• Non ci sono risultati.

COMUNICAZIONE E PRODOTTI EDITORIALI NEL MONDO DEL CALCIO I CASI DI MILAN E INTER

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "COMUNICAZIONE E PRODOTTI EDITORIALI NEL MONDO DEL CALCIO I CASI DI MILAN E INTER"

Copied!
197
0
0

Testo completo

(1)

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE MILANO

C O M U N I C A Z I O N E E P R O D O T T I E D I T O R I A L I N E L M O N D O D E L C A L C I O – I C A S I D I M I L A N E I N T E R

Relatore:

Chiar.mo Prof.: EMILIO PUCCI

Tesi di Laurea di:

SIMONE COMETTI 150540

Anno Accademico 2003/2004

(2)

INDICE

INTRODUZONE...1

PARTE PRIMA: DA SPORT NAZIONALE A BUSINESS GLOBALE 1. Il calcio in Italia...5

1.1. Le origini storiche del gioco...5

1.2. Il calcio verso l’era moderna...6

1.3. Il secondo dopoguerra e la visione commerciale...8

1.4. La mutazione genetica...9

1.4.1. Lievitano i fatturati, esplodono gli indebitamenti: le plusvalenze e il decreto “spalmadebiti”...10

1.5. L’autodifesa del mondo del calcio ed il calcio dei tifosi...13

1.6. Breve storia del Milan...14

1.7. Breve storia dell’Inter...16

2. Il calcio a fini di lucro...18

2.1. La nascita del calcio business...18

2.2. Il “neocalcio”...19

2.3. Il quadro giuridico e la sentenza Bosman...21

2.3.1. La sentenza Bosman e i provvedimenti legislativi del 1996...22

2.3.2. Le conseguenze della sentenza Bosman...24

2.4. Un’analisi economica della Serie A...26

2.5. Il quadro Europeo...30

2.5.1. I più ricchi club calcistici d’Europa...32

3. I media cadono nella “rete”...35

3.1. Il calcio come genere dell’entertainment...35

3.2. La stampa sportiva...36

3.2.1. Un po’ di storia...36

3.2.2. Le tre testate quotidiane...38

3.2.3. La diffusione...40

3.3. La televisione...41

3.3.1. Il satellite e la Pay-tv in Italia...43

3.3.2. Il futuro prossimo...46

(3)

3.4. Internet e le nuove tecnologie...48

3.4.1. Il wireless...50

4. Le società calcistiche come editori...52

4.1. Verso le media company...52

4.2. Le riviste ufficiali...54

4.2.1. L’organizzazione delle riviste...55

4.2.2. I contenuti delle riviste...57

4.2.3. La pubblicità delle riviste...58

4.3. I canali satellitari tematici...59

4.3.1. La pubblicità dei canali...61

4.3.2. L’audience dei canali...62

4.3.3. Le prospettive future...63

4.4. I siti Internet ufficiali...64

4.4.1. I contenuti informativi dei siti...65

4.4.2. I contenuti commerciali dei siti...67

4.5. Il merchandising...68

4.5.1. Il marchio nelle società calcistiche...69

PARTE SECONDA: MILAN E INTER SUL MERCATO DEI MEDIA I.IL MILAN...71

I.1. “Forza Milan!”...72

I.1.1. La storia...72

I.1.2. La struttura della pubblicazione...73

I.1.2.1. Speciali e Approfondimenti...74

I.1.2.2. Rubriche e Appuntamenti Fissi...75

I.1.3. Redazione...78

I.1.4. Pubblicità...78

I.1.5. Diffusione e vendita...80

I.2. Allo stadio, il Milan informa...84

I.2.1. La cartella stampa...84

I.2.2. Che funzione ha...85

I.3. “Milan Channel”...87

I.3.1. Palinsesto e Programmazione...87

I.3.1.1. Rubriche e Speciali...88

(4)

I.3.1.2. Programmi ed Appuntamenti...89

I.3.2. Pubblicità...92

I.3.3. Audience e Diffusione...93

I.4. “A.C. Milan.com”...97

I.4.1. Home Page...98

I.4.2. I contenuti informativi del sito...102

I.4.3. I contenuti commerciali del sito...105

I.5. “Business to Milan.com”...108

I.5.1. L’area pubblica...108

I.5.2. L’area privata...109

I.6. “MGeneration.com”...111

I.6.1. Home Page...111

I.6.2. I contenuti...112

I.7. Il Merchandising del Milan...116

I.7.1. Il licensing del Milan...117

I.7.2. Il merchandising editoriale...121

I.7.3. Il marchio Milan...123

II. L’INTER...125

II.1. “Inter Football Club”...126

II.1.1. La struttura della pubblicazione... 126

II.1.1.1. Speciali e Approfondimenti...127

II.1.1.2. Rubriche e Appuntamenti Fissi...127

II.1.2. Pubblicità...130

II.1.3. Diffusione e Vendita... 132

II.2. Allo stadio, l’Inter informa...136

II.2.1. La cartella stampa...136

II.2.2. Che funzione ha...137

II.3. “Inter Channel”...139

II.3.1. Palinsesto e Programmazione...139

II.3.1.1. Rubriche e Speciali...140

II.3.1.2. Programmi ed Appuntamenti...141

II.3.2. Pubblicità...144

II.3.3. Audience e Diffusione...146

(5)

II.4. “Inter.it”...151

II.4.1. Home Page...152

II.4.2. I contenuti informativi del sito...155

II.4.3. I contenuti commerciali del sito...160

II.5. “Inter Network”...162

II.5.1. Inter Campus...162

II.5.2. Inter Channel...163

II.5.3. Inter Club...164

II.5.4. Settore Giovanile...165

II.5.5. Archivio Inter...166

II.6. Il merchandising dell’Inter...167

II.6.1. Il licensing dell’Inter...167

II.6.2. Il merchandising editoriale...171

II.6.3. Il marchio Inter...172

APPENDICE Interviste...175

Immagini...192

Indirizzi Internet utili...207

Ringraziamenti...208

BIBLIOGRAFIA...209

(6)

"Mi innamorai del calcio come poi mi sarei innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé "

(Nick Hornby)

(7)

INTRODUZIONE

Nella storia di quello che, con iperbole forse logora ma estremamente intuitiva, viene definito “lo sport più bello del mondo”, esiste un passaggio storico di fondamentale importanza che ne segna irrimediabilmente i destini e ne muta sostanzialmente la natura. Il calcio modernamente inteso – fruizione complessa e stratificata di un fenomeno dalle mille sfaccettature sociali, politiche, economiche, rituali e di massa – comincia a delinearsi a cavallo fra gli anni ’70 e ’80, quando i due “padrini” del fenomeno diventano gli sponsor e le televisioni. Queste due entità, come efficacemente ha sostenuto nel suo “Anni di cuoio” il giornalista Oliviero Beha, “strettamente intrecciate in senso tecnico, interdipendenti in via commerciale, hanno dato e stanno dando il massimo impulso a questo fenomeno particolare che è, insieme, in dosi diverse e storicamente scomponibili, filosofia di vita, modo di essere, politica dell’individuo nelle sue forme di comunicazione con la collettività, spettacolo elefantiaco e popolarissimo”.1

Al di là di qualunque considerazione sociologica, affermare oggi che il prodotto-calcio inteso nella sua globalità muove una consistente fetta dell’economia, rappresenta un dato di fatto facilmente verificabile. In Italia, in particolare, si tratta di un fenomeno di innegabile evidenza, dove l’intreccio fra sport, politica, business, industria della comunicazione e industria tout court è diventato sempre più stretto ed evidente..

Quarantaquattro milioni di persone interessate in Italia (il 77% della popolazione), 31 milioni di tifosi, 9 milioni di lettori di quotidiani sportivi, circa 4 milioni di praticanti, quasi 4 milioni di telespettatori medi per gara e oltre 14 milioni di spettatori allo stadio, non sono una statistica ma un saldo e consolidato fenomeno sociale ed economico: quello che ha reso nel nostro paese il calcio la principale modalità di entertainment degli italiani.2

Partendo da questa solida base, ho costruito questo lavoro che si propone di andare a capire come la comunicazione sia sempre più importante all’economia del calcio moderno; ed in particolare come e perchè anche le stesse società di calcio abbiano deciso di dedicarsi direttamente alla produzione e distribuzione di prodotti e servizi di natura editoriale ed informativa.

Prima di arrivare allo studio analitico dei due casi presi in esame (quello dell’A.C. Milan e dell’F.C. Internazionale), ho ritenuto opportuno e necessario prendere in esame, nella prima parte della tesi, come il calcio si sia trasformato da uno sport giocato nel fango da dilettanti ed appassionati, ad una fenomeno globale ed ipertrofico, vera e propria potenza economica dove la presenza così forte di denaro e di interessi in gioco ha spesso comportato anche gravi disastri economico-finanziari.

Il PRIMO CAPITOLO compie un breve excursus attraverso la storia del calcio. Dagli inizi ancestrali dei progenitori del football come lo

1 Beha, Anni di cuoio, Newton Compton Editori, 1987

2 Fonte: indagine Figc.

(8)

conosciamo oggi, alla nascita delle prime federazioni ufficiali e all’inizio del calcio moderno.

Una storia che corre parallela a quella nazionale ed internazionale e che si intreccia e si amalgama con la vita sociale ed economica dei diversi paesi.

Il pallone ha percorso una parte importante della storia italiana ed europea, arrivando a modificare le abitudini degli appassionati, maturando e crescendo fino al punto di diventare la loro prima passione.

Insieme a ciò però il calcio ha iniziato un proprio processo di

“enfatizzazione” che lo ha portato a raggiungere dimensioni non supportate da salde fondamenta: come altre “bolle” già osservate nella storia economica recente (basti pensare solo allo sviluppo esponenziale della net- economy sul finire degli anni ’90 e alla sua successiva contrazione) anche il calcio ha presto evidenziato i limiti strutturali di una crescita eccessiva, rischiando infine il vero e proprio tracollo. Nel momento in cui sarebbe stato possibile puntare alla consacrazione dello sport professionistico come attività di primo piano, la stessa crescita del fenomeno economico divenne non più controllabile e di ardua gestione..

Proprio il SECONDO CAPITOLO tratta il tema sempre d’attualità della nascita del calcio business.

I calciatori col passare del tempo iniziarono ad avere sempre più potere contrattuale e a pretendere remunerazioni sempre più cospicue, diventando così “professionisti”. Naturalmente questo comportò una crescita esponenziale dei costi per le società di calcio che dovettero iniziare a

“vendere” lo spettacolo calcistico ed a trovare diverse e sempre nuove fonti i guadagno per le loro casse, dando così vita alla fase definibile del

“neocalcio”, dove tutto fu trasformato in spettacolo.

L’evento catalizzatore di questa trasformazione, che dette la spinta decisiva al calcio nella direzione del business a tutti i costi, fu la sentenza Bosman, che tra i diversi cambiamenti apportati ai regolamenti giuridici sportivi e nazionali, rese soprattutto i club calcistici delle società a fini di lucro a tutti gli effetti.

Da ciò nasce in questo capitolo la necessità di esaminare tutte le conseguenze della sentenza Bosman e di tracciare un’attenta analisi economica della Serie A e dei principali club calcistici europei.

Il TERZO CAPITOLO inizia a trattare nello specifico il tema della comunicazione nel mondo del calcio e più precisamente del rapporto tra quest’ultimo ed i media.

Il capitolo è dedicato al fenomeno della stampa sportiva in Italia, a quello della tv e delle nuove tecnologie.

Innanzitutto ho compiuto una breve analisi, anche storica, dell’evoluzione della stampa sportiva in Italia, che ha portato il nostro paese ad avere ben tre diversi quotidiani sportivi.

Ho dato poi grande risalto alla questione dello sport in tv, argomento legato al fenomeno delle pay-tv e soprattutto a quello scottante dei diritti televisivi criptati ed in chiaro, cercando di tracciare un breve cronistoria degli avvenimenti che hanno portato il nostro campionato di calcio di Serie A ad avere il più alto valore di diritti tv di tutta l’Europa.

(9)

Infine uno sguardo all’importante fenomeno del calcio su Internet e ai principali portali informativi sportivi italiani. Ma anche un’analisi di quello che potrebbe essere il mercato del futuro per la trasmissione (e vendita) di servizi e contenuti di carattere calcistico: il Wireless e l’UMTS.

Nel QUARTO CAPITOLO ho analizzato invece nello specifico la tendenza, soprattutto delle grandi squadre del nostro massimo campionato calcistico, di trasformarsi in vere e proprie media company, sfruttando le potenzialità del loro marchio per produrre pubblicazioni “ufficiali” ed iniziative editoriali multimediali.

Ho compiuto un’analisi “per mezzo” (carta stampata, tv, internet, ecc.) sui prodotti editoriali delle squadre di Juventus, Inter, Milan e Roma, cercando di capire come e perchè esse producano questi servizi editoriali ed informativi tra cui le riviste ufficiali, i canali satellitari tematici ufficiali, i siti internet ufficiali ed anche il merchandising ufficiale.

Questo capitolo concettualmente introduce poi la SECONDA PARTE della tesi, dedicata esclusivamente all’analisi dettagliata dei casi specifici di Inter e Milan.

Ho scelto in particolare queste due società calcistiche perchè era possibile fare tra loro un confronto ed una comparazione interessante, tra gli altri, soprattutto grazie a questi particolari motivi:

> sono situate nello stesso background socio-economico (Milano).

> sono, dopo la Juventus, le squadre con il più grande bacino d’utenza e seguito di tifosi d’Italia.

> sono, insieme all’A.S. Roma, le uniche tre società che producono anche un canale satellitare tematico ufficiale a loro interamente dedicato.

L’analisi, compiuta per squadra, descrive nel dettaglio tutti i diversi aspetti economici-organizzativi e la produzione e distribuzione dei contenuti dei prodotti editoriali dei due club calcistici come la rivista ufficiale, la cartella stampa, il canale satellitare tematico ufficiale, i siti internet della società ed il merchandising ufficiale.

Ho cercato quindi di capire cosa e come questi club producono attraverso queste diverse attività editoriali multimediali, e quale sia il loro scopo e valore comunicativo oltre che quello economico di vendita, diffusione e ricavi pubblicitari.

(10)

PARTE PRIMA:

DA SPORT NAZIONALE A BUSINESS GLOBALE

(11)

1. Il calcio in Italia

1.1. LE ORIGINI STORICHE DEL GIOCO

Giochi con la palla furono praticati sotto tutte le latitudini e in tutti i tempi.

Platone pensava che gli esercizi ginnici avessero avuto un’origine naturale, come risposta ad un istinto innato dell’uomo, e in effetti nel gesto di lanciare o calciare una palla, nella stessa forma sferica dell’oggetto, c’è qualcosa di elementare e istintivo.

Come anche Antonio Ghirelli ricorda3, l’antichità ci ha lasciato una enorme documentazione sui giochi di palla che si praticavano, più o meno simili al nostro calcio o al nostro rugby.

I giapponesi del 1004 a.C. tramandano il ricordo di un gioco che si disputava su un terreno quadrato di circa due metri, demarcato ai quattro punti cardinali da altrettanti alberi.

In Cina si giocava con un pallone di cuoio riempito, secondo i leggiadri costumi del Celeste Impero, di capelli femminili.

Sia l’Iliade che l’Odissea conservano accenni alle “sferomachie”, competizioni sportive coltivate dalle genti greche. Nel canto VI dell’Odissea è contenuta la prima cronaca sportiva di cui si abbia memoria, descrivendo Nausicaa impegnata a sbagliare una specie di goal a porta vuota, mancando il passaggio all’ancella e mandando la palla a rotolare in un profondo vortice.

Dalla Grecia all’antica Roma il passo è breve. Marziale, Virgilio e Orazia ci hanno lasciato descrizioni non episodiche dell’arpasto, un gioco violento che – derivando dal verbo greco “arpazo”, sottrarre – consisteva appunto nello strapparsi la palla attraverso una folla di contendenti; ma anche quello della “pila paganica” (un pallone di cuoio ripieno di piume), quello della

“pila trigonalis” (che si giocava in triangolo, preferibilmente nudi, nel tepidario delle terme), e quello del follis , una palla di cuoio gonfia d’aria.

Giungendo poi direttamente sino al 1200, si ritrova in Inghilterra l’enorme e popolare diffusione di un gioco consistente nel far superare alla palla una linea che veniva difesa accanitamente. Forza bruta nei contatti e potenza di calcio erano gli unici requisiti richiesti ai protagonisti di queste furibonde battaglie che solitamente si svolgevano il martedì grasso o a Natale, oppure in concomitanze con sagre e fiere paesane. Interessante notare come l’obiettivo di questo passatempo britannico fosse di due ordini, come duplice era il modo di giocare: “hurling at goal” (consistente nel gettare la palla in porta allorchè la partita aveva luogo fra squadre numerose – da 30 a 50 giocatori – ma in campo limitato) e “hurling over country” (consistente nel lanciare la palla attraverso la campagna, allorchè la gara coinvolgeva intere parrocchie o paesi).

Denunciato come forma di “pericoloso teppismo”, l’hurling venne messo fuori legge in entrambe le sue forme da re Edoardo II, nel 1314.

3 Ghirelli A., Storia del calcio in Italia, Einaudi, 1972.

(12)

1.2. IL CALCIO VERSO L’ERA MODERNA

E’ notorio come si faccia abitualmente risalire al Rinascimento fiorentino l’origine più “strutturata” del moderno gioco del calcio, anche se alcuni autori sottolineano come “la parentela tra l’esercizio fiorentino e il nostro attuale svago domenicale sia assai vaga, mentre il football come oggi è praticato deriva inequivocabilmente, nello spirito e nella lettera del suo regolamento, dalla pratica inglese del secolo XIX”.4

Ad ogni modo, è a Firenze, sotto la dinastia dei Medici che il gioco della palla raggiunge il suo massimo splendore. Tanto che più tardi il vocabolario della Crusca, stampato nel Seicento a Venezia, riporterà la celebre definizione: “E’ calcio anche nome di gioco, proprio e antico della Città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata con una palla a vento, somigliante alla sferomachia, passata dai Greci ai Latini e dai Latini a noi”. Le partite si disputavano soprattutto in occasione di matrimoni principeschi e visite illustri, in spiazzi di cento metri per cinquanta. Due squadre di 27 giocatori ciascuna si contendevano col pugno o col, piede un pallone gonfio di aria, in una caccia violentissima e senza regole che richiama alla memoria inevitabilmente il britannico “hurling at goal”.

Ma è indubbiamente all’Inghilterra che dobbiamo volgere lo sguardo per osservare la sempre più complessa strutturazione del gioco del calcio e il suo dotarsi di regole e norme che lo avvicinano progressivamente al calcio moderno. Sospinto dall’ attività sportiva dei college il gioco del calcio si diffonde in Inghilterra, conquistando un numero crescente di seguaci e appassionati e verso il 1850 era già configurato in maniera non dissimile da quella dei giorni nostri: le partite duravano sessanta minuti, l’altezza tra i pali sotto cui doveva passare la palla era stabilita in due metri, gli arbitri venivano designati a vigilare sull’osservanza delle regole concordate di volta in volta, ed era in vigore sinanche la norma del fuorigioco: il divieto per l’attaccante di giocare la palla se tra lui e la porta non si frapponevano avversari.

Nel 1855 nasce la prima società calcistica del mondo, lo Sheffield Club. Il 26 ottobre del 1863, data storica per il gioco del calcio, tredici delegati in rappresentanza di undici società inglesi si riunirono a Londra, nella Taverna dei Frammassoni, per procedere ad un accordo univoco sulle regole da osservare nel gioco. I delegati si divisero in due tronconi: una fazione che voleva conservare l’uso indiscriminato delle mani e dei piedi nel trattamento della palla ed il tono violento delle competizioni medievali fondarono la Rugby Union; l’altra fazione, al contrario, che voleva escludere sia l’uso delle mani che la violenza nel contatto fisico fondò invece la Football Association.

Era il memorabile battesimo del calcio moderno. Tre anni dopo la Football Association faceva disputare la prima partita ufficiale; nove anni dopo, il Kennington Oval di Londra era teatro del primo incontro internazionale della storia, quello tra Inghilterra e Scozia (spettatori 2.934, incasso 106 sterline e 1 scellino).

4 Ibidem.

(13)

In Italia invece è la Federazione Ginnastica ad organizzare per prima delle gare di football. Il gioco cominciò a diffondersi in centri come Udine, Ferrara, Alessandria, Livorno, Spezia, Cuneo, Savona.

Il 15 marzo del 1898 viene costituita a Torino la federazione Italiana del Football: vi aderiscono inizialmente il Genoa, il F.C. Torinese, l’Internazionale e la Società Ginnastica Torinese. Nel 1905 la Federazione si affilia alla Fifa, l’ente mondiale del calcio varato l’anno prima, e annuncia per il campionato successivo l’adozione di una nuova formula rispetto a quella – ristretta e abbastanza pionieristica – adottata sino a quel momento: eliminatorie locali seguite da un girone finale con partite di andata e di ritorno.

Risale ai primi decenni del 1900 la nascita e il consolidamento di alcune fra le principali società calcistiche in tutt’Italia, chiamate a contrastare il predominio delle formazioni di Milano, Torino e Genova: a Palermo, a Firenze, a Lucca e Pisa, a Roma, a Bologna (nel 1909), a Modena e Monza (nel 1912), a Padova (1913), a Verona. A Milano nel 1908 un gruppo di soci dissidente del Milan forma l’Internazionale, a Torino nasce l’omonima formazione (1906), sin dall’inizio con l’obiettivo dichiarato di competere con lo strapotere della Juventus. Nel 1908 viene fondata la Pro Vercelli, formazione che impresse al gioco del calcio una fortissima spinta propulsiva sul piano dell’organizzazione e del metodo in campo, tanto addirittura da esercitare un suo incontrastato predominio con la vittoria di tutti i campionati disputati dal 1908 al 1913, con la sola eccezione del 1910.

Nel 1913 la Federazione cominciò a sperimentare la formula del campionato a girone nazionale, avviando quel processo di “unificazione geografica” che progressivamente avrebbe attutito le distanze organizzative ed agonistiche fra i più forti club del Nord e quelli – più giovani e, spesso, meno ricchi – del Mezzogiorno.

«Da quel lontano campionato del 1913 – osserva Antonio Ghirelli (op. cit.) – la formula del girone nazionale si è andata gradualmente evolvendo e ha assicurato al gioco del calcio una benemerenza che non si può esagerare ma neppure ignorare. In un paese come il nostro, la cui unità è avversata da circostanze di ogni genere, il campionato di calcio ha contribuito beneficamente ad avvicinare gli italiani delle più lontane regioni, a farli viaggiare, a far conoscere loro la bellezza e i peccati della nostra terra. Gli eccessi di campanilismo, che hanno causato perfino episodi di criminalità, sono da considerarsi conseguenza sia pure deplorevole, di antichi pregiudizi».5

Il processo di unificazione, lento e difficile, visse momenti di alterna fortuna, frenato in parte dagli eventi bellici della prima guerra mondiale, per poi riprendere vigore nel dopoguerra e giungere al suo logico epilogo al termine della stagione calcistica 1928-1929. Negli ultimi due anni la formazione dei gironi, superata la ripartizione geografica delle squadre fra Nord e Sud, era stata fatta in base alla classifica della stagione precedente.

Nell’estate del ’29 la Federazione eliminò le prime otto squadre di ciascun

5 Ibidem.

(14)

girone unendole in un unico gruppo, unificando a parte le seconde otto classificate. Ai due girono venne dato il nome di Serie A e Serie B.

Il primo campionato a girone unico nella storia del calcio italiano, quello del 1929-1930, fu disputato fra 18 squadre: Ambrosiana-Inter, Genoa, Juventus, Torino, Napoli, Roma, Bologna, Alessandria, Pro Vercelli, Brescia, Milan, Modena, Pro Patria di Busto Arsizio, Livorno, Triestina, Padova, Cremonese e Lazio.

1.3. IL SECONDO DOPOGUERRA E LA VISIONE

COMMERCIALE

E’ il secondo dopoguerra a segnare l’avvio del vero e proprio boom del calcio, sancendo in maniera irrevocabile il tramonto di un’èra forse più disorganizzata e frammentata ma certamente più genuina e più ispirata ai veri valori della competizione sportiva, per cedere il passo ad una visione sempre più spiccatamente mercantilistica e “commerciale” del fenomeno.

Sociologicamente interessante sarebbe, ad esempio, l’approfondimento del fenomeno-Totocalcio, al quale in questa sede si può accennare solo per rapidissimi cenni. Sarà forse sufficiente ricordare che le prime “giocate” – con la costituzione della società Sisal ad opera del giornalista Massimo Della Pergola – risalgono agli anni a cavallo fra il ’42 e il ’47, mentre la legge che regolamenta la materia è la n.469 del 14 aprile 1948: in essa si affida al Coni l’esercizio della gestione del Totocalcio, ripartendo le quote introitate settimanalmente in parti proporzionali fra il montepremi, lo Stato, le ricevitorie e il Coni stesso. Il solo montepremi – pari al 48 per cento degli introiti globali – superò nella stagione 1948-1949 la somma di 5 miliardi di lire, per poi arrivare a toccare vette astronomiche sino agli anni Novanta, quando un nuovo e più potente fenomeno di “illusione collettiva” – il Superenalotto – ne avvierà una lenta ma inesorabile erosione fra i favori del pubblico.

L’importante evento storico che il 4 maggio del 1949 vede l’aereo che riportava a casa la fortissima formazione del Torino – reduce da un incontro amichevole organizzato in Portogallo con il Benfica – schiantarsi sulla collina di Superga, causando la morte di 18 giocatori, due tecnici, due dirigenti, un massaggiatore, tre giornalisti e i cinque membri dell’equipaggio, segnò l’inizio di un profondo cambiamento.

La fortissima spinta di “ricostruzione” della società piemontese, avviata subito dopo, sembrò infatti dare il via ad un’opera sempre più forsennata di radicamento in tutti i più forti sodalizi calcistici di quello spirito commerciale e imprenditoriale che, nel bene e nel male, avrebbe caratterizzato lo sviluppo ulteriore del fenomeno-calcio sino ai tempi nostri.

Nell’estate che seguì il dramma di Superga, entrarono in vigore le nuove norme federali, che consentirono in serie A il tesseramento di tre giocatori stranieri. Come osserva Ghirelli, nel decennio a cavallo fra il ’50 e il ’60 l’ambiente calcistico si macchiò degli stessi errori della classe dirigente italiana rispetto al boom economico che il Paese visse: «anche nel football incassi, guadagni e partecipazione popolare crescono a dismisura, alimentando una sfrenata euforia, e nessuno dei responsabili si preoccupa di

(15)

programmare un qualsiasi piano per gli anni difficili, e tantomeno di consolidare le strutture portanti del calcio italiano. Il potere è utilizzato piuttosto per attuare una frettolosa e confusa politica di sopraffazione settoriale: della Lega rispetto alla Federazione, delle Società rispetto alla Lega o ancora, e forse soprattutto, di alcune Società rispetto ad altre».

Facendo un passo a ritroso, va ricordato a questo punto che all’immediato dopoguerra si deve far risalire anche la nascita della Lega Nazionale, voluta dalle società professionistiche aderenti alla Federcalcio. La Lega viene fondata fra il 14 e il 16 maggio del 1946 a Rapallo, e come sede viene indicata la città di Milano. Il suo primo presidente è l’ing. Piero Pedroni, che guiderà l’istituzione milanese per quattro anni, sino al ’50, passando attraverso il più lungo campionato della storia, quello del ’47-’48 a ventuno squadre. E’ la Lega, rafforzandosi sempre di più negli anni successivi anche grazie all’ingresso nel suo direttivo dei nomi più potenti del calcio italiano (i Rizzoli, gli Agnelli, i Moratti), a mettere in campo costantemente un’azione di autonomia delle società professionistiche nei confronti della Federcalcio. E’ la Lega a trattare con il Coni l’aumento dei contributi concessi, ritenendo agli inizi degli anni ’70 i 500-600milioni di lire ben misera cosa rispetto ad un meccanismo di giocate settimanali che aveva raggiunto utili-record prossimi ai 33 miliardi. Le società cominciarono ad avvertire sempre più pesantemente gli effetti deleteri di una politica economica condotta dissennatamente e senza alcun freno. Nel ’77 venti società su 36 sottoscrissero un documento con la richiesta di un commissariamento della Lega per far fronte ad un deficit del settore salito a 50 miliardi complessivi. Il commissario nominato, Franco Carraro, si dimise l’anno successivo quando il centravanti del Vicenza, Paolo Rossi, in comproprietà con la Juventus, venne valutato dal presidente vicentino Farina 5 miliardi e 224 milioni di lire.

1.4. LA MUTAZIONE GENETICA

Seguire per grandi linee la storia della Lega Calcio equivale a ripercorrere le tappe di avvicinamento delle società calcistiche – e del fenomeno-calcio nella sua visione complessiva di vero e proprio fenomeno di costume – ad una dimensione sempre più “aziendale”, laddove l’aspetto economico- finanziario finisce quasi col sopraffare l’aspetto meramente ludico o spettacolare, pur intrecciandosi strettamente ad esso.

Nel 1981 l’assemblea dei presidenti di serie A e B decide la liberalizzazione delle sponsorizzazioni. Come scrive Fabio Monti nel suo saggio6 sulla nascita della Lega Calcio, la Lega nella primavera del 1981 «si trova di fronte alla prima occasione per alzare il prezzo della cessione dei diritti tv.

La Fininvest annuncia pubblicamente di essere disposta a offrire molto di più della Rai, ma i tempi non sono ancora maturi per cedere i diritti a un’

emittente che non ha la diretta e di cui ancora non tutti si fidano, nonostante l’ultimo test del Mundialito. Così, per tre anni la Rai si tiene il calcio, ma deve versare 5 miliardi, 816 milioni e 147 mila lire».

6 Monti F., I Quaderni del Calcio, Lega Calcio, n.x, 1998

(16)

Prima della discesa in campo delle televisioni e degli sponsor, e del loro irrefrenabile predominio economico, per le squadre di calcio le uniche fonti di ricavo erano gli incassi al botteghino, per la singola partita o per gli abbonamenti di inizio stagione. In questa ottica, il numero dei tifosi che si recava allo stadio per seguire l’evento-partita rappresentava il “bacino d’utenza” in senso stretto. E i tifosi erano i soli “clienti” della società di calcio: in cambio del pagamento di un biglietto o di un abbonamento ricevevano la contropartita di un servizio, la visione della partita.

Evidentemente anche in questa fase la forza economica dei singoli presidenti di club e la disponibilità dei rispettivi “portafogli” rappresentava una discriminante decisiva nel valutare il valore di ogni formazione calcistica e la rispettiva “forza” nel campionato e nei fatturati, ma il divario tra “grandi” e “piccoli” non era tanto accentuato come oggi. E’ evidente che, ampliandosi la torta dei ricavi con l’entrata in campo delle telvisioni private, fette sempre maggiori sono andate alle società più ricche.

Se esaminiamo, come esempio, la prima annata in cui il pagamento dei diritti televisivi cominciò ad impennarsi, vale a dire quella successiva ai mondiali italiani dell’estate 1990, troviamo che il divario fra il fatturato complessivo della squadra più ricca (il Milan) e quello della più povera (il Cesena) era di quasi 5 volte. Nella stagione 1990-1991 i rossoneri incassarono 66,3 miliardi di lire contro i 13,8 dei romagnoli.

In poco più di un decennio questa “forbice” si è più che raddoppiata, raggiungendo un valore pari a 11,2: nell’esercizio 2002-2003 la società più ricca (la Juventus) ha fatturato 218,32 milioni di euro, la più povera (l’Empoli) appena 19,5.

Ma la vera “mutazione genetica” resta quella dei fruitori dell’evento-calcio.

Gli spettatori da stadio sono stati declassati, per i bilanci delle squadre, al ruolo di “clienti secondari”, sostituti nel ruolo di “clienti primari” da sponsor e televisioni.

«Sta in questi dati la mutazione genetica: la perdita di importanza dei tifosi da stadio è stata controbilanciata dall’ascesa alla ribalta di quelli da salotto, che costituiscono il cosiddetto “bacino d’utenza allargato”. Ma questi ultimi non sono più “clienti” della società di calcio, bensì della televisione criptata a cui pagano l’abbonamento per il campionato. E, addirittura, i tifosi da salotto del calcio in chiaro, quello gratuito, non sono mai stati clienti: senza saperlo, sono proprio loro il prodotto venduto, visto che la Tv commerciale gratuita ottiene i propri ricavi dagli inserzionisti pubblicitari, che sono dunque i suoi veri clienti. E qual è il prodotto venduto? Sono i telespettatori che assistono alla partita, ai quali gli inserzionisti pubblicitari possono propinare i loro “consigli per gli acquisti”».7

1.4.1. Lievitano i fatturati, esplodono gli indebitamenti: le plusvalenze e il decreto spalmadebiti

La concezione del calcio come business porta a snaturare del tutto la filosofia di gestione aziendale “sana” che aveva caratterizzato la storia dei club – in linea di massima – sino a tutti gli anni Ottanta. La regola di una

7 Napolitano, Liguori, Il pallone nel burrone, Editori Riuniti, 2004.

(17)

certa proporzione fra introiti e uscite salta del tutto. Il vero circolo vizioso si instaura con l’incremento continuo dei fatturati e l’aumento esponenziale del “costo del lavoro”, ovvero gli stipendi pagati ai giocatori più famosi, l’acquisto del loro cartellino, le percentuali versate ai loro procuratori.

Significativi esempi di gestione dissennata possono essere l’Inter e la Lazio, società per le quali, nella stagione 2001-2002, le entrate complessive non riuscirono nemmeno a coprire gli stipendi dei rispettivi tesserati. L’Inter era arrivata a versare per emolumenti il 108.42% del fatturato, la Lazio il 108.24%.

Nella stagione 2002-2003 Juventus e Milan non hanno duellato solo per vincere il campionato e la Coppia dei Campioni, ma si sono sfidate anche sino all’ultimo centesimo per vincere la speciale classifica del fatturato.

Nessuna società italiana aveva mai sfondato il tetto dei 200 milioni di euro di ricavi complessivi: ci sono riuscite sia la Juventus (218 milioni) che il Milan (200 milioni). Il resto delle formazioni di rango si sono dovute accontentare di guardare da lontano questa marea di ricavi: l’Inter ha chiuso il fatturato a 163 milioni di euro, la Roma a 134, la Lazio a 100. Le formazioni minori si sono dovute accontentare di fatturati compresi fra i 19 e i 30 milioni di euro.

Tutte queste storture hanno provocato una crescente situazione di collasso del sistema economico-finanziario, accrescendo a dismisura il numero dei bilanci societari chiusi con passivi più o meno pesanti. I conti in rosso della gestione ordinaria della serie A è cresciuto dai 150 milioni di euro della stagione 1995-1996 ai 222 del ’97-’98, ai 406 del ’99-2000, ai 710 del 2000-2001. Sino ad assestarsi, nei bilanci chiusi al 30 giugno 2002, alla quota di 900 milioni di euro.

Conti che sarebbero stati ancora più drammatici se, in molti casi, i bilanci delle società non fossero stati “addomesticate” applicando il geniale artifizio contabile delle “plusvalenze” fittizie. In realtà il concetto di

“plusvalenza” occupa un ruolo importante nel diritto commerciale e societario, e non rappresenta una frode. Esemplificando al massimo, se acquisto un oggetto a 50 e lo rivendo a 200, avrò realizzato un guadagno, cioè una plusvalenza, pari 150; in realtà, se nel frattempo ho anche utilizzato quell’oggetto, sfruttandone parte del suo valore, potrò iscrivere nella contabilità aziendale quel valore d’uso alla voce “ammortamenti”.

L’oggetto, dopo l’uso, non varrà più 50 come quando era nuovo, ma 30: e dunque rivendendolo a 200 la plusvalenza sarà di 170.

Nel mondo del calcio le plusvalenze esistono da sempre. Quando esse erano

“reali”, si concretizzavano nella politica delle società minori, impegnate ad allevare in casa campioni in erba che, una volta cresciuti, venivano trasferiti alle società più grandi facendo affluire nelle casse del club proprietario ingenti somme di danaro liquido. Agli inizi degli anni Novanta, anche i grandi club calcistici si accorsero del fascino contabile della plusvalenza, incalzati dal progressivo deterioramento dei bilanci, dall’aumento dei costi e dall’impossibilità di presentarsi al cospetto del “mercato” con cifre in rosso. Essendo ovviamente impossibile realizzare plusvalenze a senso unico, il vero colpo di genio fu quello di mettere in atto le cosiddette

(18)

“plusvalenze incrociate”, dando origine ad un frenetico scambio di giocatori fra le varie società con quotazioni assolutamente al di fuori degli ordinari parametri di valutazione.

Meri artifici contabili, come si diceva in precedenza, che non arrecavano nessun beneficio tangibile alle casse delle società, ma contribuivano ad alleggerirne i bilanci alla voce “perdite”. L’operazione è semplice, ai limiti dell’ovvio. La società “X” vende alla società “Y” il giocatore “Tizio” per un miliardo, ma acquista dalla stessa società il giocatore “Caio”, sempre per un miliardo. Ognuna delle due squadre ha realizzato una plusvalenza di un miliardo, senza spostare materialmente nemmeno un centesimo, ma iscrivendo in bilancio – grazie all’ipervalutazione del giocatore ceduto – un introito “virtuale” che è ossigeno per i conti in rosso. I costi sostenuti per l’acquisto, al contrario, non incidono direttamente sull’esercizio in cui è stata realizzata la plusvalenza: trattandosi di beni ammortizzabili, essi verranno ripartiti in più anni. Un giochetto contabile ripetuto all’infinito, con un vortice di scambi in serie che non risparmia nessuna squadra e che quasi sempre, quando è fittizio, riguarda giocatori a fine carriera o di nessun impatto sul pubblico, prelevati dalle aree più marginali e misconosciute della “rosa” – sempre molto ampia – della formazione.

Storicamente, la prima plusvalenza incrociata fittizia fra grandi squadre risale alla stagione 1998-1999: lo scambio fu architettato da Lazio e Milan e fruttò a ciascuna delle due società una plusvalenza di circa 10 miliardi di lire. La Lazio cedette al Milan l’attaccante Alessandro Iannuzzi, il Milan cedette alla Lazio il centrocampista Federico Crovari. Iannuzzi, arrivato a Milano nel gennaio 1999 non giocò neppure un minuto, fu spedito sei mesi dopo a Reggio Calabria e successivamente a Monza e Messina. Crovari ebbe a Roma eguale destino: senza aver giocato mai in serie A, fu trasferito a metà del 1999 a Treviso e l’anno seguente a Vincenza.

Si tratta, insomma, dell’esempio classico della plusvalenza fittizia incrociata: uno scambio senza nessuna finalità tecnica e realizzato a prezzi enormemente superiori alla valutazione corrente dei giocatori coinvolti. Da allora, la politica degli “scambi” è proseguita con una escalation inarrestabile, nel frenetico – quanto vano – tentativo di porre un argine, almeno virtuale, alle voragini contabili dei bilanci societari.

A conferma della valenza crescente del pianeta-calcio nel costume nazionale e della sua importanza sotto l’aspetto economico, va citato il decreto legge approvato d’urgenza dal Governo Berlusconi nel dicembre 2002, poi convertito in legge dal Parlamento il 21 febbraio 2003. Il decreto – significativamente definito dai mezzi di informazione “spalmadebiti” - nasce in virtù delle pressioni esercitate da tutti i grandi club di serie A e di serie B, allarmati dal progressivo deflagrare delle proprie perdite di bilancio. La nuova norma consente di calcolare nuovamente il valore del patrimonio calciatori, ovvero il valore dei diritti di utilizzo delle loro prestazioni. La differenza fra la cifra iscritta a bilancio e il nuovo calcolo genera ovviamente una perdita, considerati gli eccessi nelle valutazioni all’atto degli acquisti: ma tale perdita non deve essere più contabilizzata

(19)

interamente nell’esercizio in cui essa affiora, bensì può essere “spalmata”

nell’arco di dieci anni.

Una sorta di “falso in bilancio legalizzato”, come ebbe a definirlo il prof.

Victor Ukmar, uno dei maggiori tributaristi italiani nonchè ex presidente della “Co.vi.soc.”, la commissione di vigilanza sulle società di calcio.

Una norma che ha sollevato anche l’interesse della Commissione europea:

nel novembre del 2003 è stata formalmente aperta la procedura d’infrazione contro l’Italia. Infrazioni sono state ipotizzate sia dal Commissario alla concorrenza, Mario Monti, che da quello al mercato interno, Frits Bolkestein, mettendo sotto accusa l’irregolarità degli aiuti di Stato, non consentiti dalla normativa comunitaria, e la violazione del codice civile quanto al modo di redigere i bilanci.

1.5. L’AUTODIFESA DEL MONDO DEL CALCIO ED IL CALCIO DEI TIFOSI

Sommerso dagli scandali (col ciclico riproporsi del fenomeno del calcio- scommesse), dai sospetti (l’inchiesta della magistratura torinese sul doping è tuttora in corso), dai bilanci in rosso e dalle bizze di campioni super- pagati e super-sfruttati, anche il calcio ha deciso di lanciare la sua offensiva, proponendosi agli occhi dell’opinione pubblica come un’azienda “sana e florida”, che produce ricchezza e prosperità.

Alla metà di maggio del 2004 la Federcalcio ha presentato ufficialmente un’indagine commissionata alla società di analisi e consulenza Deloitte dal titolo “Il calcio: lo sport e il business”. L’indagine fotografa il mondo del calcio fornendo cifre e percentuali. Secondo gli analisti di Deloitte il calcio interessa ben 77 italiani su 100 (44 milioni di persone), genera un volume di affari di circa 6 miliardi di euro l'anno, fattura 6 volte il cinema (1 miliardo l'anno), 4 volte la musica (1,5 miliardi), piu' di 20 volte il teatro (284 milioni), settori che peraltro sono sovvenzionati dallo Stato mentre il mondo del pallone porta all'erario 1,2 miliardi di euro, senza beneficiare di nessun finanziamento pubblico.

Di contro, il calcio alla data del 30 giugno 2003, presenta un risultato netto negativo per 524 milioni di euro per quanto riguarda la Serie A e di 96 milioni per la serie B. Secondo lo studio commissionato dalla Federcalcio, non c'e' nessun altro settore in Italia che interessa la popolazione come il calcio.

Le cifre esibite a sostegno di questa tesi sono, del resto, eloquenti: 31 milioni di tifosi, 9 milioni di lettori di quotidiani sportivi, 4 milioni di praticanti, 3.900.000 di telespettatori medi per gara, 23 milioni che seguono le rubriche calcistiche tv, oltre 14,5 milioni di pubblico negli stadi, 710.000 partite l'anno, stando ai dati 2003.

Gli oltre 6 miliardi di euro di business generato dal mondo del pallone dipendono per 3,8 miliardi dall'indotto diretto e per 2,5 dall'indotto derivato. Tra le voci, 1.550 milioni da scommesse e schedine, 264 milioni dall'acquisto di giornali sportivi, 312 milioni da biglietti e abbonamenti, 642 milioni dai diritti tv, per restare nei ricavi diretti. E poi, 334 milioni per il

(20)

merchandising, 599 per l'affitto di impianti, 1.168 per trasporti e servizi, per i ricavi indiretti.

Allo Stato, il pallone rende 1.226.926 milioni di euro, tra cui 886.038 di ricavi diretti (Irpef, Irpeg, Irap, Iva, ecc.) contro soli 33.623 euro di costi come l'impiego delle forze dell'ordine. Nel raffronto con le altre attività di intrattenimento, il divario è evidente. Il cinema con 35 milioni di italiani interessati genera un business di 1 miliardo di euro ma riceve finanziamenti statali per 125 milioni di euro. Il teatro vanta oltre 15 milioni di presenze ma il suo business e' di soli 284 milioni ed il finanziamento pubblico e' di 129 milioni di euro. La musica ha 12,5 milioni di acquirenti ed incassa 1,5 miliardi di euro con finanziamenti a fondo perduto per 328 milioni. In sostanza, il calcio genera un giro d'affari pari al 70% del totale dei quattro segmenti.

Secondo i dati “Sinottica” del 2002/2003 i due profili del tifoso che “segue abitualmente il calcio in tv” e di quello che “assiste dal vivo a partite di calcio” sono prevalentemente maschili, anche se le donne costituiscono una buona percentuale come telespettatrici (21%), più che come tifose allo stadio (18%).

I due profili sono inoltre uniformemente distribuiti sul territorio e, pur essendo presenti in tutte le fasce d’età, sono maggiormente concentrati tra i giovani e i giovani/adulti, soprattutto nelle fasce d’età tra i 25 e 54 anni.

Gli appassionati di calcio di entrambi i profili si concentrano inoltre nelle classi medie d’istruzione, reddito e condizione socioeconomica.

Ma i tifosi sono naturalmente anche dei consumatori poichè non solo spendono il loro denaro per guardare le partite alla tv o per comprare i biglietti dello stadio, ma perchè contribuiscono al giro d’affari del calcio attraverso le diverse attività commerciali svolte dalle società calcistiche quali il merchandising, i prodotti editoriali, ecc.

Sempre secondo i dati “Sinottica” i consumatori di calcio italiani sarebbero in maggioranza uomini (64%) di una fascia d’età compresa tra i 35 e i 44 anni (18%). Si nota comunque come le donne, nel ruolo di consumatrici

“del pallone”, abbiano più potere e rilevanza rispetto al ruolo di tifose (36%

dei consumatori): non è certo un caso che in questa ultima stagione calcistica 2003/2004 società come la Juventus abbiano puntato decisamente con i loro partner commerciali – prima fra tutte la Nike – ad attività di marketing e merchandising volutamente ed esplicitamente rivolte al pubblico femminile.8

1.6. BREVE STORIA DEL MILAN 9

Il Milan Cricket and Football Club nasce il 18 dicembre 1899 nel corso di una riunione alla Fiaschetteria Toscana di Via Berchet, ad opera dell’inglese Herbert Kilpin, vero pioniere del calcio italiano, e di un composito gruppo di appassionati anglo-italiani. Il battesimo ufficiale alla

8 Esempi eclatanti sono l’utilizzo, come seconda maglia della squadra, della storica casacca juventina color rosa, per incontrare maggiormente i gusti del sempre crescente pubblico femminile; e l’introduzione nel catalogo merchandising della società torinese di una linea di prodotti “Juve Girls”.

9 Per tutto il capitolo fonte: Valitutti F., Breve storia del grande Milan, Newton, 1996.

(21)

nuova formazione viene dato il 15 gennaio del 1900: presidente del sodalizio è l’inglese Alfred Edwards, campo di gioco è il Trotter, un’area senza recinzione e senza porte dove qualche anno più tardi sarebbe sorta la Stazione Centrale.

Il Milan fa il suo debutto l’11 marzo 1900, sconfiggendo per due a zero i

“cugini” della Mediolanum, formazione milanese antecedente al Milan ma frenata da pesanti ristrettezze finanziarie.

Nell’arco di tempo fra le due guerre mondiali il Milan sopravvive a stento, adeguandosi alle difficoltà organizzative e pratiche che tutto il calcio italiano deve sopportare. Il 19 settembre del 1926 viene inaugurato lo stadio di San Siro, fortemente voluto dal presidente rossonero, Piero Pirelli, nobile e generosa figura di mecenate, impegnato allo spasimo per dare al sodalizio milanese una struttura solida ed una formazione competitiva.

Ma l’ossatura della formazione comincia a compiersi solo nei primi anni Cinquanta. Nel ’49 debutta in rossonero Gunnar Nordhal, calciatore svedese dal fisico eccezionale e dalla straordinaria potenza di gioco. L’anno seguente Nordhal è raggiunto dai connazionali Gunnar Gren e Nils Liedholm: il trio – ribattezzato dai tifosi Gre-No-Li – regala al Milan una invidiabile solidità e una ineguagliabile fecondità in attacco. Puntuale, nel campionato 1950-1951, arriva lo scudetto rossonero.

Gli anni Sessanta portano il Milan sul tetto dell’Europa calcistica, conquistando in un decennio due Coppe dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Intercontinentale, una Coppa Italia e due scudetti. Si affacciano alla ribalta figure leggendarie nella storia del sodalizio rossonero: il portiere Ghezzi, il difensore Giovanni Trapattoni, il giovanissimo trequartista Gianni Rivera, i difensori Gigi Radici e Cesare Maldini, l’estroso Josè Altafini.

Gli anni Settanta segnano la conquista del decimo scudetto, raggiunto nel campionato ’78-‘79 sotto la guida di quel Nils Liedholm rivelatosi non solo abile giocatore ma anche allenatore esperto e buon conoscitore degli uomini in campo.

Il 1980 si apre col ciclone del calcio-scommesse, che colpisce duramente il Milan: il presidente Felice Colombo finisce in manette e il Milan viene retrocesso in serie B. Il “purgatorio” dura sino al 1983, quando il Milan torna stabilmente in serie A dopo due campionati in “altalena” (una promozione in A e una successiva retrocessione in B). Nel 1986 un nuovo scandalo rischia di travolgere la struttura societaria: il presidente Giussy Farina, oberato da un “buco” societario di svariati miliardi si invola all’estero, scegliendo l’esilio dorato del Sudafrica (stessa cosa aveva fatto, negli anni Sessanta, un altro presidente rossonero, il finanziere Felice Riva, che aveva scelto come suo luogo di fuga il Libano).

Lo scandalo-Farina apre di fatto l’ingresso del Milan nell’èra-Berlusconi:

l’imprenditore milanese – all’epoca già attivo nel campo dell’edilizia residenziale e delle televisioni commerciali – assume la presidenza dei rossoneri e vara un programma di potenziamento sul medio periodo avviato con il “pensionamento” del tecnico Liedholm e l’arrivo a Milano di un giovane tecnico di Parma, all’epoca sconosciuto: Arrigo Sacchi.

(22)

La gestione-Berlusconi (che dal 2001 è stato sostituito alla guida del Milan da Adriano Galliani, per aggirare le accuse di “conflitto d’interesse” con la sua posizione di Presidente del Consiglio) aggiunge al palmarès del Milan sei scudetti, quattro Coppe dei Campioni, quattro Supercoppe europee, due Coppe Intercontinentali, quattro Supercoppe di Lega ed una Coppa Italia.

1.7. BREVE STORIA DELL’INTER 10

Il 9 marzo del 1908, alcuni “dissidenti” del Milan, riunitisi in una sala del ristorante “L’Orologio”, danno vita alla società “Football Club Internazionale Milano”.

A guidare la scissione, il pittore Giorgio Muggiani, che disegnerà anche il simbolo della squadra con le tre lettere stilizzate in campo nerazzurro. Il primo campo utilizzato fu a Ripa Ticinese, sulle sponde del Naviglio.

Il primo scudetto arriva nella stagione 1909-1910. Nel 1927 debutta in maglia nerazzurra Giuseppe Meazza, uno dei miti del calcio italiano di tutti i tempi: lungo l’arco della sua carriera disputerà ben 365 partite segnando 242 gol. Nel secondo dopoguerra arrivano, consecutivamente, il sesto e il settimo scudetto.

La rivoluzione della “modernità” è alle porte, e l’esigenza di rafforzare costantemente le formazioni diventa direttamente proporzionale alla capacità societaria di investire somme crescenti. Nel 1955 la guida della società viene assunta dal petroliere Angelo Moratti, grande appassionato di calcio e intenzionato a fare dell’Inter una squadra di valore internazionale.

Con Moratti inizia l’èra della svolta. Dall’Argentina, nel ’57, arriva Antonio Valentin Angelillo, uno dei tre celebri “angeli dalla faccia sporca” insieme a Maschio e Sivori. Ma la rivoluzione-Moratti si compie negli anni Sessanta. Sulla panchina nerazzurra arriva Helenio Herrera, personaggio unico fra quanti hanno calcato la scena tecnica italiana. Estroso, estroverso, istrione, provocatorio, grandissimo comunicatore, soprannominato “Il Mago”, arriva dal Barcellona e promette subito la conquista di tutti titoli disponibili.

L’ottavo scudetto arriva al termine del campionato ’62-’63; nell’Inter campione d’Italia giocano Luisito Suarez, Tarcisio Burgnich, Giacinto Facchetti, Sandro Mazzola (figlio del capitano del Torino, Valentino, perito nell’incidente aereo di Superga), Mariolino Corso. Nel 1964 arrivano anche la Coppa dei Campioni (in finale l’Inter sconfigge il Real Madrid 3-1) e la Coppa Intercontinentale, una coppia di successi bissati anche l’anno successivo.

Alla fine degli anni sessanta si conclude l’era Moratti. Il petroliere cede la poltrona di presidente all’imprenditore Ivanoe Fraizzoli. Con Moratti vanno via anche Helenio Herrera e il direttore generale Italo Allodi. L’unidicesimo scudetto, nel ’71, rappresenta l’ultima affermazione di un certo spessore del club nerazzurro prima di una lunga fase di assestamento e di ripiegamento.

Bisognerà attendere il campionato ’79-’80 per rivedere l’Inter in vetta al campionato nazionale, con la conquista del suo dodicesimo scudetto.

10 Per tutto il capitolo fonte: Valitutti F., Breve storia della grande Inter, Newton, 1997.

(23)

Nel 1984 a Fraizzoli subentra l’imprenditore Ernesto Pellegrini. Nel 1986 sulla panchina dell’Inter arriva Giovanni Trapattoni, reduce da un decennio trionfale alla guida della Juventus, dove aveva ottenuto 6 scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Intercontinentale, una Coppa Uefa, una Supercoppa europea e due Coppe Italia. Il tredicesimo – e ultimo – scudetto della storia interista arriva al termine del campionato 1988-1989.

Nel 1995 alla guida dell’Inter – al termine di una lunga trattativa con Ernesto Pellegrini – arriva Massimo Moratti, figlio dell’indimenticabile

“patron” degli anni Sessanta. Moratti riporta all’interno della struttura societaria i nomi dei giocatori che avevano fatto grande l’Inter di suo padre (Mazzola, Corso, Suarez, Facchetti), quasi a voler rimarcare in maniera visibile e assai forte la linea di continuità che egli vuol tracciare fra le due presidenze. Nonostante la passione e gli enormi sforzi finanziari profusi, però, l’Inter non è più riuscita a raggiungere i risultati dei suoi anni d’oro, accontentandosi di una Coppa UEFA nel 1997/1998 e di piazzarsi anno dopo anno fra le prime formazioni del campionato senza mai ottenere il tanto sospirato quattordicesimo scudetto.

(24)

2. Il calcio a fini di lucro

2.1. LA NASCITA DEL CALCIO BUSINESS

Possiamo dire che il calcio diventa business nel momento stesso in cui da sport diventa spettacolo. Ovvero dal momento in cui un intrattenimento sportivo riservato alla fruizione di pochi inizia ad attirare folle crescenti di spettatori, travalicando lo spazio deputato alla celebrazione dell’evento - lo stadio - per raggiungere lo spettatore in ogni angolo del globo, trasformando lo spettatore stesso in consumatore.

Il “circolo vizioso” che in questo modo si va ad instaurare si nutre di un evidente paradosso, nel momento in cui individua nei tifosi il punto d’inizio e il punto d’arrivo della continua evoluzione del fenomeno-calcio. Da un lato infatti masse di spettatori-utenti si aggregano per sostenere la squadra del cuore, nella speranza che questa possa vincere tutto e sempre, e riesca a colmare anche quel senso di dualismo campanilistico presente nel tifoso in maniera innata. Dall’altro lato le società di calcio devono necessariamente mantenere un livello di gioco, di spettacolo e di competitività sempre elevatissimo, per far crescere in maniera esponenziale le possibilità di ottenere affermazioni in campo e attirare in questo modo masse crescenti di spettatori-utenti.

Questa scalata delle squadre verso il primato passa naturalmente dall’ingaggio di sempre nuovi e più forti giocatori. E se all’inizio i calciatori erano tutti dilettanti, con il passare del tempo e con «l’importanza sempre crescente di vincere piuttosto che partecipare»1 le società iniziarono ad offrire loro nuovi incentivi e rimborsi spese sempre più consistenti.

Si può quindi notare come la graduale trasformazione del calcio da sport dilettantistico a sport professionistico sia stato uno dei fattori principali dell’evoluzione del football a business.

Mentre i calciatori più forti cercavano di rendere grandi le squadre dal punto di vista sportivo, le società dovevano iniziare ad affrontare i primi veri problemi economici e di organizzazione: si incominciarono a spendere ingenti somme di danaro per la costruzione di strutture adatte al pubblico sempre più numeroso. I complessi sportivi iniziarono pian piano ad assumere le fattezze degli attuali stadi calcistici che conosciamo; già agli inizi furono inserite piste d’atletica e spesso ciclistiche per aumentare le possibilità di guadagno e si iniziarono a costruire tribune e spalti differenziati (in quanto a servizi offerti ed ovviamente a costi) per il pubblico più abbiente e quello proletario.

Si incominciò inoltre ad investire in una serie di iniziative volte alla promozione della squadra stessa: è indubbio infatti che già agli albori il fenomeno calcio abbia reso palese la possibilità di creare un business, non solo vendendo lo spettacolo singolo, ma anche e soprattutto, come si vedrà in seguito, originando nei tifosi tutta una serie di bisogni, aspettative e modalità di fruizione tali da comportare un’enorme giro di danaro.

Tutto questo porta ad una inevitabile considerazione: come ogni altra impresa gestita oculatamente, anche le società di calcio devono

(25)

necessariamente generare ricavi, vendendo prodotti ai loro clienti: bisogna quindi non solo rendere appetibile il prodotto calcio inteso come singolo

“spettacolo”, ma investire nella comunicazione, nel marketing e nella promozione, costruire strutture adeguate e pagare i giocatori più costosi.

Finalità queste alle quali si collega la volontà e la possibilità economica del pubblico di continuare a pagare per vedere lo spettacolo sportivo.

Sono quindi essenzialmente questi gli elementi che hanno portato dall’inizio quasi ancestrale del calcio-spettacolo al “calcio business” come lo conosciamo noi. Sono cambiate le regole, gli investimenti, le aspettative, ma il cuore del fenomeno è rimasto intatto sin dai primi giorni della nascita del calcio professionistico: un prodotto (l’intrattenimento offerto dalla partita di calcio stessa) venduto a clienti (i tifosi e gli spettatori), fornito da lavoratori (i giocatori, la società e tutto lo staff) che usano infrastrutture (i campi di calcio, gli stadi, ecc.) ed equipaggiamento tecnico in cambio di uno stipendio.

2.2. IL “NEOCALCIO”

Come quindi abbiamo delineato, il calcio da fenomeno popolare, sportivo e di intrattenimento ha assunto le sembianze di un’attività economica vera e propria, di un’industria con natura e caratteristiche molto particolari, dove l’offerta, ma prima ancora la produzione del bene, avviene combinando i diversi fattori della produzione.

Ma è anche, diversamente dagli altri, un settore dove le ragioni del profitto e dell’equilibrio economico devono sempre confrontarsi con gli umori e la passione dei tifosi. Per molto tempo, le regole di mercato e il vincolo di bilancio semplicemente non sono esistiti. Il proprietario metteva di suo, rischiava il patrimonio personale.

In parte è ancora così, ma con l’allargarsi della dimensione economica e del volume d’affari, con le quotazioni, il calcio è stato obbligato a crescere, a cercare nuove risorse e nuovi capitali, ad andare in borsa e a differenziare le entrate, come visto, – che un tempo provenivano essenzialmente dai botteghini dello stadio – con la vendita di oggetti e la promozione del marchio, col merchandising, con l’investimento nelle infrastrutture sportive in cui si svolgono gli eventi.

Si è passati così ad una nuova fase del calcio-business definita da qualcuno2 l’era del “neocalcio”, che quasi delinea una fase post moderna del football, e si potrebbe far coincidere negli anni ottanta - novanta con la nascita delle tv private, degli sponsor sulle magliette e di una serie di stravolgimenti giuridici ai regolamenti delle federazioni calcistiche che cambiarono definitivamente il modo di concepire e il calcio.

Gli aspetti più evidenti che contraddistinguono questa “era” calcistica sono per esempio la tendenza a definire le squadre sempre più come marchi in competizione tra loro di fronte ad una platea internazionale e la tendenza a trasformare il calcio da sport – spettacolo in industria – spettacolo.

Col cambiare poi nella metà degli anni novanta del quadro giuridico che regolava le società sportive, su molti aspetti il processo divenne

2 Liguori, Smargiasse, Calcio e Neocalcio, Manifestolibri, 2003.

(26)

irreversibile perchè se come vedremo i costi iniziarono tendenzialmente a salire alle stelle, fu anche data la possibilità alle squadre di calcio di incrementare i propri profitti in maniera sensibile.

Il prodotto calcio si iniziò a vendere in modi differenti, e le società fecero di tutto per aumentare la loro leadership non più solo sul rettangolo di gioco, ma anche e soprattutto nell’immaginario collettivo, puntando tantissimo sulla comunicazione, la promozione e la vendita di prodotti e servizi oramai legati più al marchio della squadra che non alle gesta sportive e alle partite di calcio.

Un quadro della situazione questo che si scontra per esempio con il risultato di un’indagine3 del 2000 condotta per circa quaranta club rappresentativi dell’intero sistema calcistico inglese, la quale evidenzia come non ci sia alcuna relazione tra i cambiamenti di classifica della squadra e i profitti della società. Questa è una delle più grandi regolarità nell’industria del calcio ed implica la mancanza di una “formula” che possa correlare il successo finanziario a quello sportivo guadagnato sul campo. Questo non aveva certo molta importanza in passato quando i dirigenti non ponevano troppa attenzione al successo economico per decidere le strategie societarie, ma negli ultimi anni la possibilità di ottenere profitti è diventata sempre più importante; dal 1996 poi, come vedremo, è aumentato notevolmente l’interesse verso le società calcistiche come oggetto di investimenti finanziari, che va però a infrangersi su questa regola non scritta che non rende correlabili l’andamento sportivo della squadra e quello economico della società, creando spesso gravi conflitti tra i manager.

Concludendo è inoltre evidente come il potere mediatico e soprattutto quello televisivo occupi un’importantissima e rilevante fetta di funzionalità nel processo di trasformazione del calcio. Non solo economicamente con un interesse rilevante nella sponsorizzazione delle squadre e nell’acquisizione dei diritti di trasmissione delle partite, ma anche nella creazione dell’immagine delle società vincenti.

Chiunque si intenda appena di comunicazione sa benissimo che per la formazione dell’immaginario di massa «la realtà è una variabile dall’importanza assolutamente relativa. Realtà e rappresentazione sono due universi paralleli.»4

Nella prima metà del secolo scorso i grandi gruppi imprenditoriali – primi tra tutti gli Agnelli e i Moratti – avevano reso possibile con le loro finanze la costruzione di squadre diventate popolarissime - tanto da costituire il decantato asse MI-TO – seguendo l’onda del football inglese nato e cresciuto sotto l’influsso del progresso industriale e «figlio della distinzione, nella vita del proletario, tra tempo di lavoro e tempo libero, figlio in sostanza della cultura del lavoro che è capacità organizzativa, senso dell’appartenenza, disciplina e rispetto delle regole»5.

Negli ultimi anni invece vecchi e nuovi gruppi già impegnati in società del mondo della comunicazione, hanno reso possibile la costruzione di squadre

3 Szymanski, Kuypers in Lago, Baroncelli, Szymanski, Ibidem.

4 Liguori, Smargiasse, Ibidem.

5 Ibidem.

(27)

ma anche di società conosciute a livello mondiale: il Milan di Berlusconi e Mediaset, la Juventus di Agnelli e Fiat.

Si è quindi in presenza di una nuova era del calcio governata e mossa principalmente da fattori giuridici, economici e finanziari.

2.3. IL QUADRO GIURIDICO E LA SENTENZA BOSMAN

Da ciò che si è analizzato fino a questo punto il passaggio al calcio-business e al “neocalcio” potrebbe apparentemente sembrare causato da fattori endogeni: il naturale processo di evoluzione di uno sport in un fenomeno di massa, la spettacolarizzazione dell’evento e l’interesse dei mezzi di comunicazione ad una passione sempre più dilagante.

In realtà credo che i fattori esogeni siano stati ancora più determinanti ed uno tra tutti sia stato il mutamento del quadro giuridico di riferimento.

Come sottolineato da alcuni autori6 il quadro normativo del settore calcio, che ha subito negli ultimi anni diverse modifiche e trasformazioni, appare decisamente complesso perchè costretto a sottostare alle diverse norme di organismi nazionali ed internazionali, ma anche ad alcune norme speciali – volte alla risoluzione “ad hoc” di diverse problematiche – e alla giurisprudenza “ordinaria” nazionale, internazionale ed ora anche comunitaria.

«La regolamentazione dell’attività sportiva ha spesso una serie di ripercussioni di ordine economico» sulle società calcistiche, così come le norme nazionali, internazionali e comunitarie sulle diverse attività dello sport-business inevitabilmente vanno a condizionare le attività sportive e non dei club stessi.

Inoltre la gestione normativa nazionale ed internazionale del pianeta calcio non più basata essenzialmente sul diritto speciale, ma su rigide regole normative «che comportano procedure di attuazione alquanto complesse e che non sempre vengono interpretate e recepite con la necessaria tempestività»7, e i rapidi e spesso radicali cambiamenti nel quadro giuridico-normativo-amministrativo avvenuti negli ultimi anni, hanno trovato spesso impreparate le strutture organizzative della maggior parte dei club professionistici italiani, divenuti oramai, a causa della dimensione delle attività svolte, delle medie-grandi imprese.

Prima della “rivoluzione” del 1996, la più importante delle leggi che regolavano il calcio italiano è stata la legge n°91 del 23 Marzo 1981.

Nell’articolo 10, al comma 1, si obbligavano le società sportive a costituirsi in forma di società per azioni (S.p.a.) o di società a responsabilità limitata (S.r.l.) per poter stipulare contratti con atleti professionisti.

Ma ancora più importante, al comma 2, si escludeva il fine di lucro che per le società sportive, le quali non potevano così ridistribuire gli utili tra i soci ma reinvestirli nella attività sportiva stessa.

L’intera organizzazione del settore sportivo italiano è affidata al Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI), che controlla e regolamenta le diverse federazioni sportive nazionali. Le società professionistiche di calcio sono

6 Lago, Baroncelli, Szymanski, Ibidem.

7 Ibidem.

(28)

inoltre soggette alle norme tecnico-giuridiche-finanziarie della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e della Lega Nazionale Professionisti (LNP) – esclusivamente le squadre di Serie A e B. Infine la Lega Calcio è autonoma nell’organizzare e amministrare l’attività agonistica e i campionati di Serie A e B, nel controllare il rispetto delle normative vigenti, e nel coordinare il trasferimento dei giocatori fungendo da garante.

Inoltre la FIGC effettua un controllo funzionale al mantenimento dell’equilibrio economico-finanziario del nostro calcio. Attraverso l’articolo 78 delle Norme Organizzative Interne (NOIF), ha istituito la Commissione di Vigilanza Società di Calcio (Co.vi.soc) come organo preposto al controllo sulla gestione economico-finanziaria delle società calcistiche professionistiche, proponendo in caso di inadempimenti le dovute sanzioni.

Il controllo viene effettuato in base a quanto previsto nell’articolo 12 sempre della legge 91 del 23 Marzo 1981 – articolo poi modificato nel 1996 – attraverso l’esame dei bilanci di esercizio e delle situazioni finanziarie trimestrali.

2.3.1. La sentenza Bosman e i provvedimenti legislativi del 1996

Questo era sostanzialmente il quadro giuridico che regolò il nostro calcio fino al 1995, quando la famosa sentenza Bosman dette inizio ad una radicale riforma.

Questa prende il nome dal calciatore belga Jean Marc Bosman, il quale all’epoca dei fatti avendo il proprio contratto in scadenza con la squadra in cui militava, il club belga RFC Liegi, voleva trasferirsi a giocare in Francia nel Dunkerque.

Il Liegi però si rifiutava, come prassi per l’epoca8, di lasciar andare via il giocatore senza un costo di trasferimento, che però la squadra francese non era assolutamente disposta a pagare.

Bosman avanzò la tesi che come cittadino dell’Unione Europea aveva il diritto – secondo l’articolo 48 del Trattato di Roma – “di libertà di movimento all’interno dei confini europei” e che il sistema vigente dei trasferimenti dei calciatori impediva l’attuazione di questo suo diritto fondamentale; Bosman chiese quindi che il sistema normativo fosse trasformato in modo tale che i giocatori senza contratto potessero liberamente muoversi da una squadra all’altra, secondo le loro preferenze.

Il 15 Ottobre 1995 la Corte di Giustizia della Comunità Europea nella sua sentenza sancisce, in base al suddetto articolo 48, due principi fondamentali: il primo è che "le norme emanate da federazioni sportive in forza delle quali un calciatore professionista, cittadino di uno Stato membro, alla scadenza del contratto che lo vincola ad una società può essere ingaggiato da società di un altro Stato membro solo se questa ha versato alla società di provenienza un' indennità di trasferimento, formazione e promozione" sono contrarie al principio di libera circolazione dei lavoratori nell'ambito comunitario; il secondo è che anche le "norme

8 Prima della sentenza Bosman i giocatori erano vincolati alle società calcistiche a cui appartenevano e non potevano in alcuna maniera e per alcun motivo trasferirsi in un’altra squadra senza il consenso della società di appartenenza.

Riferimenti

Documenti correlati

ta malaria, sono stati sottoposti ad osservazione microscopi- ca, a 18S-rDNA nested-PCR genere-specifica e a tre PCR specie-specifiche (nested-PCR 1993, 2002 e 2004) che uti-

Per un’azienda di piccole dimensioni analizzare e valutare l’operato delle aziende più grandi è quindi sicuramente un modo valido per pianificare le proprie strategie, non solo

Dopo il successo di Le linee rosse, in cui ha guidato i lettori alla decifrazione del mondo attuale usando le mappe, Rampini applica lo stesso metodo alla storia, giocando con

«L'affascinante libro di Diamond è il primo saggio che affronta di petto il problema centrale del- la nostra storia: perché gli europei e gli asiatici hanno dominato quasi tutto

vista l’allegata relazione della direzione tecnica in data 18 aprile 2017 con la quale ha rappresentato la necessità di sottoscrivere un contratto per il servizio di noleggio

50/2016 ai sensi del quale “le stazioni appaltanti, fermo restando gli obblighi di ricorso agli strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle

gli obblighi di ricorso agli strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa, possono

Pertanto, tenuto conto di quanto sopra, si propone di avvalersi del servizio di spedizione di Poste Italiane S.p.A anche per gli anni 2017/2018, usufruendo della