2 2 2 2

2 2 2 w w

h h h h

K g n g

x y z αρ βρ t

⎛∂ +∂ +∂ ⎞= + ∂

⎜ ∂ ∂ ∂ ⎟ ∂

⎝ ⎠ (10)

Si noti che l’equazione del flusso è di tipo parabolico. Essa risulta univocamente determinata una volta note le condizioni iniziali e/o al contorno.

Nel caso di un flusso 2D (senza componenti verticali), l’equazione può essere scritta in termini di coefficiente di immagazzinamento S e della trasmissività T ricordando che:

S = γD (nβ + α) e T= K D

dove D è lo spessore dell’acquifero.Si ottiene:

2 2 2 2

2 2

h h S h

x y T t

∂ ∂ ∂

+ =

∂ ∂ ∂ (11)

In condizioni stazionarie, se non c’è variazione della testa nel tempo, la (10) diventa la nota Equazione di Laplace:

2 2 2 2 2 2

2 2 2 0

h h h

x y z

∂ ∂ ∂

+ + =

∂ ∂ ∂ (12)

Le precedenti equazioni sono basate sull’assunzione che tutto il flusso provenga dall’acqua immagazzinata dentro l’acquifero. Una quota significante di flusso può essere generata dall’infiltrazione di acqua proveniente dagli strati confinanti. Si consideri tale infiltrazione come una componente di flusso orizzontale e la si indichi con la e. L’equazione generale del flusso in 2D sarà data dalla:

2 2 2 2

2 2

h h e S h

x y T T t

∂ +∂ + = ∂

∂ ∂ ∂ (13)

dove e può essere calcolato con la legge di Darcy:

( 0 )

' '

h h

e K b

= − (14)

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