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L’abbandono; diversità delle motivazioni, diversità dei percorsi di recupero

Nel documento Riutilizziamo l'Italia. Report 2013 (pagine 31-37)

L’abbandono è diffusamente rappresentato – nel senso comune ma anche in buona parte della letteratura specialistica - come un fenomeno che riguarda parti determinate degli insediamenti urbani, tipicamente i centri storici montani spopolati dalla emigrazione, oppure le aree periferiche delle grandi città dove l’espansione ha inglobato attività produttive preesistenti rendendole incompatibili con i nuovi paradigmi urbani.

Il censimento del WWF dimostra che non è così; l’abbandono è una patologia che riguarda - pur in misura differente – tutte le diverse parti della città e del territorio. Sono stati segnalati edifici dismessi in zone urbane centrali e di pregio (uno si trova a due passi dal Colosseo) oppure beni storico-architettonici collocati in un territorio aperto di riconosciuta qualità paesaggistica, palazzi per uffici in location appetibili, infrastrutture abbandonate prima di essere state terminate o che, una volta terminate, non sono mai stati utilizzate.

Si tratta di un segnale preoccupante che dimostra come, in Italia, l’abbandono non sia frutto di situazioni accidentali ed episodiche bensì l’esito di processi geneticamente molto diversi ma che hanno come punto di caduta comune il moltiplicarsi di situazioni di degrado urbano e il contestuale – inarrestabile e fino ad ora irreversibile – consumo di nuovo suolo a scapito della agricoltura e della natura.

Le cause dell’abbandono e i possibili percorsi di riutilizzo saranno approfonditi in numerosi contributi nel presente rapporto, ma fin da ora è possibile accennare a quelle che il censimento WWF evidenzia come le motivazioni più ricorrenti della dismissione. Si è provato a distinguerle nella convinzione che a ragioni diverse dell’abbandono debbano corrispondere differenti terapie di riutilizzo; va premesso tuttavia che si tratta di una sistematizzazione che presenta dei limiti in

quanto l’abbandono di una data area o manufatto può essere esito di motivazioni diverse e concorrenti; in positivo, altrettanto diverse e concorrenti potranno essere le medicine.

L’ABBANDONO DI ATTESA SPECULATIVA

L’abbandono di attesa speculativa è quello in cui la proprietà punta alla sostituzione di una funzione obsoleta con funzioni più redditizie, al fine di incrementare il valore di aree o edifici in vista di una sua alienazione, oppure nella prospettiva di investirvi capitali per operazioni immobiliari.

I proprietari di queste aree sono sovente privati, ma non sono poche le realtà in cui aziende pubbliche (il censimento WWF segnala ad esempio alcuni depositi ATAC di Roma) praticano l’attesa speculativa per tentare di migliorare lo stato dei propri bilanci. Queste aree possono costituire una minaccia per il contesto circostante –collocarvi eccessive funzioni aggiuntive può ad esempio aggravare problemi di congestione e vivibilità - oppure offrire delle opportunità in quanto potrebbero al loro interno trovare spazio attrezzature pubbliche carenti nel contesto stesso. Se diverranno una minaccia od una opportunità dipenderà dalla capacità della amministrazione comunale (che esercita il potere di pianificazione, e che ha dunque la facoltà di decidere qualità e quantità degli usi futuri) nello stabilire l’equilibrio adatto, anche ascoltando le esigenze dei cittadini. L’esperienza dimostra che non è facile trovare questo equilibrio – occorrono proprietari con pretese ragionevoli, cittadini attivi e amministrazioni limpide ed efficienti – ma in ogni caso non si tratta della forma peggiore dell’abbandono, perché almeno esistono interlocutori. Certo, condizione necessaria ma non sufficiente, come testimonia il numero elevato di vertenze che si protraggono da anni.

L’ABBANDONO PER DISINTERESSE VIGILE.

L’abbandono – o comunque il sottoutilizzo - per disinteresse vigile sembra essere una patologia che riguarda soprattutto i patrimoni pubblici a vario titolo; ex aree militari, ex ferrovie, ex attrezzature pubbliche quali scuole, ospedali, mattatoi, mercati.

Si tratta di situazioni in cui il titolare del bene non opera esplicitamente in una prospettiva di attesa speculativa (talvolta per rispettare il suo ruolo istituzionale, talvolta per la scarsa appetibilità del bene), non lo usa o lo usa in maniera marginale, ma nel contempo non intende in alcun modo cederlo - i costi di gestione del bene sono infatti coperti da risorse pubbliche; tipico esempio le aree militari - neppure per soddisfare una eventuale domanda di natura sociale. Si punta in sostanza al congelamento, anche se non si può del tutto escludere una non dichiarata aspettativa di realizzi economici, alimentata dalle periodiche campagne di alienazione dei patrimoni pubblici (che come noto hanno ottenuto il solo risultato di aver venduto a basso prezzo gioielli di famiglia)

L’abbandono per disinteresse vigile è difficile da contrastare per indisponibilità di interlocuzione del titolare del bene; comuni e cittadini hanno infatti scarse possibilità di incidere su scelte che coinvolgono decisori statali o regionali. Un tema rilevante che andrebbe affrontato con una regia nazionale.

L’ABBANDONO PER INCAPACITÀ GESTIONALE, ASSOCIATA O MENO ALLA CARENZA DI RISORSE

Si tratta di una forma di abbandono che nasce da un sostanziale disinteresse per la cosa pubblica di amministrazioni ai diversi livelli, che spesso nascondono le proprie responsabilità lamentando la carente disponibilità di risorse. Si tratta – in molti casi se non in tutti – di una cortina fumogena; la realtà è che la ricerca di soldi per nuovi investimenti è ritenuta politicamente più pagante della gestione oculata di quanto già realizzato. Inaugurare è considerato più importante del gestire, e nella esperienza comune si assiste alla lenta agonia di aree verdi e parchi giochi, di arredi urbani scintillanti per pochi mesi, di attrezzature costose che man mano divengono inservibili. In altri

contesti europei una spinta fondamentale al contrasto di questa forma sottile ma inesorabile di abbandono è stata assicurata dai cittadini che si sono fatti parte attiva nella gestione di attrezzature di quartiere; in Italia non mancano esperienze in tal senso, ma sono ancora pioneristiche.

L’ABBANDONO CELATO DEGLI INVESTIMENTI PUBBLICI ERRATI

Gli investimenti pubblici errati e i conseguenti abbandoni sono purtroppo frequenti – il censimento WWF ne ha rilevati di molto significativi - ma vengono strumentalmente occultati dalle amministrazioni coinvolte per motivi di vario tipo; perché la loro emersione potrebbe ostacolare traiettorie politiche ancora in atto, per timore di essere chiamati a condividere responsabilità istituzionali imbarazzanti, per lo spettro di stimolare un (peraltro doveroso) ruolo di controllo delle autorità di controllo della spesa pubblica.

Gli investimenti pubblici errati – per il fatto stesso di essere errati – non sono riutilizzabili con facilità; sono trasformazioni che mostrano più di altre la necessità di rompere un tabù, quello del ripristino delle condizioni ex-ante con la restituzione dei suoli alle attività agricole oppure alla natura. Tabù culturalmente reso solido da cinquant’anni di continua espansione edilizia, la cui rottura pone in aggiunta il duplice problema di far sostenere al pubblico ulteriori spese (la rimessa in pristino non è mai a costo zero) e di dover motivare pubblicamente le ragioni di questa spesa aggiuntiva, esplicitando in tal modo le inevitabili responsabilità politiche ed amministrative originarie.

Gli investimenti pubblici errati sono situazioni di abbandono difficili da risolvere; un primo passo necessario sarà quello di contrastare - attraverso un loro censimento - gli ampi settori della pubblica amministrazione che vorrebbero celarne la esistenza stessa.

L’ABBANDONO PER CONVENIENZA; INQUINO E FUGGO, TORNO SOLO SE SI SPECULA.

E’ anche questa una forma di abbandono che – nella maggior parte dei casi – comporta un impiego di risorse pubbliche nelle possibili traiettorie di riuso. Interessa tipicamente aree ed edifici oggetto di attività industriali che – in assenza o in violazione di normative – hanno generato un inquinamento dei suoli (e delle acque) intenso e persistente; in buona sostanza si tratta di utilizzi che hanno lasciato conti ambientali da pagare.

Molto spesso non è più possibile richiamare i responsabili ai propri doveri (causa fallimenti, ad esempio, e successivi trasferimenti di proprietà che rendono i responsabili degli scempi giuridicamente irraggiungibili); in altri casi gli attuali proprietari – anche pubblici - sarebbero disponibili ad effettuare gli interventi di disinquinamento solo a fronte di riutilizzi speculativi (che pareggerebbero i bilanci economici ma colliderebbero con equilibrati assetti del territorio) o, in alternativa, a fronte di consistenti iniezioni di denaro pubblico da impiegare nel disinquinamento. Si tratta con tutta evidenza di situazioni dalle quali non si esce facilmente.

L’ABBANDONO PER MANCANZA DI CONVENIENZA ECONOMICA AL RIUTILIZZO

In ultimo va rammentata la forma di abbandono apparentemente più incolpevole, ma non per questo meno perniciosa; quella dei riutilizzi che non si possono fare perché non darebbero luogo a convenienze economiche sufficienti. Questo vincolo mette di fatto fuori gioco i possibili contributi del settore privato, e in questo modo si vanno progressivamente deteriorando beni storico- architettonici, porzioni di centri storici, edifici di archeologia industriale, edifici recenti con prestazioni energetiche o funzionali insufficienti, oppure con collocazioni palesemente errate.

Culturalmente occorre un salto di qualità, riconoscendo che non tutti gli edifici possono riprendere le funzioni originarie, che non tutti gli edifici possono divenire un altro economicamente vantaggioso, generando le convenienze economiche indispensabili affinchè l’operazione si regga in piedi. La demolizione, si è già detto, e la rimessa in pristino per usi agricoli o ambientali deve entrare nel novero delle soluzioni possibili all’abbandono.

Detto questo, va rammentato che le soglie delle convenienze economiche sono intrinsecamente mobili. Una attenta analisi di esperienze concrete di riutilizzo mostra infatti come in alcuni casi un innesco anche modesto di un intervento pubblico riesca a rendere convenienti interventi privati che in precedenza non lo erano; in altri casi nuove idee di riutilizzo o nuove forme di gestione – chi avrebbe scommesso sull’agriturismo o sul turismo ambientale soltanto venti o trenta anni fa? - riescono a rendere attrattive situazioni apparentemente bloccate.

Il riutilizzo è certamente legato alla convenienza economica, ma la innovazione e la creatività sono a pieno titolo componenti del gioco.

CAP. 3. B

ILANCIO DI SUOLO E AREE DISMESSE

:

STRUMENTI E CRITICITÀ NORMATIVE

di Stefano Ficorilli

La campagna RiutilizziAmo l'Italia ha evidenziato la grande attenzione e cura che i cittadini ripongono nel recupero e nella riqualificazione del territorio nel quale vivono.

Partendo da questa semplice constatazione, occorre verificare se i vigenti strumenti normativi sono in grado di rispondere adeguatamente a queste esigenze oltre a quelle di arresto dell’accelerazione della urbanizzazione e della dispersione urbana. Tale verifica sarà compiuta sulla base di tre direttrici: legislazione urbanistica (par. 1); fiscalità urbanistica (par. 2); le potenzialità della pianificazione paesaggistica (par. 3).

Nel documento Riutilizziamo l'Italia. Report 2013 (pagine 31-37)

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