• Non ci sono risultati.

30 maggio 28 giugno

Mostra realizzata in collaborazione con lo studio Stefania Miscetti di Roma

Per le sale settecentesche del Museo Nazionale di Villa Pisani la vicentina Manuela Filiaci presenta una nuova installazione dal ciclo The boxcase e una serie di lavori su tela e rotoli di carta di grandi dimensioni che riflettono l’idea e il senso di transitorietà insito nella nostra vita.

Le composizioni chiamate Warped Geometry appartengono agli anni Ottanta. Filiaci realizza questi lavori impregnando dei fogli porosi con colori ad olio; quando i fogli assumono la consistenza di una tela, li elabora con forme arcaiche, geometriche, di ispirazione africana o fitte reti di linee e colore capaci di evocare un reticolo di venature o tessuti dell’epidermide. Le carte sono arrotolate assieme e mostrano solo una piccola parte della loro superficie: le immagini rimangono all’interno del rotolo che, chiuso come un “bozzolo”, cela una oscura vita interiore. Questa pittura avvolta e “ripiegata” di immagini mute sembra sigillare un segreto, sentimenti e presenze che con esso sono stati evocati spariscono e diventano mistero.

Con questi lavori l’artista indaga il tema delle stratificazioni e delle pieghe dell’animo e della memoria attraverso una gestualità “quotidiana”, un processo semplice e intuitivo: “Ogni più piccolo gesto può diventare il punto di partenza per una grande costruzione del pensiero.[…] Filiaci osserva ciò che è più comune e da cui crea immagini che hanno una presenza e un’armonia così forti, che davanti ad esse si rimane alle volte spaventati, come colpiti da un lampo”153. Il fatto di custodire un dipinto non visibile sembra conferire a questi

rotoli chiusi una energia che si sprigiona tutt’intorno: “la cosa che avvolge qualcos’altro determina se ciò che è avvolto è ‘nulla’, puro vuoto e buio, oppure se proprio questo buio è probabilmente il terreno vitale per un altro mondo massimamente esistente”154. Nell’opera

di Filiaci il meccanismo e l’audacia dei grandi rotoli successivi e delle Boxes possono essere compresi solo alla luce di questi lavori dei primi anni Ottanta racchiusi come bozzoli. I grandi lavori di carta di Filiaci, dal forte potere evocativo, sono rotoli che si dispiegano sulla parete e, rivestiti da spessi strati dipinti con colori ad olio, fluiscono lungo il pavimento dominando tutta la stanza. Da questi strati emergono una serie di presenze: “Si tratta - dice l’artista - di presenze che non vogliono disturbare lo spazio e il silenzio. Appaiono ma potrebbero anche sparire, e nel loro stato sospeso effondono una dimensione 153 D. VON DRATEN, Manuela Filiaci, Milano, Charta, 2009, p. 14.

pittorica”155. Gli strati, luoghi di luce ed ombra che si compenetrano, creano una profondità

ondeggiante tale da confondere “l’ordine della nostre abituali strutture di superficie di spazio e tempo”156. Nei dipinti di Filiaci le stratificazioni modificano l’abituale incrocio

di assi, verticale ed orizzontale, dichiarando così che la pittura può definire uno spazio, narrare un racconto, riflettere uno stato emotivo trasformando “uno stato d’animo umano in forme figurative”157.

Solitude (2000) è il titolo di un dipinto su un rotolo di carta, largo circa un metro e alto

quasi due. Fasce cromatiche come orizzonti definiscono i margini superiore ed inferiore e delimitano una zona centrale gialla; e sopra questa uno strato di rosso semitrasparente. Come diagrammi, intermedi tra forma e idea, compaiono dallo strato rosso file di archi, e non si può escludere che in uno strato più profondo si dipani un ulteriore labirinto di archi. Filiaci non evoca immagini, ma rappresentazioni, o ricordi di esse. Parimenti in Archeology (1997) il filtro della memoria scompone le forme dei ricordi e ci rimanda impressioni, esempi schematici, sagome prive di proporzione che emergono da una distesa di blu profondo e contorto: quasi “uno spazio onirico per metà sommerso e per metà di nuovo emerso”158. Sul fondo del rotolo adagiato

sul pavimento il retro è dipinto con accesi accordi cromatici di giallo e verde che, lasciando intuire un mondo totalmente differente, rivelano un seguito per questo quadro-infinito. È “come se ci fosse una pelle esterna che potesse schermare il quadro interno e la sua realtà dal mondo che lo circonda”159.

Si svela così il gioco interno al dipinto, che coinvolge lo spettatore con tutta la sua forza illusoria. Ognuna di queste opere diventa un palcoscenico, una scenografia di uno spazio indefinito, fatto di accumulazioni di colore che si compenetrano, dove le forme emergono come rivelazioni per poi sparire lasciando il posto ad altro, creando la trama di uno spazio. Così anche in Stop is Not a Conclusion (1995) dove da una gaia superficie gialla erompe improvvisa una fiamma angosciante. Lo spettatore è turbato, confuso e disorientato.

Negli anni Novanta questi inserti di colore improvvisi e drammatici, fiamme, brandelli 155 intervista all’artista, in D. VON DRATEN, Manuela Filiaci, 2009, op. cit., p. 45.

156 D. VON DRATEN, Manuela Filiaci, 2009, op. cit., p. 9. 157 Ibidem

158 D. VON DRATEN, Manuela Filiaci, 2009, op. cit., p. 10. 159 Ivi, p. 11.

di nuvole - inquietante mondo di forme che permea le opere degli anni Ottanta - sono sempre meno frequenti e tendono a scomparire. Essence of Gravity (1995) si espande in una dimensione orizzontale. Una pennellata rapida lo percorre come attraversato da un intenso flusso di energia. Nello spazio che sembra un contenitore di tempo i colori si ripetono seguendo un andamento ciclico che alterna toni scuri e notturni a toni luminosi e cangianti. Questo spazio sembra mostrare “un circolo di momenti bui e luminosi, ma anche seppellire l’idea di un ancoraggio al suolo per mezzo di gravitazione”160. Su questa

superficie Filiaci traccia dei volumi bianchi, sagome ondeggianti descritte a pastello, che sembrano opporsi all’accelerata sequenza temporale, dare un sostegno all’intero spazio e far sì che questo spazio privo di orizzonti possa esistere. È “l’idea che proprio nella fluttuazione, nel non fisso, nel cambiamento in permanente divenire si possa cercare l’essenza di un ordine”161.

Nei dipinti che Filiaci realizza dal 2005 con colori ad olio su tela lo spettatore è completamente assorbito nella realtà pittorica che ha il potere di scomporre e poi ristabilire le nostre abitudini di percezione. In C’era una poesia di Enzensberger (2006) gli oggetti - volumi di luce e buio che si affrontano - emergono trasportati da strati di non materia che suggeriscono una dimensione di profondità, una stratificazione spaziale priva di orizzonte alla quale questi volumi sembra vogliano sostituirsi. Qualcosa di simile accade in Contamination (2006-2007), uno spazio in cui Filiaci dipinge strati di diversa luce e intensità. Sono fasce, linee di orizzonte che si moltiplicano e si scontrano dando vita con i loro contrasti cromatici alla percezione di diversi livelli di densità. Si crea “una sorta di spazio nebuloso”162 e immateriale in cui una

costruzione che all’improvviso compare non può che sprofondare.

In questi dipinti di Filiaci le elaborazioni figurative danno vita ad un mondo immaginifico animato da volumi fluttuanti che emergono dallo spazio e da illusioni di spazi indefiniti come in Gravity (2007) o Something Absent (2000). Filiaci quindi gioca con la sua abilità intuitiva, agendo sui diversi livelli sensoriali della percezione e arriva ad accostare in perfetta armonia figure geometriche e organiche, mondi di oggetti costruiti e forme cresciute come in Transition (2006). Queste “presenze sembrano 160 Ivi, p. 12.

161 Ibidem

162 D. VON DRATEN, Manuela Filiaci, 2009, op. cit., p. 15.

dialogare l’una con l’altra, proprio come tre parti viventi di uno stesso essere, che si incontrano. […], nello spazio che in Transition si espande tra i disegni, gli oggetti hanno la funzione di catalizzatori; le loro presenze, che sono legate in una stratificazione temporale, fanno di questa il tema effettivo. Lo spazio […] irretisce i disegni nel costante passaggio tra esseri che si alternano, ognuno di essi è già contenuto in quello che lo precede. ”163.

Un’opera che proprio nella sua complessità rispecchia, per Filiaci, un momento di difficoltà dell’anima.

Questa idea dell’oggetto contenuto in un altro oggetto, metafora dell’uomo e del suo essere nel mondo, si esprime con particolare forza in una serie di opere chiamate Boxes: un caleidoscopio di forme tridimensionali fatto di scatole e cesti colorati. Alcuni sono oggetti di recupero, altri prodotti industriali. Filiaci ricopre di gesso le superfici delle scatole che poi dipinge con vari motivi figurativi, diversi per ogni faccia, realizzando un vasto puzzle di superfici dipinte che possono trasformarsi di continuo. Similmente a Warped Geometry anche le Boxes sono dei contenitori, ma mentre le prime rappresentano una rinuncia ad esprimersi, quasi un occultamento del dolore, le Boxes ”esprimono un’allegria giocosa. Io plasmo uno spazio nascosto che, proprio come il contappunto musicale, tiene insieme le forme sulla superficie”164 afferma Filiaci. Rispetto alla carta arrotolata, però, nelle Boxes

ciò che conta è solo quanto accade nella superficie del dipinto, tutto è rinviato all’esterno.

The boxcase esposta a Villa Pisani è un’anti-libreria affollata di scatole di cartone, dipinte

una ad una, cui fanno eco altre scatole - altrettanto cromatiche - fuse nel bronzo, che al tatto producono suoni.

Le Boxes per l’artista sono un altro strumento, accanto alle tele e ai rotoli di grandi dimensioni, per indagare in maniera diversa il vocabolario dei segni. Secondo Filiaci “dato che hanno sei lati, appena vengono girate appare un altro aspetto, e nulla si può determinare del tutto. Ad esempio se compongo le scatole in modo da formare una narrazione, mi basta girarne una per arrivare a vedere un’immagine totalmente nuova. Anche questo aspetto secondo me si può paragonare al linguaggio, a quei momenti in cui formuliamo pensieri in parole e 163 Ivi, p. 22.

164 Intervista all’artista, in D. VON DRATEN, Manuela Filiaci, 2009, op. cit., p. 48.

Real Cubism (Home), 1990-1992,

all’improvviso il flusso della conversazione è disturbato, sviato da un lapsus, un termine un’idea […], un nuovo pensiero può alterare in modo inaspettato l’intera trama di parole, […] il precario spazio intermedio della consapevolezza in cui possono concretarsi scoperte e sorprese”165.

BIOGRAFIA

Manuela Filiaci nasce a Vicenza nel 1945. Trasferitasi a New York, sin dagli anni Ottanta partecipa attivamente alla scena artistica della città. Espone in varie gallerie e collabora come consulente artistica, disegnatrice di set teatrali e costumi in tre produzioni per il teatro “La Mama” e il Summer Lincoln Center Out Door Festival. Dal 1979 al 1988 lavora come curatrice a Parallel Window, spazio in cui vengono presentati artisti di varie nazionalità.

A New York studia alla School of Visual Arts nel periodo del minimalismo e del post- minimalismo maturando una ricerca creativa che evolve entro le dimensioni di spazio e tempo, memoria e luoghi. L’esperienza newyorkese è molto importante proprio come quella di respirare, negli anni ’80, l’atmosfera dell’East Village, prima che perdesse ogni spontaneità, diventando luogo di tendenza.

Accanto alla produzione pittorica, parte preponderante della sua ricerca, Filiaci si esprime anche con lavori tridimensionali, sculture ed assemblaggi di carta e legno, come l’opera

Real Cubism, un’installazione di scatole di cartone dipinte, presentata al Castello di Rivoli

all’interno della mostra Collezionismo a Torino nel 1996 o The boxcase nel 2000 a New York a cura di Marina Urbach.

Nel 2007 per la mostra Divagazioni a Roma allo Studio Miscetti presenta una serie di scatole in bronzo poi dipinte, fino a confonderle con quelle di cartone: peso, apparenza, equilibrio tutto è messo in gioco in una continua ricerca di spazi mentali, di stabilità che mai arriva a termine. La nuova installazione osservata a Stra, che si associa a una serie di lavori su tela e rotoli di carta di grandi dimensioni, rappresenta un ulteriore passo nel percorso creativo di quest’artista.