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L’INDICE DI RISCHIO IN CHIRURGIA DELLA SPALLA : RIPERCUSSIONI MEDICO-LEGALI

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L’INDICE DI RISCHIO IN CHIRURGIA DELLA SPALLA : RIPERCUSSIONI MEDICO-LEGALI

Prof. Mario Randelli*

Le implicazioni medico-legali conseguenti a trattamenti per patologie della spalla sono raramente prese in considerazione in letteratura, anche se vanno assumendo non secondaria rilevanza nella pratica clinica.

Non vi è dubbio che, nell’ambito della medicina in generale e delle specialità chirurgiche in particolare, si assiste da qualche anno ad un preoccupante incremento di vicende giudiziarie, che vedono coinvolti medici e strutture sanitarie.

Ciò avviene per molteplici ragioni:

- il paziente non accetta oggi facilmente un risultato parziale e, anche sulla spinta di reclamizzati risultati miracolistici, ritiene conseguibile in ogni caso una guarigione completa;

- il mancato raggiungimento di un favorevole risultato viene spesso attribuito a errore del medico o insufficienza della struttura, facendo riferimento a favorevoli risultati di casi consimili;

- lo sviluppo delle superspecialità ha portato a progressi tecnologici,non sempre alla portata del normale specialista , richiedendo una curva di apprendimento

* Istituto Clinico Humanitas - Rozzano (Mi)

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2 più o meno prolungata; ne consegue l’usuale impiego nella pratica corrente di tecniche tradizionali che, pur mantenendo piena validità, possono essere considerate superate;

- le possibili complicanze, a volte di rara evenienza, non sempre sono chiaramente indicate ed esplicitate nel consenso informato e quindi rappresentano per il paziente un accadimento inatteso, di cui viene responsabilizzato il medico;

- un cattivo rapporto interpersonale medico-paziente, condizionato spesso da affrettati sbrigativi colloqui (Adamson e Al.,2000);

- infine l’invito ad un’azione di risarcimento è spesso innestato da superficiali consulenze mediche o da interessati pareri legali.

Ne consegue che l’insuccesso terapeutico può non raramente concludersi con sequele di ordine medico-legale, per presunzione di colpa. La più recente legislazione, d’altra parte, impone al medico di dimostrare che nel caso specifico non vi fu imperizia, imprudenza o negligenza e che l’atto medico fu condotto secondo le regole dell’arte.

Orbene consideriamo che ogni atto chirurgico (diciamo meglio, ogni atto terapeutico) può sempre comportare un sia pur minimo rischio di insuccesso. E’ di tutta evidenza quindi l’importanza di mettere a fuoco, per le singole patologie, i fattori di rischio diagnostico-terapeutico, che consentano di chiaramente differenziare situazioni di normale routine da condizioni di notevole difficoltà. E

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3 questo dato potrà guidare il medico-legale (non specialista della materia), e conseguentemente il giudice, nella valutazione e nella graduazione di una eventuale colpa professionale.

In generale, numerosi sono gli ambiti in cui possono evidenziarsi fattori di rischio. A mio giudizio, i più importanti da prendere i considerazione sono:

A) Difficoltà diagnostica : un corretto trattamento presuppone una corretta diagnosi. Laddove la diagnosi rimanga incerta, non chiarita nè dalla semeiotica clinica nè dalle indagini strumentali, è evidente che può indurre ad un erroneo trattamento con conseguente maggior rischio di insuccesso.

B) Correttezza dell’indicazione: è direttamente correlata alla diagnosi formulata.

Nella normale trattatistica ogni ipotesi diagnostica si accompagna a precise opzioni di trattamento. Discostarsi dalle cosiddette linee guida è certamente consentito, ma richiede una valida giustificazione e comporta un aumento di rischio.

C) Gravità del quadro patologico: più gravi sono le alterazioni anatomo-fisio- patologiche da trattare, più impegnativo sarà il trattamento e spesso meno brillanti i risultati.

D) Frequenza con cui è praticato il trattamento : è nella comune esperienza che quanto più spesso si pratichi un determinato procedimento, tanto più agevole diverrà la sua esecuzione. Il chirurgo affinerà la sua capacità e apprenderà sul campo alcuni “trucchi”, che consentiranno di migliorare la prestazione e di

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4 meglio superare i passaggi scabrosi, riducendo quindi le probabilità di insuccesso.

E) Difficoltà della tecnica chirurgica: nonostante l’esperienza e l’abilità del chirurgo, l’insorgere di errori e complicanze è direttamente proporzionale alla complessità della procedura. In un intervento “facile” il rischio di insuccesso sarà in genere modesto, per presentarsi invece alto in occasione di un intervento tecnicamente complesso.

F) Trattamento riabilitativo: E’ una fase cruciale del recupero funzionale e va considerato parte integrante del trattamento. Va adeguato al tipo di patologia, alla chirurgia praticata, alle esigenze del paziente; deve inoltre tener conto dei tempi biologici di guarigione, evitando eccessivi stress sulle strutture riparate.

Una erronea condotta riabilitativa comporta seri rischi sulla bontà del risultato.

G) Complicanze (frequenza e importanza): questo dato riveste notevole valore per la valutazione del rischio di insuccesso di ogni trattamento. Naturalmente perchè assuma significato statistico è essenziale che venga rilevato da casistiche numericamente importanti, provenienti da centri diversi.

H) Valutazione dei risultati: sono state proposte in letteratura diverse scale di valori che consentono di ricavare un giudizio comparativo sulla bontà dei risultati conseguiti . Esse tuttavia non adottano criteri uniformi e non sono tra loro facilmente comparabili. Rimane quindi ancora valida la rozza distinzione in

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5 esiti buoni,mediocri e cattivi. Una previsione di cattivo risultato comporta ovviamente un rischio di insuccesso.

L’insieme dei fattori di rischio su indicati può consentire di evidenziare, per ogni singolo caso clinico, un indice numerico, che proporrei di indicare come “Indice di rischio di insuccesso (IRI)”. Infatti se per ciascuno degli elementi considerati assegneremo un valore da 1 a 3 (dall’evenienza di rischio più bassa alla più alta), otterremo una valutazione complessiva numerica variabile da 8 (un caso a minimo rischio) a 24 ( un caso a rischio molto marcato). Tale indice, oltre che di utilità pratica, potrebbe rivelarsi un valido indicatore nella spesso incerta valutazione di un

“intervento implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”.

Sappiamo bene come tale valutazione possa limitare la responsabilità del medico ( art. 2236 c.c.).

Stabilite queste premesse di carattere generale, veniamo ora ad analizzare quali sono i fattori di rischio che più frequentemente intervengono in alcuni capitoli fondamentali della patologia della spalla.

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Instabilità di spalla

Le sindromi di instabilità di spalla possono essere classificate secondo molteplici criteri (Gerber,1997). Ci limiteremo qui a considerare i tre tipi fondamentali di spalla instabile (identificati ormai nella letteratura ortopedica con un acronimo, Matsen 1994), differenti per eziologia e caratteristiche anatomo-patologiche:

- TUBS ( “Traumatic Unidirectional Bankart lesion Surgery”) che include le forme di lussazione anteriore conseguenti in genere a traumi più o meno violenti, con lesione di Bankart, ad indicazione chirurgica,.

- AMBRII (“ Atraumatic Multidirectionel Bilateral Rehabilitation Inferior capsular shift and Interval closure “) presente in soggetti con instabilità legata ad una iperlassità legamentosa bilaterale, che rispondono bene ad un trattamento fisioterapico e che, se trattati chirurgicamente, evidenziano spesso una capsula indifferenziata ed ampliata da cedimento intralegamentoso.

- AIOS (“Acquired Instability Overstressed Surgery”) tipica degli atleti con spalle sovraccaricate da stress sportivi che possono presentare lesioni del labbro superiore e/o del capo lungo del bicipite (SLAP lesion), tali da richiedere una modifica del gesto atletico e talora un trattamento chirurgico.

La conoscenza delle diverse forme di instabilità, la storia clinica , l’esame obbiettivo e lo studio radiologico sono in genere sufficienti ad orientare il chirurgo sul tipo di instabilità di spalla in esame. Non vi è dubbio tuttavia che la fase diagnostica possa

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7 rappresentare un passaggio a rischio. E’ infatti sulla base di questa diagnosi che dovrà essere impostato il piano terapeutico, che potrà essere ad orientamento conservativo o chirurgico.

Ci limiteremo qui a considerare il trattamento chirurgico della instabilità anteriore, che rappresenta l’evenienza di maggior frequenza. Ci si potrà avvalere di tecniche a cielo aperto o tecniche artroscopiche

Molto numerose sono le tecniche a cielo aperto,la maggior parte soltanto di importanza storica. Alla prova del tempo e dell’esperienza, riteniamo che siano sopravissuti due gruppi di tecniche fondamentali: la riparazione capsulo- legamentosa, derivata dalla tecnica di Bankart ed evoluta in diverse varianti di capsuloplastica, e la tecnica di Latarjet-Bristow con le sue varianti.

La riparazione capsulo-legamentosa sembra preferibile in quei casi nei quali le strutture osteo-articolari non sono danneggiate e nei pazienti che presentano una iperlassità legamentosa o una instabilità multidirezionale.

L’intervento di Latarjet trova la sua indicazione principale nei pazienti con lussazione anteriore traumatica, senza iperlassità capsulo-legamentosa costituzionale, con eventuale distacco del bordo osseo glenoideo anteriore (cosiddetta Bankart ossea) o in presenza di una capsula cicatriziale conseguente a numerosi episodi di lussazione.

Le tecniche artroscopiche, entrate nella pratica clinica poco più di venti anni fa (L.Johnson,1982), dopo un primo periodo di risultati scadenti con percentuali di recidive del 30-50%, hanno raggiunto oggi un notevole livello di sicurezza,

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8 consentendo di ottenere, in mani qualificate, percentuali di successo sovrapponibili alle tecniche aperte (Gartsman,2000). Ciò va messo in relazione al progresso tecnologico, alla più raffinata manualità chirurgica, ma soprattutto ad una più attenta selezione dell’indicazione. Possono benificiare infatti del trattamento artroscopico soprattutto i distacchi del cercine glenoideo e i cedimenti capsulari di origine traumatica, mentre più incertezza rimane sul trattamento delle spalle atraumatiche o instabili multidirezionali. Da escludere invece le fratture della glena, che ne riducano la superficie articolare per oltre il 25%, come pure (almeno per ora) le avulsioni capsulo-legamentose sul versante omerale (lesioni HAGL).

In definitiva molteplici sono le soluzioni chirurgiche prospettabili in presenza di una spalla instabile. Va tenuto presente che le indicazioni evidenziate hanno solo un carattere di massima e non costituiscono una rigida prescrizione della metodica di trattamento. Nella corretta decisione interverrà certo la cultura, l’esperienza e la capacità tecnica del chirurgo, ma non vi è dubbio che in tale scelta è insito un fattore di rischio.

Una particolare considerazione merita il trattamento postoperatorio. Ormai del tutto abbandonata la rigida prolungata immobilizzazione, viene impostato sin dal primo decorso postoperatorio un accurato percorso riabilitativo, con gli obbiettivi, scadenzati nel tempo, del recupero graduale dell’escursione articolare, recupero della forza e resistenza muscolare, recupero del normale “gesto specifico”(lavorativo o sportivo). La corretta impostazione ed esecuzione del programma , eventualmente

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9 supervisionata dal chirurgo e/o dal fisiatra, può certamente favorire la bontà dei risultati e ridurre la componente di rischio.

Nel novero delle complicanze che possono conseguire agli interventi per spalla instabile, soffermeremo la nostra attenzione sulle due più frequenti antitetiche situazioni: la recidiva dell’instabilità e la rigidità articolare. Sottolineiamo che oggi la finalità dell’intervento non è più soltanto quella di ottenere una stabilità articolare ma anche quella di mantenere una possibilmente completa mobilità.

La recidiva dell’instabilità è presente nelle diverse casistiche con percentuali variabili secondo il tipo di intervento e la lunghezza del follow-up. Ancora oggi il gold- standard viene considerato il valore del 3,5% riportato da Rowe (1978) su una casistica di 146 casi rivisti ad una distanza media di 6 anni da un intervento di Bankart a cielo aperto. Una rassegna delle casistiche più recenti non permette di ottenere dati certi, anche in considerazione delle diverse tecniche impiegate,con percentuali di recidive che oscillano dal 0% al 30%.

Le tecniche artroscopiche ,come già accennato, hanno presentato nella fase iniziale della loro applicazione percentuali di recidiva inaccettabili (sino al 49%),ma le tecniche attuali consentono risultati più regolari,con tassi che si avvicinano alle tecniche aperte (Tauro, 2000, Savoie 2002).

La complicanza di segno opposto è la riduzione della normale escursione articolare, particolarmente in rotazione esterna. Sino ad anni recenti tale limitazione non era valutata negativamente, contribuendo essa alla stabilità articolare. Anzi alcuni

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10 interventi correntemente in uso (Putti-Platt, Magnuson-Stack) si proponevano di correggere l’instabilità appunto limitando la rotazione esterna. Oggi una limitazione di rotazione esterna di oltre 15°,che non è di rara evenienza dopo una chirurgia per instabilità (aperta o artroscopica), è male sopportata, essendo tale limitazione particolarmente avvertita in alcune attività lavorative e sportive che prevedono l’uso dell’arto in elevazione e rotazione esterna forzata.

Esiste poi un certo numero di complicanze più rare,capaci tuttavia di incidere sulla bontà del risultato: lesioni neurovascolari, rottura dei tendini della cuffia (in particolare il sottoscapolare),complicanze relative ai mezzi di sintesi,degenerazione artrosica.

In conclusione si può affermare che nel capitolo della spalla instabile rientrano molteplici sindromi di diversa eziologia , che comportano quindi uno specifico approccio diagnostico e terapeutico. Sotto il profilo medico-legale ne deriva che fattori di rischio possono evidenziarsi in tutte le fasi del trattamento,lasciando prevedere che nel singolo paziente l’indice di rischio di insuccesso (IRI),secondo i principi indicati nella premessa, venga spesso ad assumere un valore rilevante.

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La patologia della cuffia dei rotatori

Le lesioni della cuffia dei rotatori riconoscono una eziologia multifattoriale, riconducibile a fattori diversi quali la degenerazione muscolo-tendinea, alterazioni osteo-articolari, micro- e macro-traumatismi, sovraccarico funzionale. Su questa base si distinguono cause intrinseche, cause estrinseche e cause secondarie.

Le rotture da cause intrinseche sono da porre in relazione al fisiologico processo di degenerazione della struttura tendinea: sono correlate all’età e alla scarsa vascolarizzazione. Basterà ricordare come in studi autoptici condotti su soggetti anziani,senza antecedenti di patologia della spalla, la rottura di cuffia sia stata repertata con notevole frequenza (De Palma)

Le rotture da cause estrinseche sono secondarie ad alterazioni delle strutture anatomiche dell’arco coraco-acromiale con conseguente attrito meccanico. Fu Neer nel 1972 a richiamare l’attenzione sulla “sindrome da conflitto subacromiale”, ritenendo che questa fosse la causa di gran lunga più frequente nel determinismo della rottura di cuffia. Studi successivi hanno confermato che l’acromion a forma di uncino (III tipo di Bigliani), l’artrosi acromio-claveare, la sclerosi del legamento acromio-claveare sono tutti fattori di attrito primario,ma la loro importanza eziologica nella rottura di cuffia è stata alquanto ridimensionata.

Le rotture da causa secondaria comprendono i traumi diretti alla spalla, i microtraumi da movimenti iterativi e le condizioni di sovraccarico della cuffia da

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12 alterazione della normale cinematica del cingolo scapolo-omerale. Va sottolineato come la rottura traumatica della cuffia sia più frequente nei soggetti anziani, il che fa presumere che spesso coesista uno stato di degenerazione tendinea.

Qualunque sia il momento eziologico, difficilmente una lesione tendinea della cuffia evolve verso la guarigione spontanea, ma piuttosto verso un graduale aggravamento per l’intervento di forze di tensione e l’esposizione al liquido sinoviale.

In presenza di una lesione tendinea parziale, si avrà un aumento di carico sulle fibre residue integre, che potranno quindi cedere dando luogo ad una rottura completa.

Si innesta così un circolo vizioso: allontanamento dei margini,allargamento della breccia, cedimento meccanico della cuffia, risalimento della testa omerale,conflitto subacromiale secondario,ulteriore danno tendineo.Per una esatta valutazione del danno e una guida al corretto trattamento è opportuno far ricorso a criteri classificativi che prendano in considerazione i diversi aspetti della lesione:

estensione,topografia, retrazione (Patte,Snyder). Un altro importante elemento da evidenziare è la eventuale degenerazione adiposa muscolare (Goutallier),criterio che può guidare e nella valutazione dell’anzianità della lesione e nella previsione di riparabilità.

Sulla base di tutti questi elementi si arriverà alla scelta del trattamento, non necessariamente chirurgico.

Il trattamento conservativo (che si avvale di un importante supporto fisioterapico) viene in genere riservato alle lesioni massive di cuffia, con ampia retrazioe tendinea

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13 e degenerazione muscolare,con testa risalita ed abolizione dello spazio acromio- omerale. Si tratta per lo più di soggetti anziani e con limitate esigenze funzionali, in cui la finalità principale è il controllo del dolore. In caso di insuccesso si ricorrerà ad una chirurgia palliativa (debridement e acromioplalstica; tenotomia CLB) o, in casi selezionati, alla chirurgia protesica.

In tutti gli altri casi, dopo il fallimento di un trattamento conservativo per 4-6 mesi, andrà preso in considerazione il trattamento chirurgico, sapendo che trattasi di una chirurgia impegnativa e con risultati non sempre previdibili. L’intervento potrà essere condotto con tecnica a cielo aperto o artroscopica: anche qui, come nell’instabilità, l’artroscopia ha compiuto in questi ultimi anni notevoli progressi e, in mani qualificate, può consentire risultati sovrapponibili alla chirurgia aperta. Comunque la possibilità di riparazione e la validità delle suture sono strettamente legate al singolo quadro patologico e quindi con prognosi e risultati funzionali diversi. Una sutura di cuffia può essere: completa, senza tensione o con tensione dei margini suturati, eseguita su tendine di buona qualità oppured egenerato, assottigliato, slaminato, oppure incompleta ma sufficiente a ridurre la breccia tendinea e a ristabilire un ancoraggio funzionale (Burkhart,1992). Nei casi più complessi potrà essere preso in considerazione il trasferimento tendineo-muscolare sia da strutture viciniori (sottoscapolare, sottospinoso), che a distanza (gran rotondo,gran dorsale).

Questi brevi cenni danno un’idea della complessità di questa chirurgia, che è gravata per di più da una notevole percentuale di insuccessi della riparazione. La

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14 biologia tendinea, l’evoluzione della cicatrizzazione, la tensione da retrazione, la persistenza del conflitto sono tutti fattori che possono comportare recidiva della rottura, in percentuali variamente indicate in letteratura dal 20% al 50% dei casi (Karas,1997). Ne consegue che il recupero della forza muscolare rimane spesso compromesso, anche se i risultati sul controllo del dolore e sulle attività della vita quotidiana sono generalmente soddisfacenti (Calvert,1986).

Quali i fattori di rischio medico-legale?

Innanzitutto è essenziale, come sempre del resto, indicare chiaramente al paziente il quadro della situazione clinica e le prospettive del trattamento. Ciò discende da una precisa diagnosi, che deve inquadrare sede,entità ed evolutività della lesione, non limitandosi alla semplice valutazione clinica, ma supportandola con una precisa documentazione di esami strumentali ed una accurata diagnostica differenziale.

L’indicazione del trattamento dovrà tener conto non solo della lesione, ma anche dello stato generale del paziente, l’età, le esigenze funzionali, l’entità della sintomatologia dolorosa. In una parola si dovrà adeguare l’impegno chirurgico al paziente più che alla patologia, senza sottovalutare rischi e complicanze.

Da attentamente considerare sono le difficoltà della tecnica chirurgica, che richiede una buona esperienza della manualità ed una approfondita conoscenza delle condizioni anatomo-patologiche. Non è raro infatti riscontrare veri e propri errori di esecuzione tecnica, come mancata riparazione della via di accesso transdeltoidea,

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15 eccessiva sezione acromiale, insufficiente mobilizzazione dei tendini da suturate, lesioni neurologiche (n. ascellare o soprascapolare).

Errori del trattamento riabilitativo possono compromettere il risultato e comportare un rischio di insuccesso. Una troppo precoce ed iperattiva mobilizzazione può determinare un cedimento delle suture e favorire una recidiva della rottura, evenienza gia di per sé non rara. D’altra parte una tardiva o trascurata fisioterapia comporta facilmente una residua rigidità articolare, che può talora richiedere una soluzione chirurgica. Il controllo postoperatorio deve essere quindi attento ed accurato per guidare le fasi della rieducazione funzionale ed evidenziare, al primo insorgere, eventuali complicanze.

In definitiva la patologia della cuffia dei rotatori rappresenta un capitolo irto di difficoltà diagnostiche e terapeutiche, con evidenti fattori di rischio.

La protesi di spalla

La protesi di spalla, utilizzata inizialmente per il trattamento di gravi fratture del terzo prossimale dell’omero (Neer,1953), ha gradualmente allargato le sue indicazioni, pur rimanendo limitata alle situazioni di maggior compromissione articolare. Trova oggi corretta indicazione nel trattamento dell’artrosi gleno-omerale, nell’artrite reumatoide,

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16 nell’osteonecrosi, nei gravi traumi recenti ed inveterati, nella patologia tumorale.Non è questa la sede per approfondire le relative tematiche, ma va sottolineato che in ogni caso trattasi di una chirurgia gravata da un tasso di complicanze piuttosto elevato. In una recente revisione della letteratura, condotta su 22 serie di pazienti, si è rilevato su 1183 casi di protesi totale un tasso di complicanze del 10,4% e su 498 casi di emiartroplastica ben del 15,7%

(Cofield ,1999). Va inoltre considerato che in molti casi, pur senza il manifestarsi di complicazioni, possono evidenziarsi risultati insoddisfacenti come persistenza di dolore, riduzione del movimento, perdita di forza (Hasan e Al, 2002).

Esaminiamo brevemente le singole situazioni di rischio:

- Scollamento della protesi glenoidea: è la più frequente causa di insuccesso.

L’evidenziarsi di una radiolucenza periprotesica è riportato nelle diverse casistiche dal 29% al 83%, anche se piuttosto raramente si determina una completa mobilizzazione. Comunque in ogni caso il risultato ne viene alquanto compromesso. Per ovviare a tale complicanza, alcuni Autori preferiscono far ricorso alla semplice emiartroplastica, rinunciando a protesizzare la glenoide, ma esponendosi così al rischio di una glenoidite secondaria da attrito metallo-osso.

- Instabilità postoperatoria: E’ anch’essa una eventualità abbastanza frequente, presentandosi nelle diverse casistiche dallo 0% al 29% dei casi.

Può manifestarsi sia come una sublussazione (per lo più supero-anteriore),

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17 sia come vera e propria lussazione , acuta o recidivante. Numerose le cause determinanti: il cedimento e la rottura ( preesistente o secondaria) della cuffia dei rotatori, in particolare del sovraspinoso o del sottoscapolare; lo scollamento delle componenti protesiche (stelo o glenoide); il loro difettoso posizionamento nel piano frontale o sagittale; la disfunzione del deltoide, ecc,

- Fratture periprotesiche intra-operatorie: rappresentano un fattore di rischio non trascurabile. Riconoscono la loro eziologia o nelle manovre per ottenere una valida esposizione del campo operatorio, oppure durante la preparazione del canale midollare con un alesaggio troppo spinto, o ancora durante l’impianto di uno stelo sovradimensionato. In ogni caso il cedimento osseo è certamente favorito dalla osteopenia strutturale del soggetto anziano. Rispetto alla sede di frattura, possono essere distinte in tuberositarie, metafisarie e diafisarie. I cedimenti a livello tuberositario comportano un notevole pregiudizio sulla capacità funzionale della spalla, in conseguenza della perdita di controllo da parte della cuffia dei rotatori.

Ricordiamo qui che la fissazione delle tuberosità e il loro corretto posizionamento rappresentano un tempo chirurgico essenziale anche nel trattamento protesico delle fratture.

- Infezione: è un fattore di rischio relativamente raro,non ricorrendo nelle varie statistiche per più dell’1% dei casi. Va tuttavia sottolineato come

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18 l’insorgenza possa essere favorita da situazioni predisponenti generali e locali. Tra le prime ricordiamo il diabete,l’artrite reumatoide, trattamenti sistemici con corticosteroidi o chemioterapici, coesistenza di focolai settici in altre sedi. Tra le cause locali notevole importanza possono rivestire i precedenti interventi chirurgici sulla stessa articolazione o pregressi trattamenti infiltrativi con corticosteroidi. L’insorgenza del processo settico può evidenziarsi nella fase acuta (entro 2-3 mesi dall’intervento) oppure tardivamente (dopo 1 anno o oltre), facendo in questo caso sospettare un’origine ematogena. La diagnosi non è sempe evidente sulla base dei dati clinici e andrà quindi confermata dagli esami di laboratorio,radiologici e scintigrafici.

- Lesioni nervose: anche questo è un fattore di relativamente rara evenienza.

Trattasi in genere di lesioni neuroapraxiche e quindi a prognosi favorevole, con un semplice trattamento riabilitativo. Più frequentemente interessati sono il nervo ascellare, il nervo muscolocutaneo e più in generale il plesso brachiale, in conseguenza di manovre di stiramento. I controlli elettromiografici seriati sono essenziali per valutare l’evolversi della lesione.

È evidente da quanto esposto che la chirurgia protesica della spalla è esposta a numerosi fattori di rischio, la cui importanza specifica sul buon esito del trattamento deve essere preventivamente riconosciuta e valutata dal chirurgo. E’ indubbio

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19 comunque che l’indice di rischio di insuccesso (IRI), nel senso precedentemente indicato, si presenta generalmente di valore piuttosto elevato.

Conclusioni

Complicanze ed errori rappresentano evenienze tutt’altro che rare nel corso di un atto terapeutico ed aprono la via all’insuccesso, che viene a gravare sulla salute del paziente e sulla professionalità del medico. Talora poi finiscono con l’assumere rilevanza medico-legale.

Quanto mai opportuno appare quindi lo studio dei fattori di rischio,con diverse finalità:

- evidenziare al paziente le difficoltà della metodica, consentendogli di esprimere un consenso più correttamente informato;

- evidenziare al medico i passaggi più delicati, che richiedono maggiore cautela ed attenzione ed una adeguata preparazione;

- evidenziare al medico-legale le prestazioni che comportano problemi di particolare difficoltà;

- evidenziare al giudice l’entità della eventuale colpa medica.

Per rendere più facilmente comprensibile e paragonabile l’entità del rischio, ci sembrerebbe opportuno individuare per ogni singolo caso un indice di rischio di

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20 insuccesso (IRI), capace di esprimere con un valore numerico l’entità di problematiche non sempre facilmente apprezzabili da persone non specificamente competenti.

Nel casistica della chirurgia di spalla, abbiamo evidenziato quanto numerosi ed importanti siano i fattori di rischio di insuccesso nella diagnosi, nel trattamento e nel recupero delle diverse situazioni patologiche.

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