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Academic year: 2022

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Collana Medico‐Giuridica n.10 

VULNERA MENTIS 

‐ Associazione M. Gioia ‐ 

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Note in tema di accertamento e prova del danno psichico nella più recente giurisprudenza di legittimità e di merito.

Dr. Stefano Giusberti*

La figura del danno psichico, tuttora oggetto di dibattito sia nel campo del diritto che in quello della scienza medico-legale, non costituisce una novità nella panoramica giurisprudenziale di questi ultimi anni: già in una risalente sentenza della Corte d’Appello di Modena si trova infatti affermato il principio della risarcibilità del “danno derivato alla viaggiatrice dal trauma psichico provocato dalla caduta della figlia attraverso lo sportello del vagone che si trovava aperto per colpa delle ferrovie” (1).

Il danno psichico rappresenta una

species

del danno biologico, contrapposto a quello di tipo fisico, atteso che i concetti di lesione e menomazione sono sempre stati riferiti dalla dottrina e dalla giurisprudenza all’integrità sia fisica che psichica della persona. Nella nota sentenza della Corte costituzionale 14 luglio 1986, n. 184, il danno biologico veniva definito come

“menomazione dell’integrità psico-fisica dell’offeso”, facendosi quindi rientrare nel danno alla salute anche il pregiudizio alla componente psichica dell’integrità personale. Tale nozione di danno biologico (2) è pacifica nella giurisprudenza di legittimità e di merito, secondo la quale

“l’integrità della persona ed il bene primario della salute, nella cui lesione si sostanzia il suddetto danno biologico, non può essere valutata solo in termini fisici, materialmente constatabili, ma comprende anche la sfera emotiva e psichica, le cui sofferenze sono meno obiettivamente misurabili, ma non per questo meno reali” (3).

Si è correttamente osservato (4) che l’uso, ormai consolidato in giurisprudenza, della sintetica espressione “integrità psico-fisica” non deve tuttavia indurre a ritenere che la rilevanza giuridica dell’offesa alla psiche, intesa come “complesso dei fenomeni e delle funzioni che consentono all’individuo di formarsi un’esperienza di sé e del mondo, e di agire di conseguenza” (5), sia limitata soltanto ai casi in cui la lesione psichica sia preceduta, accompagnata o seguita da una parallela lesione fisiologica. Il progressivo superamento del concetto della necessaria organicità della lesione della psiche consente infatti “di qualificare come danni psichici patologie della mente che non sono conseguenza di un trauma fisico di cui sia vittima lo stesso danneggiato, e che non producono a quest’ultimo menomazioni fisiche”

(6). Rientrano pertanto nel concetto di danno psichico, inteso come “peggioramento del modo di essere di una persona a causa di un disturbo psichico, determinato da una lesione psichica, cioè da un’ingiusta turbativa del suo equilibrio psichico” (7), le seguenti specie di danno: a) danno psichico conseguente o connesso a danno fisico subito dallo stesso soggetto (si pensi ad esempio alla demenza post-traumatica provocata da gravi menomazioni fisiche); b) danno psichico conseguente o connesso al danno fisico subito da altro soggetto (quale quello patito da una persona per gravi lesioni fisiche cagionate ad uno stretto congiunto o a causa della morte del medesimo); c) danno psichico indipendente dal danno fisico, che si verifica cioè in assenza di lesioni fisiche (si pensi ad esempio all’ipotesi del danno psichico provocato da

* Magistrato del tribunale di Ferrara.

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immissioni intollerabili); d) danno psichico che è causa di danno fisico (è il caso della

“somatizzazione” della patologia psichica) (8).

La giurisprudenza si è occupata di casi di danno psichico derivanti da immissioni acustiche intollerabili (9), da immissioni di odori sgradevoli ed intollerabili (10), da stress (11), da molestie sessuali (12), da inadeguato inquadramento professionale (13), da esaurimento nervoso provocato da comportamento illecito altrui (14), da

mobbing

(15), da trauma fisico non cranico (16), da perdita totale della capigliatura (17), da morte del proprio animale domestico (18), dal danno fisico subito dalla vittima di un incidente stradale, che si suicida a seguito dell’alterazione psichica ingenerata dalle lesioni (19), da morte di un congiunto (20), da gravi lesioni personali riportate da un familiare (21), dall’insuccesso di un intervento di interruzione della gravidanza (22), dalla nascita di un bambino affetto da gravi malformazioni (23), da diffamazione a mezzo della stampa (24).

Problemi notevoli sussistono in ordine all’accertamento del danno psichico. A differenza del danno biologico di tipo fisico, infatti, il danno psichico non è direttamente constatabile e rilevabile: la lesione fisica lascia sempre una traccia tangibile (la frattura di un osso, l’asportazione di un organo, gli esiti cicatriziali, e così via), mentre la lesione psichica è un fenomeno intangibile, caratterizzato da elementi incorporei, con sintomatologia soggettiva.

L’esistenza del danno psichico viene quindi dedotta, ricorrendo all’ausilio di un consulente tecnico (o, più opportunamente, di un collegio composto da un medico legale e da uno psichiatra e/o un neurologo (25), in modo da garantire la più ampia competenza ed esperienza nella fase diagnostica ed in quella valutativa), dal comportamento del danneggiato, e cioè dalle manifestazioni patologiche, che possono essere le più varie per tipologia, gravità, durata ed incidenza sulla vita quotidiana (si pensi ad esempio alle difficoltà nei movimenti, all’insonnia, all’attenuazione dei riflessi, alle allucinazioni, all’anoressia, alle difficoltà nella lettura e nella scrittura, alla perdita della memoria, della creatività, delle facoltà espressive e lavorative, dell’affettività, del senso morale, della capacità di intrattenere le relazioni sociali, e via dicendo).

Si è autorevolmente osservato che per verificare l’esistenza del danno psichico è necessario accertare se ed in quale misura tali manifestazioni di comportamento costituiscano menomazioni nel senso tecnico-giuridico del termine, ossia nella sua accezione medico-legale, per poi risalire dalla menomazione alla lesione psichica e al fatto illecito. Tale operazione si fonda su tre elementi: la lesione psichica, la menomazione (o malattia) psichica e il rapporto causale che deve unire l’una e l’altra alla condotta dell’autore dell’illecito (26).

Per quanto concerne la lesione psichica, in particolare, occorre rifarsi alla nozione di

“salute”, intesa come “equilibrio psichico qual è concretamente posseduto da ogni singolo soggetto nel momento in cui diviene vittima del fatto illecito”: costituisce quindi lesione psichica

“l’ingiusto turbamento, che sia giuridicamente apprezzabile, dell’equilibrio psichico di ogni persona, ancorché instabile, effimero e precario” (27).

La menomazione psichica, di conseguenza, consiste, sempre secondo l’impostazione in esame, “nella riduzione - temporanea o permanente - di una o più funzioni psichiche della persona, la quale, incidendo sul valore uomo globalmente inteso, impedisce alla vittima di attendere in tutto o in parte alle sue ordinarie occupazioni di vita” (28)

.

Molto delicata è inoltre la questione del rapporto causale nel danno psichico. Il problema fondamentale è sostanzialmente quello di valutare la situazione psichica preesistente

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al fatto illecito: così come nel danno fisico lo stato menomato preesistente non esclude la risarcibilità del nuovo danno, che concorre a ridurre l’efficienza del soggetto, analogamente, nel danno psichico, occorre tener conto della cosiddetta “struttura psichica di base” del soggetto leso, atteso che “lo stesso evento traumatico (per esempio, la perdita improvvisa di un familiare) in due soggetti con comunanza di vita (due coniugi, due fratelli) può creare situazioni di danno completamente diverse (per un soggetto, solo dolore che si attenua; per l’altro, menomazione psichica permanente)” (29).

Le considerazioni che precedono portano a ritenere che il danno psichico non possa essere mai presunto, poiché è necessario accertare la lesione psichica, la menomazione temporanea o permanente ed il nesso di causalità.

A tale riguardo, tuttavia, la giurisprudenza non è concorde.

Alcuni giudici di merito hanno infatti ritenuto che in concomitanza di certi eventi lesivi debba sostanzialmente presumersi la sussistenza di un danno biologico di tipo psichico. Così, ad esempio, si è affermato che il rumore, soprattutto quello persistente e continuativo di strumenti musicali a bassa frequenza, provoca un sicuro turbamento del benessere psicofisico, risarcibile in via equitativa come danno biologico (30), e che i familiari di una persona deceduta a seguito di un fatto illecito altrui hanno diritto al risarcimento dei danni alla loro integrità psicofisica, senza la necessità di fornire una prova specifica del pregiudizio sofferto,

“potendosi ritenere compresa nel notorio la diminuzione della capacità psico-fisica dei soggetti che si trovano nella citata condizione, pur dovendosi sempre valutare le peculiarità della specifica fattispecie” (31).

Altre decisioni hanno invece ritenuto necessario, ai fini del riconoscimento della fondatezza della pretesa risarcitoria, che venisse fornita la prova specifica del danno alla salute.

Si è così affermato che “ai fini del risarcimento del danno biologico non è sufficiente l’accertamento di un pericolo alla salute derivante da un ambiente malsano, ma è necessaria la prova specifica della esistenza di una compromissione della salute stessa” (32), e che “la intollerabilità accertata delle immissioni non può condurre a ritenere

in re ipsa

il danno” (33).

Sempre in tema di risarcimento del danno biologico da morte

iure proprio

, si è poi ritenuto che tale voce di danno non possa essere considerata provata presuntivamente, sul presupposto che la morte della vittima dell’altrui fatto illecito intacchi l’integrità psichica dei congiunti del soggetto deceduto e quindi il bene salute, non essendo sufficiente un giudizio di verosimiglianza, fondato sul notorio o su fatti di comune esperienza, in base ai quali i familiari

“verosimilmente modificheranno il loro carattere ed il loro atteggiamento nei riguardi della vita futura”, occorrendo invece “provare con riferimenti precisi a comportamenti reali, di valenza morbosa evidente, o, almeno, chiaramente ed univocamente sintomatica” i fatti da cui desumere, “in termini di certezza o almeno di elevatissima probabilità (non già in termini di semplice verosimiglianza o per via di mere congetture), il manifestarsi effettivo del pregiudizio in esame”(34).

Secondo tale orientamento non basta quindi fornire la prova dello stato di prostrazione legato alla perdita del congiunto, in quanto tale fatto è fisiologicamente legato all’esperienza temporanea del lutto, “generalmente superato, dopo un arco di tempo che va, in base alla scienza psichiatrica, dai tre ai sei mesi”, variabile a seconda del rapporto affettivo con il congiunto deceduto e della struttura psichica del soggetto che subisce la perdita. È necessario

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invece “fornire sempre la prova del prodursi e del permanere, nei congiunti, di disturbi della personalità o di squilibri psichici che non sono, però, temporanei e normalmente conseguenti all’esperienza transitoria del lutto” (35).

Su questa linea si pone anche la giurisprudenza di legittimità. Con la sentenza 26 ottobre 1998, n. 10629 (36), ad esempio, la Corte di Cassazione, ribadita implicitamente la risarcibilità del danno biologico

iure proprio

conseguente alla morte del congiunto, ha affermato tuttavia che tale forma di danno non può mai essere presunta, ma deve essere sempre oggetto di prova da parte dell’interessato. Non basta cioè, ad avviso della Corte, la semplice allegazione del pregiudizio da parte dell’istante, ma è necessario che risulti provato che quest’ultimo, a seguito del decesso del congiunto determinato dall’altrui fatto illecito, abbia effettivamente patito un danno alla propria salute.

Nella fattispecie la S.C. ha esaminato, fra le altre, la censura mossa alla sentenza di secondo grado da parte dei ricorrenti, marito e figlia di una donna deceduta a seguito di un incidente stradale, i quali sostenevano che la Corte d’Appello di Roma aveva erroneamente escluso il diritto al risarcimento del danno biologico da loro direttamente patito in conseguenza della morte della vittima, non tenendo per certo, in base alle massime di comune esperienza, il peggioramento della vita che consegue sempre alla perdita di uno stretto congiunto.

La Corte ha osservato che “il danno alla salute, per quanto normalmente si risolva in un peggioramento della qualità della vita, presuppone pur sempre una lesione dell’integrità psicofisica di cui quel peggioramento è solo la conseguenza”. Non dunque la minore godibilità della vita è in sé risarcibile, “ma solo la lesione della salute, costituente il bene giuridicamente tutelato dall’art. 32 della Costituzione”. “Ne discende che, in difetto di prova di una lesione della integrità psicofisica del soggetto che sia conseguita alle sofferenze indotte dalla perdita del congiunto (le quali pure, già di per sé stesse, incidono sulla qualità della vita e sono tuttavia risarcibili solo quale danno morale ai sensi dell’art. 2059 c.c.), non è configurabile un danno biologico risarcibile per gli stretti congiunti della persona deceduta”.

Richiamando i principi enunciati nella menzionata sentenza, la Corte di cassazione ha ritenuto necessaria la dimostrazione dell’esistenza del pregiudizio lamentato dalla parte attrice anche nell’ipotesi in cui venga allegato un danno alla salute derivante da immissioni acustiche intollerabili, affermando che “in difetto di prova di una lesione della integrità psicofisica del soggetto, che sia conseguita alle sofferenze indotte dallo stress da rumore illecitamente provocato con un comportamento integrante gli estremi di reato”, “non è configurabile un danno biologico risarcibile” (37).

La prova del danno è stata ritenuta necessaria dalla S.C. pure nell’ipotesi in cui il lavoratore illegittimamente licenziato chieda il risarcimento dei danni derivati prima dalla mancata esecuzione dell’ordine di reintegrazione e poi dalla riammissione in servizio con mansioni inferiori a quelle che invece gli sarebbero spettate: in tal caso “l’eventuale esistenza di stati di disagio psichico non denota”, “di per sé, una menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, con effetti negativi incidenti sul bene primario della salute, la cui lesione deve essere in ogni caso dimostrata mediante prova di specifici eventi patologici” (38).

Che per il risarcimento del danno biologico a causa di morte non sia sufficiente una lesione del diritto astrattamente ipotizzata, ma sia altresì necessaria la prova del pregiudizio e della sua entità, è affermazione anche della Corte costituzionale, la quale ha rilevato come sia

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necessario dimostrare che “la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato” (39).

È stata pure suggerita una soluzione intermedia rispetto alle due impostazioni illustrate, che ammette il ricorso alle presunzioni semplici, le quali, se rispondenti ai requisiti di legge, sono mezzi di prova di pari efficacia rispetto agli altri (40).

Si è ritenuto tuttavia che anche in tal caso la prova presuntiva debba essere valutata con estrema cautela e sempre con l’ausilio di una consulenza tecnica. Qualora poi fosse riscontrata una malattia psichica preesistente, evidenziata dal fatto lesivo, al consulente dovrà essere demandata anche l’indagine diretta a stabilire quanta parte del danno sia addebitabile al fatto illecito e quanta invece alla preesistente struttura psichica di base (41).

La ragione che induce i giudici a richiedere la prova specifica del danno biologico di tipo psichico (o quanto meno la prova presuntiva del pregiudizio) è dettata talora dall’intento di evitare di confondere il danno alla salute invocato dal soggetto leso con il danno morale (42).

La peculiare natura del danno psichico, che interessa anche la componente umana dell’emotività e dell’affettività, rende necessario tracciare un discrimine fra il dolore morale o la sofferenza psicologica causati alla vittima dell’illecito e l’insorgenza di vere e proprie patologie della psiche provocate dallo stesso fatto. Non si tratta di una distinzione meramente terminologica, in quanto il danno morale, che è danno-conseguenza (e quindi esterno al fatto illecito), presenta, rispetto al danno psichico, che è danno-evento in quanto danno biologico (e quindi interno al fatto illecito), alcune importanti differenze in ordine alla disciplina normativa. Il danno morale è infatti risarcibile nei soli casi previsti dalla legge (art. 2059 del cod. civ.), principalmente qualora il fatto integri gli estremi di un reato (art. 185 del cod. pen.), è incompatibile con ogni fattispecie di responsabilità civile nella quale l’accertamento della colpa del convenuto sia fondato esclusivamente su presunzioni legali (tipico è il caso previsto dall’art.

2054, co. 2, del cod. civ.), in quanto la presunzione della responsabilità penale non è costituzionalmente consentita nel nostro ordinamento, ed è inoltre suscettibile di liquidazione attraverso un criterio puramente equitativo (artt. 2056 e 1226 del cod. civ.), sganciato cioè da ogni valutazione medico-legale.

Discusso è tuttavia il criterio distintivo fra i due tipi di danno.

Come è noto, la Corte costituzionale, che ha affrontato inizialmente il problema occupandosi del danno psichico cagionato ai prossimi congiunti della vittima di un illecito mortale, ha affermato, nella sentenza 27 ottobre 1994, n. 372, che il trauma psichico permanente subito dai familiari sopravvissuti, costituendo “il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo”, deve comunque essere risarcito ai sensi dell’art. 2059 del cod. civ., sia pure con una liquidazione che tenga conto delle “conseguenze in termini di perdita di qualità personali” e non si limiti al mero

pretium doloris

in senso stretto.

La pronuncia, accolta con molte perplessità in dottrina (43), non può tuttavia essere utilizzata per affermare che il danno psichico si riduce al danno morale, atteso che la motivazione che la sorreggeva, come ha chiarito successivamente la stessa Corte con l’ordinanza 22 luglio 1996, n. 293, era ritagliata sulla fattispecie oggetto del giudizio

a quo

, relativa alla “somatizzazione del danno morale” da parte di “persone predisposte da particolari

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condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc)” e non riguardava invece necessariamente qualsiasi altra specie di danno all’integrità psichica. La Corte inoltre aveva escluso, nella stessa sentenza, che il danno psichico dei congiunti potesse, nella fattispecie esaminata, inquadrarsi sistematicamente nell’ambito dell’art. 2043 del cod. civ., non però per ragioni ontologicamente connesse al danno psichico di per sé stesso, ma per motivi attinenti all’elemento soggettivo di quella specifica fattispecie di illecito aquiliano, e cioè per l’imprevedibilità, da parte del danneggiante, del danno-evento, rappresentato dalla sindrome reattiva del familiare del deceduto (44).

Con la successiva ordinanza n. 293 del 1996, la Corte costituzionale ha chiarito che l’inclusione del danno alla salute nella categoria considerata dall’art. 2059 del cod. civ. non equivale ad identificazione dello stesso con il danno morale, ma soltanto a riconducibilità delle due figure, quali specie diverse, al medesimo

genus

del danno non patrimoniale. Poiché tuttavia il risarcimento del danno morale, a differenza del danno biologico, non è “assistito dalla garanzia dell’art. 32 Cost.”, esso può essere discrezionalmente limitato dal legislatore a determinate ipotesi, come quelle previste dall’art. 185 del cod. pen., cui sotto questo aspetto rinvia l’art. 2059 del cod. civ.

Nella medesima ordinanza inoltre, la Corte costituzionale, richiamando espressamente la già citata sentenza n. 372 del 1994, e sulla scia di un’affermazione analoga contenuta nella sentenza n. 184 del 1986 (in cui si era sostenuto che il danno morale è il “momentaneo, tendenzialmente transeunte turbamento psicologico”), ha individuato l’elemento della durata del pregiudizio nel tempo come criterio differenziale fra le due figure di danno. In tal modo il turbamento psicologico transeunte costituirebbe danno morale, risarcibile nei limiti di cui all’art.

2059 del cod. civ., mentre quello permanente diverrebbe danno biologico di natura psichica, non soggetto ai limiti di risarcibilità stabiliti dalla predetta norma, perché assistito dalla garanzia costituzionale.

La scelta di tale criterio distintivo, spesso recepito dai giudici di merito e dalla Corte di Cassazione (45), è stata tuttavia giustamente criticata, in quanto essa porterebbe a negare la configurabilità in astratto di un danno psichico temporaneo, creando una ingiustificata asimmetria rispetto al danno biologico solo temporaneo di natura fisica, la cui rilevanza non è mai stata posta in discussione dalla giurisprudenza e dalla scienza medica (46).

In giurisprudenza il danno psichico temporaneo ha trovato peraltro espresso riconoscimento. Così, in un caso di risarcimento di danno biologico da morte

iure proprio

, si è affermato che nel danno alla salute - che va risarcito (conformemente all’insegnamento della sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 1986) “ai sensi dell’art. 2043 c.c. in relazione all’art. 32 Cost. - deve essere compresa la lesione dell’integrità psico-fisica consistente in una vera e propria patologia psichica, ancorché di carattere temporaneo, diversa dalle mere sofferenze insite nella condizione di lutto, per la perdita di uno stretto congiunto” (nella fattispecie il danno biologico risarcito alla parte

iure proprio

è stato ravvisato nella “sindrome depressiva reattiva” tenuta sotto controllo con terapia specifica, subita dal padre per la morte del figlio cagionata in un incidente stradale) (47).

In due recenti fattispecie in tema di

mobbing

(48), si è ritenuto inoltre che per l’accertamento dell’esistenza del danno psichico temporaneo e del relativo nesso di causalità non fosse necessario il ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio, in quanto la patologia (che in

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entrambi i casi era rappresentata da una sindrome ansioso depressiva reattiva protrattasi per diversi mesi) risultava documentata da idonei certificati medici e le univoche deposizioni testimoniali escludevano che la lavoratrice avesse sofferto in precedenza dei medesimi disturbi, ricollegando invece l’insorgenza dello stato patologico al periodo in cui la dipendente era stata sottoposta alle condotte vessatorie nell’ambiente di lavoro (da parte del diretto superiore nel primo caso e da parte dello stesso datore di lavoro nel secondo) (49).

Autorevole dottrina ha sostenuto che il discrimine fra il patimento tipico del danno morale e la patologia propria del danno psichico non è rappresentato tanto dalla durata (danno transeunte/danno morale, danno permanente/danno psichico) o dall’intensità (danno lieve/danno morale, danno grave/danno psichico) della sofferenza, che appaiono elementi accidentali (anche se il danno morale si attenua con il trascorrere del tempo, mentre il danno psichico perdura nel tempo), quanto piuttosto dai contenuti: la sofferenza è danno morale, mentre la menomazione delle funzioni psichiche, che impedisce di attendere alle ordinarie occupazioni è danno biologico. Il danno psichico, inoltre, in quanto danno-evento, può ingenerare i due danni-conseguenza: può impedire cioè lo svolgimento dell’attività lavorativa, con perdita di guadagno, e può arrecare sofferenza per la consapevolezza della menomazione psichica e degli impedimenti che da questa derivano (50).

Tale impostazione è stata però criticata da coloro i quali rilevano che essa richiede un requisito ulteriore rispetto a quelli necessari per la configurazione del danno biologico di tipo fisico, in cui la lesione alla salute assume rilevanza anche se non priva il danneggiato della possibilità di espletare le consuete attività quotidiane (51).

Altri autori osservano che l’elemento distintivo più chiaro fra il danno morale e il danno psichico è quello probatorio, essendo necessaria, per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno alla salute di tipo psichico, la sussistenza di “una patologia provata a livello medico-legale” (52). Vi è così chi ha rilevato che l’individuazione del confine fra la mera sofferenza morale ed il danno psichico non può essere “astrattamente predeterminata dal giurista, ma deve essere rimessa per ogni singolo caso al medico legale, allo psichiatra ed al neurologo, che, avvalendosi del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV), e di ogni altro strumento di accertamento, neurologico o psico-diagnostico, dovranno valutare se il danneggiato sia (o sia stato) affetto da un disturbo psichico, anche solo temporaneo, riconducibile alle categorie proprie della psicopatologia e della nosografia psichiatrica”. In tal modo “il fattore cronologico della permanenza del disturbo non costituirà un requisito necessario del danno, ma uno degli elementi da valutare, soprattutto ai fini della quantificazione del risarcimento” (53).

Sulla stessa linea si pongono quelle pronunce della giurisprudenza secondo le quali per il risarcimento del danno biologico da morte

iure proprio

“l’interprete deve” “fare riferimento, per discernere ciò che è soltanto danno morale soggettivo da ciò che incide sulla salute, alla scienza medico-legale”, posto che alla luce delle evoluzioni di detta scienza esistono oggi “gli strumenti per definire il confine fra patema d’animo e danno biologico da morte del congiunto non solo nei casi più eclatanti (ad es. infarto), ma anche nelle diagnosi di malattie fino a non molti anni fa relegate nell’ambito dei disturbi dell’umore e sottovalutate nella loro rilevanza personale e sociale (es. depressione)” (54).

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Note

(1) App. Modena 20 dicembre 1913, in

Monit. trib.

1914, 871, citata da GIANNINI e POGLIANI,

Il danno da illecito civile

, Milano 1997, 176.

(2) Sulla attuale identità delle nozioni giurisprudenziali di “danno alla salute” e “danno biologico” v. FRANZONI,

Il danno alla persona

, Milano 1995, 364 e s.

(3) Così App. Milano 29 novembre 1991, in

Nuova giur. civ. comm.

1992, I, 844.

Il danno biologico viene definito come la “lesione all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale”, ”risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato”, anche dal contestatissimo d.l. 28 marzo 2000, n. 70 (art. 3, co, 2), che fa salva la disciplina dell’art. 13 del d.l.vo 23 febbraio 2000, n. 38 (art. 3, co. 1), nel quale compare una definizione analoga, anche se dettata in via transitoria (“in attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento”), “sperimentale” e “ai fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”. Sul composito contenuto che il danno biologico ha per la giurisprudenza v., fra le più recenti, App.

Milano 23 giugno 1998, in

Il Foro padano

1998, 359 e ss., nonché Cass., sez. lav., 23 febbraio 2000, n. 2037.

(4) CATALDI,

Il danno psichico tra medicina legale e diritto

, in

Giur. merito

1997, IV, 641 e s.

(5) BRONDOLO e MARIGLIANO,

Caratteristiche del danno psichico

, in

Il danno psichico

(Autori vari), Milano 1995, 19 e s.

(6) CATALDI,

Op. loc. ult. cit.

(7) MARIGLIANO e BRONDOLO,

Il danno da menomazione psichica

, in

Il danno psichico

cit., 29.

(8) Cfr. GIANNINI,

Il risarcimento del danno alla persona nella giurisprudenza

, Milano 1991, 980 e ss., GIANNINI e POGLIANI,

Op. cit.

, 181 e s., nonché PELLECCHIA,

<<Lutto e malinconia>>: ovvero, della controversa risarcibilità del danno psichico cagionato dalla morte di un congiunto

, in

Giur. it.

1994, I, 2, 892 e ss.

(9) Si tratta delle ipotesi più frequenti di danno psichico in mancanza di danno biologico di tipo fisico, in relazione alle quali, principalmente, si pongono controverse questioni circa la

“intollerabilità” del rumore e la prova della lesione psichica, e cioè se questa possa essere presunta, una volta dimostrata la intollerabilità (a tale riguardo v. anche

oltre

nel testo); fra le altre v. Cass. 6 maggio 1988, n. 3367, in

Resp. civ. e prev.

1988, 1066, Cass. 3 febbraio 1999, n. 911, in

Giust. civ.

1999, I, 2360 e ss., Trib. Biella 22 aprile 1989, in

Foro it.

1990, I, 3303, Trib. Biella 10 settembre 1989, in

Resp. civ. e prev.

1989, 1191, Trib. Savona 31 gennaio 1990, in

Giur. it.

1991, I, 2, 606, App. Milano 17 luglio 1992 e Trib. Milano 10 dicembre 1992, in

Nuova giur. civ. comm.

1993, I, 786 ss., nonché le altre decisioni citate nella nota 30.

(10) Il caso presenta problemi analoghi a quello delle immissioni acustiche intollerabili; cfr.

Cass., sez. un., 19 luglio 1985, n. 4263, in

Giust. civ.

1986, I, 128.

(11) In dottrina si è tuttavia osservato che occorre preliminarmente “stabilire se lo stress sia di per sé una malattia psichica, o piuttosto la causa di una malattia psichica, nel qual caso si dovrebbe parlare, più esattamente, di <<esperienza stressante>>” (GIANNINI e POGLIANI,

Op. cit.

, 183). Si vedano al riguardo Trib. Biella 10 settembre 1989 cit., nonchè Trib. Biella 22

(9)

 

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9

aprile 1989 cit., che ha ritenuto, nella fattispecie esaminata, che non fosse stata dimostrata l’esistenza di un danno alla salute “di natura fisica”, ma che sussistesse comunque un danno risarcibile in capo agli attori, rappresentato dallo stress cui gli stessi erano stati sottoposti a causa dei rumori intollerabili provenienti dal fondo dei convenuti. Il Tribunale ha sostenuto che

“è fatto notorio che il rumore, specie nella vita moderna così piena di inquinamento acustico, provoca una tensione psichica, un malessere nervoso che se prolungato può portare a scompensi talora gravi” e che il giudice, “in casi simili, può sopperire all’impossibilità o all’estrema difficoltà di fornire la prova di un danno” che, come quello in esame, appare “assai evanescente e privo di immediati riscontri oggettivi”.

(12) Pret. Trento 22 febbraio 1993, in

Giust. civ.

1994, I, 555, relativa ad un caso di molestie sessuali sfociate nelle dimissioni della lavoratrice. Secondo il Pretore “non può sussistere dubbio che l’insistente corteggiamento, a cui il datore di lavoro ha sottoposto la ricorrente, anche mediante pesanti ingerenze nella sua vita personale (basti pensare alla richiesta di incontrarsi durante le ferie), provocò nella giovane un sicuro turbamento della sfera emotiva (alla quale la scienza attribuisce un ruolo di grande rilevanza nello sviluppo e nel benessere psichico della persona), tenuto conto sia che il convenuto è molto più avanti negli anni di lei ed è padre di figli a lei coetanei sia che, trattandosi del suo datore di lavoro, le condotte di questi mettevano in pericolo (come in effetti avvenne) la possibilità per la lavoratrice di realizzarsi sotto il profilo professionale”. Il danno biologico venne determinato nella misura di lire 10.000.000.

(13) Ampia è la casistica giurisprudenziale sui danni da dequalificazione e da demansionamento professionale. Oltre a Cass., sez. lav., 20 dicembre 1986, n. 7801, in

Resp.

civ. e prev.

1988, 42, si vedano fra le più recenti: Cass., sez. lav., 18 ottobre 1999, n. 11727, in

Guida al lavoro

1999, n. 46, 25, Cass., sez. lav., 18 aprile 1996, n. 3686, in

Riv. it. dir. lav.

1997, I, 66, Cass. 28 marzo 1995, n. 3623, in

Dir. prat. lav.

1995, 2381, Pret. Bologna 8 aprile 1997, in

Il lavoro nella giurisprudenza

1998, 140, nonchè Pret. Roma 17 aprile 1992, in

Riv. giur. lav.

1992, II, 1057.

(14) Cfr. Pret. L’Aquila 10 maggio 1991, in

Foro it.

1993, I, 317, secondo cui “il danno biologico può consistere in un esaurimento nervoso e stress esistenziale riconducibile alla causa del licenziamento annullabile”, nonchè Pret. Milano 14 agosto 1991, in

Riv. crit. dir. lav.

1992, 679, e Cass. 24 gennaio 1990, n. 411, in

Lav. e prev. oggi

1990, 2387.

(15) Si tratta, come è noto, del fenomeno che comprende una serie multiforme di comportamenti, volutamente vessatori, posti in essere nell’ambito lavorativo da parte di uno o più soggetti (datore di lavoro, preposti, superiori o colleghi) nei confronti di un lavoratore, allo scopo di “eliminare” la persona “non gradita”, e cioè di fargli abbandonare le mansioni ricoperte o la stessa azienda. Le condotte poste in atto possono consistere in critiche e maltrattamenti ingiustificati ed esasperati, offese alla dignità della persona, lesione e delegittimazione del lavoratore all’interno e all’esterno dell’azienda, attacchi alla professionalità, molestie sessuali, ecc. Tali condotte, ripetute nel tempo, tendono ad isolare la vittima, a svilire la sua personalità professionale e la sua dignità umana, e possono provocare nel lavoratore patologie psichiche e psicosomatiche, con gravi risvolti non solo sulla salute, ma anche sulla vita extralavorativa.

Cfr. al riguardo Trib. Torino, sez. lav., 16 novembre 1999, in

Danno e responsabilità

2000, 4, 403 e ss., secondo la quale il datore di lavoro è tenuto,

ex

art. 32 Cost. e art. 2087 del cod.

(10)

 

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10

civ., al risarcimento del danno psichico subito dal dipendente rimasto vittima di pratiche di

mobbing

poste in essere dal capoturno (nella specie è stata ritenuta fonte di responsabilità del datore di lavoro il comportamento del diretto superiore della vittima che aveva molestato sessualmente la stessa, le aveva rivolto frasi offensive e incivili, l’aveva confinata in una postazione di lavoro angusta e chiusa tra cassoni di lavorazione e le aveva impedito qualsiasi contatto con gli altri colleghi di lavoro); v. inoltre Trib. Torino, sez. lav., 30 dicembre 1999,

ibidem

, 406 e ss., secondo cui il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell’art. 32 Cost. nonchè degli artt. 2087 e 2103 del cod. civ., al risarcimento del danno psichico e del danno da dequalificazione subiti dal dipendente rimasto vittima di pratiche di

mobbing

(nella fattispecie si è ritenuto che costituisse fonte di responsabilità il comportamento del datore di lavoro che, dopo avere fatto pressione sulla dipendente affinchè rassegnasse le dimissioni, l’aveva sostituita con un’altra impiegata, trasferendola dagli uffici amministrativi al magazzino, con variazione

in peius

delle mansioni). Si legga altresì il commento alle due sentenze di BONA e OLIVA,

ibidem

, 409 e ss., nel quale, oltre all’indicazione di puntuali riferimenti giurisprudenziali e dottrinali, si evidenzia che la due pronunce rappresentano un “momento di rottura rispetto all’approccio tradizionale” della giurisprudenza, che sanzionava non già il “fenomeno del

mobbing

, peraltro sconosciuto fino a tempi recenti come categoria, bensì solo particolari degenerazioni della condotta del

mobber

o solo alcuni degli strumenti adoperati da quest’ultimo, quali forme

’’surrettizie’’ di dequalificazione professionale o demansionamento”. Gli A. rilevano che il

“nuovo orientamento” “apre le porte del diritto al

mobbing

come fenomeno unitario, come categoria di responsabilità idonea a rendere più efficace la tutela integrale della personalità morale dei lavoratori”. Da ultimo v. Cass., sez. lav., 8 gennaio 2000, n. 143, in

Guida al lavoro

2000, 4, 21 e ss., che rappresenta la prima sentenza della S.C. sul

mobbing

, ma che non costituisce “un significativo precedente”, in quanto “il giudizio di legittimità viene continuamente fermato dalla Corte sulla soglia dei troppi elementi che attengono al merito” e

“non affronta nessuna questione di principio”, “né sotto il profilo dei limiti al diritto di critica, soprattutto se esercitata a mezzo stampa, né sotto quello degli effetti professionali e personali di situazioni di mobbing tra superiore e dipendente” (GOTTARDI,

Mobbing non provato e licenziamento per giusta causa

,

ibidem

, 25 e s.).

(16) Trib. Milano 13 luglio 1989, in

Giur. it.

1991, I, 2, 54.

(17) Cfr. Cass. 23 gennaio 1995, n. 755, che riguarda il danno subito da una bambina.

(18) Concil. Udine 9 marzo 1995, in

Nuova giur. civ. comm.

1995, I, 784 e ss., che ha ritenuto sussistente in capo all’attrice un danno biologico di tipo psichico, consistente nello

“stato di angoscia” in cui la stessa era caduta a causa della morte della propria gatta provocata dalla condotta illecita del convenuto, ed ha liquidato il danno “simbolicamente ed equitativamente” in lire 50.000.

(19) Cfr. Trib. Milano 13 luglio 1989 cit., nonché Cass. 7 febbraio 1996, in

Resp. civ. prev.

1996, 919.

(20) V. Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372, in

Il corriere giuridico

1994, 1455 e ss. Cfr.

inoltre, intendendo citare solo alcune fra le pronunce più recenti: Trib. Napoli 1° luglio 1997, in

Gius

1998, 8, 1341, Trib. Ferrara 29 giugno 1998, n. 472, Trib. Milano 20 settembre 1999, in

Gius

2000, 3, 319, Cass. 25 febbraio 1997, n. 1704, in

Nuova giur. civ. comm.

1997, I,

(11)

 

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11

221, Cass. 26 ottobre 1998, n. 10629 (sulla quale v.

oltre

nel testo), e Cass. 25 febbraio 2000, n. 2134, in

Gius

2000, 11, 1351.

In giurisprudenza si registra talvolta la tendenza a liquidare il danno biologico patito dal congiunto a seguito della morte del familiare facendo riferimento al danno alla vita di relazione, inteso come uno degli aspetti del danno alla salute. Cfr. ad esempio Trib. Milano 4 giugno 1990, in

Giur. merito

1992, I, 369, che, nel liquidare i danni subiti dalla madre vedova, privata dell’unico figlio a seguito di un incidente stradale, ha ritenuto che l’evento lesivo avesse causato alla donna un danno alla vita di relazione ed in particolare “un impoverimento della sua attività psicofisica incidente nella sua capacità di espressione nella sfera dei rapporti sociali ed economici”.

(21) Cfr. Cass. 23 aprile 1998, n. 4186, Trib. Piacenza 13 giugno 1999, in

Arch. giur. circ. e sin. strad.

1999, 907 e ss., nonchè Trib. Milano 7 febbraio 2000, n. 1223, in

Guida al diritto

2000, 14, 96 e ss., la quale, sulla base di una consulenza tecnica d’ufficio psicologica, ha riconosciuto in favore del figlio minore di un uomo che aveva subito gravi lesioni personali a seguito di un incidente stradale il risarcimento del danno biologico di tipo psichico causato dal

“traumatico e rilevante cambiamento della figura paterna”, che aveva “influito sul suo sviluppo psicoaffettivo”. Il Giudice ha liquidato il danno nella misura di lire 100.000.000, ritenendo logiche e condivisibili le argomentazioni svolte dalla c.t.u., la quale aveva accertato che il bambino era affetto da “limiti intellettivi non attribuibili a un deficit organico, ma alla conseguenza di una evoluzione disarmonica della sua vita emozionale” ed aveva chiarito che le gravi lesioni del padre avevano “nella sostanza significato” per il minore “la perdita dell’immagine paterna - associata alle sue specifiche funzioni educative ed affettive - in un momento di particolare importanza sotto il profilo dello sviluppo affettivo e del processo di identificazione con la figura maschile”, compromettendo “il normale sviluppo affettivo del bambino con ripercussioni anche sul suo sviluppo intellettivo”.

Anche con riferimento all’ipotesi del danno biologico provocato ai familiari dalle gravi lesioni subite dallo stretto congiunto, alcuni giudici ricorrono alla figura del danno alla vita di relazione. Cfr. Trib. Verona 15 ottobre 1990, in

Foro it.

1991, I, 261, che, in un caso di lesioni gravissime subite da un neonato al momento del parto, ha affermato che i congiunti del bambino subiscono, oltre al dolore di carattere spirituale, “l’alterazione della loro vita di relazione, definitivamente compromessa dalla presenza di un essere umano ridotto in uno stato di vita pressochè vegetativa”, nonché, più di recente, App. Roma 3 marzo 1998, in

Nuova giur.

civ. comm.

1999, I, 121, che, in caso simile al precedente, ha riconosciuto a ciascuno dei genitori il ristoro del danno biologico (quantificato nella misura di lire 100.000.000), riformando la decisione di primo grado, che aveva trascurato “di considerare che essi avevano subito il completo annullamento della loro vita di relazione e l’estremo perturbamento della loro vita psicologica”.

(22) Si veda App. Bologna 19 dicembre 1991, in

Arch. civ.

1992, 295, che ha ritenuto sussistere una lesione del “diritto alla salute della donna, compromessa dagli effetti sulla psiche provocati dalla insorgenza e dall’aggravamento, per la nascita dell’ulteriore figlio, di quelle difficoltà economiche, già dal legislatore apprezzate come incidenti sulla salute fisica o psichica”. La Corte ha osservato che “la preoccupazione e l’ansia per l’impossibilità, o quantomeno per le aumentate difficoltà, di garantire, per le limitate risorse economiche

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familiari, una vita dignitosa, una educazione adeguata, una opportuna istruzione alla prole, costituiscono invero fonte permanente di tensione e disagio psicologico, che alterano l’equilibrio psicofisico della persona, costituente il bene costituzionalmente protetto della salute”.

(23) Cfr. Trib. Bergamo 16 novembre 1995, in

Giust. civ.

1996, I, 867, che ha ravvisato la responsabilità del medico per avere omesso, al momento dell’esame ecografico, di segnalare le malformazioni del nascituro, privando così la madre della possibilità di procedere all’interruzione della gravidanza, ed ha riconosciuto in favore dei genitori il risarcimento del danno biologico, comprensivo del danno alla vita di relazione e del “danno psicofisico in sé considerato, e derivante dal maggior sacrificio rispetto all’ordinario dovere di accudire e crescere il minore con affetto e partecipazione, oltre che dallo ’’shock’’ emotivo conseguenziale all’inaspettato esito della nascita”. In una fattispecie analoga (relativa alla responsabilità del sanitario per mancata informazione dei genitori circa le malformazioni del feto, la conoscenza delle quali avrebbe portato alla scelta di interruzione della gravidanza) anche la Corte di cassazione si è pronunciata a favore del riconoscimento del danno biologico “nella varie sue componenti” a favore dei genitori del neonato handicappato. La S.C. ha precisato che il risarcimento andrà attribuito alla madre qualora si provi che l’esatta informazione delle condizioni del feto al momento dell’esame ecografico avrebbe ingenerato un processo patologico a carico della gestante. La Corte inoltre ha affermato che se la donna ha subito un

“danno grave alla salute” a causa del mancato legittimo esercizio del diritto di interruzione della gravidanza, è ipotizzabile un danno (anche biologico), sotto il profilo del danno riflesso, dei prossimi congiunti (nella specie il marito della stessa), con la conseguenza che se il danno subito dalla donna è ascrivibile a fatto colpevole del terzo, nei confronti di quest’ultimo il congiunto, danneggiato di riflesso, può legittimamente agire per ottenere il risarcimento del danno (Cass. 1° dicembre 1998, n. 12195, in

Foro it.

1999, I, 77 e ss.; v. inoltre Cass. 24 marzo 1999, n. 2793, in

Danno e resp.

1999, 766, che ha ribadito i medesimi principi in ordine all’onere della prova del danno).

(24) V. Trib. pen. Bolzano 18 marzo 1998, in

Dir. informaz. e informatica

1998, 616, riguardante un caso in cui erano state pubblicate notizie concernenti la condizione di sieropositività e tossicodipendenza di una ragazza. Nella fattispecie il Tribunale ha ritenuto che, poiché si trattava di dati personali, difettavano i requisiti scriminanti dell’interesse pubblico e della continenza, ed ha pertanto riconosciuto la responsabilità penale del giornalista e del direttore del quotidiano sul quale era stato pubblicato l'articolo. Il Collegio ha ritenuto inoltre che la diffusione delle notizie di stampa, in quanto gravemente lesive della dignità personale e della reputazione della ragazza, avesse prodotto nella giovane “uno stato di prostrazione psicofisica”, qualificato come danno biologico.

(25) Così CASTIGLIONI,

Temporaneità e permanenza del danno psichico

, in

Il danno psichico

cit. 171; si è osservato tuttavia che il sovvertimento dell’equilibrio psichico può emergere anche con l’ausilio della scienza psicologica o psicoanalitica (v. PETTI,

Il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale della persona

, Torino 1999, 67).

In dottrina si è evidenziato, in ordine all’accertamento giudiziario del danno psichico, che la necessità scientifica di protrarre o di reiterare l’esame del danneggiato nel corso di un consistente lasso di tempo non appare incompatibile, considerati i deprecabili lunghi tempi

(13)

 

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medi del giudizio civile, con le esigenze processuali: il giudice istruttore infatti, stimolato dal c.t.u. o dalle parti, potrà in ogni momento disporre il rinnovo o l’integrazione degli accertamenti tecnici ai sensi dell’art. 196 del cod. proc. civ., atteso che non sussistono al riguardo preclusioni o decadenze neppure nel nuovo rito civile ed essendo necessario unicamente garantire il rispetto del contraddittorio nelle ulteriori operazioni peritali. Peculiari problemi di carattere procedurale potrebbero profilarsi rispetto all’attività di indagine che il consulente d’ufficio deve compiere “per acquisire quel complesso di informazioni (di carattere medico ma anche sociale) che, contribuendo ad illustrare lo stato psicologico del danneggiato prima del sinistro, consentano una adeguata valutazione dell’efficienza della concausa rappresentata dall’illecito”. L’entrata in vigore del cosiddetto nuovo rito civile non ha modificato l’impianto normativo relativo alla figura del consulente tecnico d’ufficio e non preclude pertanto al giudice istruttore di assegnare al consulente, “oltre alla comune funzione deducente, anche quella percipiente, incaricandolo (come la giurisprudenza di legittimità ha più volte ritenuto corretto nel vigore del c.d. vecchio rito) di acquisire, a norma degli artt. 62 e 194 c.p.c., notizie ed accertare fatti anche non rilevabili dagli atti processuali”, “sempre che si tratti di dati rilevabili solo con ricorso a determinate cognizioni tecniche” e “di circostanze che siano intimamente collegate con quelle già acquisite attraverso il meccanismo delle prove”. Il c.t.u.

potrà quindi essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti e ad assumere informazioni presso terzi (art. 194 del cod. proc. civ.); anche in mancanza di tale preventiva autorizzazione, tuttavia, le informazioni raccolte dall’ausiliario del giudice, quando ne siano indicate le fonti in modo da consentire il controllo delle parti e quando sia stato assicurato il contraddittorio nella loro raccolta da parte del perito d’ufficio, possono concorrere con le altre risultanze di causa alla formazione del convincimento del giudice. In questi limiti si è ritenuto che “nessuna alterazione dell’onere probatorio” sia “ravvisabile nell’attribuzione al consulente della funzione più o meno ampia di indagare – a fini diagnostici e valutativi – nel vissuto del danneggiato antecedente al sinistro, per selezionare ed interpretare dati che possono limitare l’efficienza causale dell’illecito oggetto del giudizio”. Si è inoltre correttamente osservato che non sembra

“logicamente praticabile l’alternativa processuale che rimettesse esclusivamente al convenuto, per dimostrare la ridotta efficienza causale dell’illecito sul danno psichico, l’onere pressochè impossibile di provare in giudizio le complessive caratteristiche psichiche preesistenti del danneggiato, desumibili in concreto da una serie infinita di episodi e di circostanze, che solo con l’ausilio della scienza medica è possibile tentare di delimitare e selezionare” (così CATALDI,

Op. cit.

, 646 e s.).

(26) GIANNINI e POGLIANI,

Il danno da illecito civile

cit., 177.

(27) GIANNINI e POGLIANI,

Op.loc. ult cit.

(28) GIANNINI e POGLIANI,

Op. loc. ult. cit.

(29) GIANNINI e POGLIANI,

Op. cit.

, 178.

(30) Trib. Alessandria 7 maggio 1992, in

Giur. it.

1995, I, 2, 344 ss., conf. da App. Torino 23 marzo 1993, in

Nuova giur. civ. comm.

1995, I, 321 e ss. Nello stesso senso, v. App. Milano 6 novembre 1987, in

Resp. civ e prev.

1988, 201, App. Milano 29 novembre 1991 cit., Trib.

Milano 10 dicembre 1992 e App. Milano 17 luglio 1992 cit., nonché, più di recente, Trib.

Milano 25 giugno 1998, in

Resp. civ. e prev.

1999, 179 e ss, secondo la quale “la sottoposizione ad immissioni acustiche eccedenti la normale tollerabilità determina – a carico

(14)

 

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dei soggetti che le subiscono – una lesione della salute, in quanto il fenomeno immissivo appare idoneo, come tale, a provocare stress, fastidio, esasperazione e tensione psicologica; ne consegue che il danno biologico sarà risarcibile a prescindere dalla prova dell’esistenza di patologie e dalla dimostrazione dell’avvenuto impedimento delle manifestazioni e delle attività extralavorative non retribuite ordinarie che esprimono la salute in senso fisio-psichico”.

(31) Così Trib. Milano 1° febbraio 1993, in

Foro it.

1994, I, 1954; nello stesso senso v. Trib.

Milano 2 settembre 1993, in

Giur. it.

1994, I, 2, 886 ss., che ha ritenuto presuntivamente che la morte dell’unica figlia minorenne avesse provocato “un’alterazione dell’equilibrio mentale”

dei genitori, intesa come “difficoltà di partecipazione alle attività quotidiane e demotivazione nella vita futura”, e che pertanto avesse leso il loro diritto alla salute, suscettibile di tutela risarcitoria

ex

art. 2043 del cod. civ.

(32) Trib. Verona 13 ottobre 1989, in

Giur. it.

1990, I, 2.

(33) Trib. Savona 31 gennaio 1990 cit.

(34) App. Milano 11 ottobre 1994, in

Nuova giur. civ. comm.

1995, I, 490 e ss.

(35) In tal senso CHINDEMI,

Sulla prova del danno biologico da morte “iure proprio”

, in

Nuova giur. civ. comm.

1995, I, 494.

Sulla necessità di fornire la prova del danno all’integrità fisio-psichica, oltre alla citata App.

Milano 11 ottobre 1994, si vedano fra le altre, quanto alla giurisprudenza di merito: App.

Milano 5 luglio 1994, in

Giur. it.

1995, I, 2, 426 ss., Trib. Ascoli Piceno 27 gennaio 1995, n.

95, Trib. Torino 31 marzo 1995, in

Riv. critica dir. lavoro

1995, 1003, Pret. Jesi 12 aprile 1995, n. 136, Trib. Trento 19 maggio 1995, in

Resp. civ. e prev.

1995, 787, Trib. Ferrara 14 luglio 1995, n. 323, Trib. Firenze 9 novembre 1995, n. 2943, Trib. Firenze 26 gennaio 1996, in

Resp. civ. e prev.

1996, 589 ss., Trib. Monza 28 ottobre 1997, in

Resp. civ. e prev.

1998, 1101 e ss., Trib. Orvieto 7 novembre 1997, in

Giur. merito

1998, 214 e ss., Trib. Biella 6 febbraio 1998, in

Giur. it.

1999, 1635 e ss., Trib. Ferrara 29 giugno 1998, n. 472 cit., Trib.

Piacenza 13 giugno 1999 cit., Trib. Milano 20 settembre 1999 cit., nonché Trib. Bolzano 27 luglio 1998, n. 576, in

Riv. giur. circ. e trasp.

1999, 347 e ss., secondo cui i congiunti di persona deceduta in conseguenza dell’altrui atto illecito hanno diritto al risarcimento del danno biologico subito a seguito dell’evento luttuoso purchè dimostrino: a) l’effettiva sussistenza di una patologia psichica o fisica; b) l’effettiva sussistenza di un valido nesso causale tra la morte del congiunto e l’insorgenza della malattia in senso medico legale.

(36) In

Guida al Diritto

, 1998, 45, 68 e ss e in

Giust. civ.

1998, I, 2716 e ss.

(37) Così Cass. 3 febbraio 1999, n. 911 cit. Nello stesso senso v. Cass. 6 maggio 1988, n.

3367 cit., secondo la quale “la sussistenza del danno biologico è rettamente esclusa nel caso di attività rumorosa eccedente la normale tollerabilità, ove manchi la prova che essa abbia comportato una effettiva lesione della salute”.

(38) Cass., sez. lav., 24 marzo 1998, n. 3131 cit.

Nel senso che il danno alla salute psicofisica è risarcibile solo se adeguatamente provato, cfr.

altresì, fra le sentenze più recenti della S.C.: Cass., sez. lav., 18 aprile 1996, n. 3686 cit., Cass.

29 maggio 1996, n. 4991, in

Danno e responsabilità

1996, 41 e ss., che, richiamando la decisione n. 372 del 1994 della Corte costituzionale, ha affermato che “la configurabilità di un danno fisio-psichico che i figli possano aver subito in conseguenza della morte del genitore non è dubitabile in via di ipotesi”, aggiungendo tuttavia che tale danno deve essere provato, nonché

(15)

 

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15

Cass. 30 ottobre 1998, n. 10896, che ha ribadito la contrarietà della cassazione al risarcimento

in re ipsa

del danno biologico.

(39) Così Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372 cit. Si vedano inoltre, fra le sentenze successive alla pronuncia della Corte costituzionale che, nonostante l’affermazione del principio riportato nel testo, non hanno ritenuto di adeguarsi a tale orientamento: Trib. Treviso 27 dicembre 1994, in

Resp. civ. e prev.

1995, 617, la quale, ritenendo non vincolante la predetta decisione della Corte (trattandosi di sentenza interpretativa di rigetto) ed affermando di non condividere l’orientamento dalla stessa espresso (peraltro solo in via incidentale) con la menzionata pronuncia, ha riconosciuto in capo ai congiunti della vittima deceduta (moglie e figli minori) il risarcimento del danno biologico

iure proprio

sotto l’aspetto della mera totale soppressione del rapporto familiare fra il defunto ed i congiunti medesimi, da considerarsi autonomo e distinto rispetto al danno morale, in quanto prescinde dalla sofferenza dei superstiti, nonché Trib.

Napoli 28 dicembre 1995, in

Resp. civ. e prev.

1996, 993, secondo cui, in caso di decesso immediato della vittima, il danno biologico spetta

iure proprio

ai congiunti legati da un rapporto familiare connotato dalla sussistenza di diritti-doveri reciproci, “la mera soppressione di tale rapporto comportando una modificazione peggiorativa della qualità della vita dei familiari stessi”.

In dottrina v. BUSNELLI,

Figure controverse di danno alla persona nella recente evoluzione giurisprudenziale

, in

Resp. civ.

, 1990, 469, il quale afferma che “un danno biologico da morte (rectius alla salute), correttamente distinguibile dal danno morale e complementare rispetto a quest’ultimo, può invece essere legittimamente risarcito a un congiunto della vittima, quando si riesca a dimostrare che l’evento mortale ha provocato un danno alla salute psichica suscettibile di valutazione economica, e non riconducibile nei termini generici ed ambigui di un c.d. danno alla vita di relazione”. Sulla stessa linea si collocano, con varie sfumature, ma tutti insistendo sulla necessità di una prova rigorosa del danno subito dai congiunti: PONZANELLI,

La Corte costituzionale e il danno da morte

, in

Foro it.

1994, I, 3297, GIAMBELLI GALLOTTI,

Danno biologico da uccisione. Le ragioni di un equivoco

, in

Giur. Merito

, I, 1990, 371, secondo il quale il danno biologico da morte, per quanto teoricamente configurabile in capo ai familiari della vittima, non può ritenersi un imprescindibile effetto dell’evento letale, nè può identificarsi con la sola lesione di una situazione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento, ma va concretamente dimostrato come reale conseguenza, sul piano funzionale, del trauma psichico patito dai prossimi congiunti del defunto, nonchè ALPA,

Lesione del diritto alla vita e danno biologico da morte

, in

Nuova giur. civ. comm.

1995, II, 153; v. inoltre CENDON, GAUDINO e ZIVIZ,

Responsabilità civile

, in

Riv. trim. dir. e proc. civ.

1991, 1013, i quali ritengono che il danno in questione debba essere rinvenuto in una vera e propria malattia psichica, che influisce sulle estrinsecazioni quotidiane e non in un peggioramento della qualità della vita che si riflette in un’alterazione psichica, per evitare che possa configurarsi come danno biologico qualsiasi compromissione dell’equilibrio personale, con il risultato di espandere a dismisura la

“latitudine” del danno biologico risarcibile.

Alcuni autori si sono chiesti, alla luce delle soluzioni proposte in questi anni dalla dottrina e dalla giurisprudenza, se il quadro dei danni da uccisione risarcibili

iure proprio

possa oggi essere considerato soddisfacente. Si è osservato infatti che se non si riesce a dimostrare la sussistenza di un danno alla salute e non ricorrono i presupposti per la liquidazione del danno

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morale (si pensi ad esempio al caso in cui debba trovare applicazione la presunzione di cui all’art. 2054, co. 2, del cod. civ.), il fatto storico della perdita di un parente stretto rischia di rimanere senza conseguenze risarcitorie (BONA,

Danni tanatologici non pecuniari

iure successionis

e

iure proprio

: vecchi e nuovi rompicapi dal risarcimento della perdita della vita al danno esistenziale da uccisione

, in

Giur. it.

1999, 1645). A fronte di tali difficoltà per i congiunti del defunto ad essere risarciti

iure proprio

e delle lacune esistenti a livello sistematico, si è proposto in giurisprudenza, sulla scorta delle prospettazioni di una parte della dottrina, di tutelare i diritti risarcitori delle vittime riflesse ricorrendo ad una nuova figura, il danno esistenziale (v. Trib. Torino 8 agosto 1995, in

Resp. civ e prev.

1996, 282 ss.). Si tratta della costruzione di “una nuova categoria di danno risarcibile, all’interno della quale convogliare il pregiudizio corrispondente alla modificazione peggiorativa della sfera personale del soggetto, vista come insieme di attività attraverso le quali egli realizza la propria individualità” e che possono essere raggruppate in una serie di settori distinti, i quali riguardano: a) le attività biologico-sussistenziali; b) le relazioni affettivo-familiari; c) i rapporti sociali; d) le attività di carattere culturale e religioso; e) gli svaghi e i divertimenti (ZIVIZ,

La tutela risarcitoria della persona - Danno morale e danno esistenziale

, Milano 1999, 417). La giustificazione teorica del danno esistenziale viene individuata, sulla scorta dell’insegnamento della sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale, nella lettura costituzionale dell’art. 2043 del cod. civ. e più precisamente nel collegamento instaurato fra l’ingiustizia del danno e la violazione delle posizioni soggettive costituzionalmente protette (BONA,

Op. cit.

, 1646; in linea con quanto rilevato da quest’ultimo v. inoltre ZIVIZ,

Il danno non patrimoniale dei congiunti nell’esperienza delle corti

, in

Resp. civ. e prev.

1994, 379 e s., la quale ritiene che il fondamento teorico del danno esistenziale debba essere individuato nella lettura costituzionale degli artt. 2043 e 2059 del cod. civ. ed osserva che “laddove scopo fondamentale della carta costituzionale appare il perseguimento dello sviluppo della persona umana, apparirebbe illegittima qualsiasi restrizione riguardante la piena salvaguardia - anche sul piano risarcitorio - delle attività attraverso le quali il soggetto realizza la propria individualità”: “in definitiva, il danno esistenziale risulterà risarcibile ex art. 2043 c.c.”, “senza che si applichi alcuna limitazione al risarcimento”; sul danno esistenziale si vedano altresì MONATERI e BONA,

Il danno alla persona

, Padova 1998, e da ultimo CENDON e ZIVIZ (a cura di),

Il danno esistenziale

, Milano 2000). Quanto al rapporto fra il danno esistenziale ed il danno biologico, alcuni autori osservano che quest’ultimo “rappresenta il prototipo del danno esistenziale”, all’interno del quale andrà collocato come “sottocategoria a sé”, in quanto “ad essere prese in considerazione, sul piano risarcitorio, sono sempre le conseguenze esistenziali negative subite dal soggetto leso, sia che venga in gioco la lesione della salute che la violazione di altri interessi direttamente incidenti sulla sfera personale” (ZIVIZ,

La tutela risarcitoria

cit., 422 e s.). Altri rilevano invece che il danno biologico deve essere tenuto distinto dal danno esistenziale, in ragione della sua matrice medico-legale (MONATERI, BONA e OLIVA,

Il nuovo danno alla persona

, Milano 1999, 22).

Per ZIVIZ (

La tutela risarcitoria

cit., 423 e s.) l’inserimento nel sistema di una categoria quale quella del danno esistenziale è destinato a ridimensionare fortemente il ruolo del danno psichico: “poiché le alterazioni esistenziali e il peggioramento della qualità della vita provocate dall’illecito appaiono destinate a confluire nella nuova categoria, non sarà necessario che alle stesse venga attribuito – come ha fatto spesso la giurisprudenza – il ruolo di fattori incidenti

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sulla sfera psichica del soggetto, tali da determinare un danno psichico. La compromissione della sfera esistenziale rileva, cioè, in quanto tale – a prescindere dagli eventuali effetti negativi sull’equilibrio mentale della vittima”. Pertanto, “il problema del risarcimento di un danno psichico” “verrà a porsi esclusivamente nelle ipotesi in cui sia identificabile un evento dannoso tale da incidere sulla salute psichica della vittima”, sempre che sussistano il requisito dell’ingiustizia del danno ed il nesso di causalità fra la condotta del danneggiante e la lesione della psiche del danneggiato.

La categoria del danno esistenziale è stata oggetto di critiche in dottrina sotto vari profili (fra gli altri v. NAVARRETTA,

Diritti inviolabili e risarcimento del danno

, Torino 1997, in particolare 287, 313 e s.) ed è stata recepita da alcuni giudici anche con riferimento a fattispecie diverse da quella esaminata da Trib. Torino cit. (v. Trib. Verona 26 febbraio 1996, in

Dir.informazione e informatica

1996, 576, Giud. di Pace Casamassima 10 giugno 1999, in

Arch. giur. circ. e sinistri stradali

1999, 724).

(40) V. Trib. Milano 10 dicembre 1992, in

Resp. civ. prev.

1993, 995 e ss., nonchè Trib.

Latina 1° agosto 1994, in

Giur. it.

1995, I, 2, 426 e ss.

(41) Così GIANNINI e POGLIANI,

Op. cit.,

179; sui criteri per l’accertamento del nesso di causalità v. CASTIGLIONI,

Il problema del nesso di causalità materiale

, in BRONDOLO, MARIGLIANO ed altri,

Danno psichico

, Milano 1996; sulla questione della valutazione del danno biologico di tipo psichico v. inoltre la sintetica ma chiara esposizione di GIANNINI e POGLIANI, in

Op. cit.

, 180 e 181 ed i riferimenti dottrinali ivi richiamati.

(42) Cfr. App. Milano 5 luglio 1994 cit., nonchè Trib. Latina 1° agosto 1994 cit.

(43) Si legga ad esempio BUSNELLI,

Tre punti esclamativi, tre punti interrogativi, un punto a capo

, in

Giust. civ.

1994, I, 3034 e ss.

(44) Così rileva esattamente CATALDI,

Op. cit.

, 643.

(45) Cfr. Cass. 29 maggio 1996, n. 4991 cit., Cass. 20 giugno 1997, n. 5530, App. Milano 5 luglio 1994 cit., Trib. Firenze 10 dicembre 1994, in

Resp. civ. e prev.

1995, 159 ss., Trib.

Torino 31 marzo 1995 cit., Trib. Firenze 9 novembre 1995 cit., Trib. Firenze 26 gennaio 1996 cit., Trib. Monza 28 ottobre 1997 cit.

(46) DE MARZO,

Brevi note sulla nozione di danno psichico

, in

Foro it.

1996, I, 2966, pubblicata in calce a Corte cost. ord. 22 luglio 1996, n. 293. Non si può neppure affermare che l’esclusione della possibilità di configurare un danno psichico non permanente costituisca un “dato acquisito nella scienza medico-legale, nella quale viceversa si registrano forti perplessità sullo stesso concetto della permanenza del danno nell’ambito psichiatrico, sia per le notevoli capacità di adattamento e recupero della psiche, sia per la perenne evoluzione della componente psichica della salute umana” (CATALDI,

Op. cit.

643; v. inoltre i riferimenti dottrinali riportati dall’Autore nella nota 13 del suo scritto).

(47) Così Trib. Orvieto 7 novembre 1997 cit. Si veda inoltre Cass. 29 novembre 1999, n.

13340, la quale sembra ritenere ammissibile la figura del danno psichico temporaneo, laddove afferma (in motivazione) che “il danno biologico non deve essere sempre conseguente a postumi permanenti ma può essere riconosciuto anche a seguito di lesioni fisiche comportanti uno stress psicologico”.

(48) Trib. Torino 16 novembre 1999 e Trib. Torino 30 dicembre 1999 cit.

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(49) La decisione di non ricorrere ad una c.t.u. è stata ritenuta corretta da BONA e OLIVA, nel commento cit., 413, in quanto, “a fronte del carattere temporaneo delle lesioni subite dalle vittime, delle prove testimoniali sulla durata delle patologie e dei documenti clinici prodotti dalle ricorrenti nei giudizi in questione, sarebbe stato invero superfluo ricercare ulteriori conferme nella consulenza di un esperto”. Gli A. hanno pure condiviso il ricorso al criterio equitativo puro per la quantificazione del danno, che per tale via è stato liquidato nella misura di lire 10.000.000 (oltre interessi) in ciascuno dei due casi.

Più in generale, quanto alle prove utilizzabili per dimostrare l’esistenza del danno biologico di tipo psichico, vi è chi rileva, contrariamente a quanto sostenuto da altri, che la produzione di documentazione clinica non può costituire una

condicio sine qua non

per il risarcimento del danno psichico ed osserva che spesso sarà quanto mai opportuno provare, anche per testi, che il soggetto ha modificato

in peius

il suo modo di atteggiarsi verso i familiari e, più in generale, verso i terzi, oppure che ha sviluppato rituali ossessivi o manifesta fobie o paure, od altro.

Secondo tale impostazione, “se vengono provati testimonialmente questi riflessi sulla vita quotidiana della vittima, non dovrebbero sussistere problemi al risarcimento del danno psichico, anche quando manchi del tutto una documentazione clinica”. La difficoltà, si osserva ancora,

“sarà quella di formulare capi di prova che non siano tacciati di essere troppo valutativi”; una volta però che “si richieda di descrivere oggettivamente come è variato il modo di atteggiarsi di un soggetto verso la famiglia o la vita dopo un certo evento lesivo, oppure quali fobie sia venuto a sviluppare”, dichiarare i capi di prova inammissibili “significherebbe in buona sostanza impedire alla vittima di provare le sue lesioni” (così AMBROSIO e BONA,

Danno psichico e tutela della vittima

, in

Tagete

2000, 2, 78 e s.).

(50) Così GIANNINI e POGLIANI,

Op. cit.

, 187.

(51) DE MARZO,

Op. loc. ult. cit.

(52) BONA,

Op. cit.,

1636 e ss.; cfr. altresì BONA e OLIVA, Commento alle decisioni del Tribunale di Torino cit., 412.

(53) Così CATALDI,

Op. cit.

644. V. inoltre PELLECCHIA,

Op. cit.

897 e s., la quale evidenzia l’essenzialità del contributo dei medici psichiatri quanto alla distinzione fra il lutto, che svolge una funzione fisiologica fondamentale (di natura “protettiva ed adattiva”) e la “tristezza patologica”, la depressione come malattia determinata dalla perdita della persona cara, che “è una ferita che non riesce a rimarginarsi”. A tale proposito sarà necessario verificare in primo luogo se si tratti di depressione autentica o simulata, quale fosse il rapporto tra stimolo dannoso e reattività individuale, e quale fosse, infine, lo stato di salute mentale preesistente. Sulla stessa linea si pone ZIVIZ,

La tutela risarcitoria

cit., 396 (v. anche

supra

, nota 39), la quale rileva che di danno psichico potrà parlarsi esclusivamente laddove venga accertata l’esistenza di una vera e propria malattia ed aggiunge che il compito di stabilire che cosa si debba intendere per patologia mentale spetterà alla scienza medica.

Contra

, nel senso che “anche se la lesione non ammontasse ad un livello patologicamente rilevante, ma vi fosse un turbamento giuridicamente rilevante, il danno psichico sarebbe di per sé risarcibile”, posto che “tale concetto giuridico, senza peraltro identificarsi con quello di patema d’animo rilevante ai fini del danno morale, sottende l’idea delle conseguenze deprimenti normalmente derivanti dalla lesione dei diritti fondamentali”, MONATERI,

La responsabilità civile

, in

Tratt. dir. civ.

diretto da Sacco, Torino 1998, 301 e s.

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