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A cura di Marialivia Brunelli, 13 21 maggio

La mostra Vestigia umane analizza il tema del ritratto nelle opere dell’italo-bosniaco Tarik Berber. Il punto di partenza dei suoi lavori sono i ritratti dal vero di amici, conoscenti, donne, anziani, tutti osservati e indagati nelle loro solitudini interiori, spesso deformati per evidenziarne i valori espressivi ed emozionali, fino ad arrivare all’Autoritratto del 2006, in costume seicentesco, in cui Berber rende “contemporaneamente la staticità di una smorfia ma anche il movimento rotatorio che la produce e insieme la contiene. Fermezza e dinamicità”88.

Nella sua pittura suggestiva e materica, Berber sembra voler cogliere l’anima più profonda delle creature che ritrae: la sua ricerca figurativa, infatti, appare strettamente connessa ad una sottile indagine psicologica, resa ancor più autentica dalla capacità dell’artista di immedesimarsi con il soggetto ritratto. “Le velature, gli sgocciolamenti e i rilievi pastosi di colore che compongono e circondano questi enormi volti dagli occhi luminosi ma morenti dei quadri di Berber”89 sembrano interrogarsi su uno dei più spinosi dilemmi esistenziali:

apparire o essere. Le sue donne-quadro che spuntano ovunque raccontano bellezza e mistero, come se la realtà venisse rivisitata e rielaborata in visioni-altre.

Nelle sue tele “ansie seicentesche della scuola caravaggesca, [...] espressionismo tedesco del secolo scorso”90, oltre ad una decisiva influenza esercitata dalle ricerche sulla luce

dei fiamminghi, delineano un codice estetico del tutto personale che permette all’artista di creare drammatici contrasti tra i fondi scuri, percorsi da improvvisi bagliori e i volti solitari, malinconici e allucinati resi con pennellate rapide e grumose. Così se “in alcuni casi due larghe pennellate di rosso squillante, come in Giano5, bucano la vista […]. Nelle diverse versioni dei ritratti demoniaci - da Mephisto ai Dr. Faust - la pittura berberiana sfiora l’iconoclastia […]. Il demone è ritratto come fosse da offrire alla furia iconoclasta. Ed anzi l’immagine sembra quasi uno still-life dell’attimo stesso in cui la distruzione si sta compiendo”91. Questa “furia distruttiva” che mira al disfacimento della pastosa materia

cromatica sia nei contorni per “sgocciolamento”, sia nella descrizione delle ombre interne al volto, rappresenta la cifra distintiva di Berber. Cifra con la quale egli si accosta ai più diversi soggetti, senza escludere i volti femminili e i numerosi ritratti di Modella che vengono cosi 88 P. MANAZZA, Tarik Berber: l’Espressionismo dei Balcani, in M. BRUNELLI (a cura di), Tarik Berber: vestigia umane,

catalogo della mostra, Stra, Museo Nazionale di Villa Pisani, 2006, s. p. 89 Ibidem

90 Ibidem 91 Ibidem

trasfigurati dal pittore, pronto a seguire i propri fantasmi interiori, conferendo a queste immagini connotazioni talvolta mitologiche e letterarie. “È il concetto di atto distruttivo come atto creativo che il pittore ammette di aver ereditato da una lettura attenta e meditata di artisti che considera dei capisaldi nella sua formazione, come Picasso, Burri, Vacchi, ma anche Bacon e Modigliani”92.

“Quando ritraggo qualcuno - confessa l’artista - c’è sempre un momento in cui la persona che sto disegnando si distrae: prima cerca di stare ferma, immobile, poi prende il sopravvento la sua interiorità, e chi ho davanti per un attimo si assenta dentro se stesso, si perde nei suoi pensieri, nel suo mondo. È in quell’attimo, in quel preciso attimo in cui si perde, che tu lo ritrovi. Quel decisivo momento di stallo in cui l’essenza di un individuo ti si manifesta nella sua verità più intima: è questo l’istante che cerco di fermare sulla tela”93.

Ecco allora che, “come impronte di visi che emergono da sudari antichi, i volti dipinti da Tarik Berber hanno l’inquietante fissità delle icone trecentesche, ma rapiscono lo spettatore per la mobile profondità dei loro sguardi intensi. Sguardi come proiettili, come lance, che vincono la nebbia del tempo, a testimoniare un vitalismo e un attaccamento all’esistenza sentito come necessario, anche nelle condizioni più tragiche”94.

È il “naturalismo spettrale”, definito da Alberto Savinio nel 1918 in “Valori Plastici”95 cui

ricorre la stessa curatrice, proponendolo come chiave di lettura dell’artista, che può ben rappresentare queste presenze “accartocciate e corrose”, malinconiche, consumate nella materia ma intatte nello spirito, evocative certo di una nazione sconvolta dal dramma di conflitti devastanti, ma che lo stesso Berber preferisce ricondurre alla dimensione più 92 M. BRUNELLI, Le vestigia umane di Tarik Berber, in M. BRUNELLI (a cura), Tarik Berber: vestigia umane, 2006, op.

cit., s. p.

93 intervista all’artista, in A Villa Pisani i quadri di Berber, da “Il Gazzettino”, Ed. Venezia, 16 - 05 - 2006, p. 18. 94 M. BRUNELLI, Le vestigia umane di Tarik Berber, 2006, op. cit., s. p.

95 A. SAVINIO, (pseudonimo di Andrea De Chirico) in “Valori Plastici”, rivista di critica d’arte, edita dal 1918 al 1922, Roma, 15 novembre 1918.

universale dell’uomo moderno.

Dunque non più volti, individui, “ma larve, fantasmi, vestigia umane, gli evanescenti personaggi raffigurati da Berber ci osservano con una insistenza sfacciata e cruda, ma da una lontananza che avvertiamo come impolverata e impalpabile. Ognuno di essi ha una coscienza propria, un pensiero fisso. Ognuno di essi è preda di demoni che ne hanno logorato l’imago, lasciando però intatto lo sguardo: uno sguardo eloquente, carico di dramma, di pathos”96, mai banale, ma sempre dignitoso nella sua dolorosa solitudine.

BIOGRAFIA

Nato a Banjaluka (Bosnia) nel 1980, ma trasferitosi undicenne a Bolzano, Berber prosegue gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, laureandosi in Pittura con il Prof Adriano Bimbi97.

A Firenze, gli insegnamenti sulla ricerca del colore di Cennini e la fascinazione per gli affreschi del primo Rinascimento fiorentino, di Masaccio in particolare, uniti a una paziente ricerca di sperimentazione sui materiali, imprimono alle sue tele la suggestiva matericità della pittura murale. L’olio acquista sempre più spessore, tanto da incresparsi e divenire materia “magmatica”. D’altro canto il procedimento creativo che sta all’origine del suo lavoro, per Berber ha inizio molto prima della vera e propria stesura del colore. Enormi lembi di tela grezza vengono stesi sul pavimento dello studio dove rimangono per mesi finchè si ultimano altri dipinti.

Queste tele assorbono lo scorrere degli eventi, la quotidianità dell’artista, accogliendo un sostrato fatto di polvere, e schizzi di colore. Berber dunque inizia a dipingere su tele che già raccontano una storia. Su questo sostrato primigenio una attenta preparazione del supporto con stucchi, patine, colle, sabbie e carte permette all’artista di ottenere effetti che simulano il trascorrere del tempo, la superficie appare rugosa, crepata e consumata da secoli di invecchiamento. Ulteriori colature, macchie, corpose pennellate di colore contribuiscono a creare una irruente atmosfera di caos all’interno di “composizioni troppo definite e compiaciute, cancellando elementi avvertiti come eccessivamente graziosi a favore di effetti più drammaticamente affascinanti. È il concetto di atto distruttivo come atto creativo”98.

Una battaglia continua, quindi, tra disordine e ordine consapevole, “tra prepotenza e posatezza, tra barbarie e poesia che è riflesso di un’esperienza personale fatta di culture, 96 M. BRUNELLI, Le vestigia umane di Tarik Berber, 2006, op. cit., s. p.

97 da tarikberber.tumblr.com/Biografia%20 [online].

tradizioni e storie diverse”99.

Nelle tele di questo artista infatti una commistione di temi biblici e mitologici, immagini mutuate dalla tradizione dell’iconografia artistica italiana, presenze dai tratti somatici esotici e occidentali insieme, sguardi carichi di gravità emotiva e conflittualità

interiore descrivono un’umanità enigmatica, talvolta demoniaca e profondamente eterogenea. Berber già prima di trasferirsi a Firenze per gli studi accademici riceve importanti riconoscimenti e attestati di stima, iniziando, non ancora ventenne, ad esporre in diverse rassegne collettive: nel 2004 in occasione dell’inaugurazione del nuovo Museo di Arte Contemporanea di Isernia, MACI, è il più giovane artista invitato ad esporre nella collettiva L’arte in testa invitato dal curatore Luca Beatrice e presenta “una figura colta in primo piano, permeata da un’aurea sacrale, di stampo espressionista, che calamita l’attenzione di critica e pubblico”100. Sempre nel 2004 è invitato a Roma ad esporre alla II Biennale di Arte

Contemporanea InTranSito. Da allora numerosi sono gli allestimenti di mostre personali oltre a importanti riconoscimenti e partecipazioni a rassegne di carattere internazionale.

99 da tarikberber.tumblr.com/Biografia%20 [online].

100 P. MANAZZA, Tarik Berber: l’Espressionismo dei Balcani, 2006, op. cit., s. p.