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Il costo della dispersione insediativa

Nel documento Riutilizziamo l'Italia. Report 2013 (pagine 176-179)

In concomitanza con una trasformazione radicale del modo di produrre e consumare la ricchezza, il territorio nazionale ha conosciuto, almeno a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, una tendenza generalizzata alla frammentazione degli equilibri insediativi e dei processi produttivi non solo nelle aree di più antico sviluppo, ma anche nelle regioni che avevano beneficiato degli effetti dei primi fenomeni di decentramento. Per effetto di questa deriva territoriale non solo i costi di funzionamento degli insediamenti umani e delle strutture produttive hanno subito un marcato aumento che la ricerca di settore ha da tempo analizzato2, ma declino economico e crisi della città hanno cominciato ad annodarsi in modo pressoché inestricabile, accentuando le criticità e compromettendo l’efficacia delle terapie che venivano di volta in volta sperimentate.

Il primo nodo che la valorizzazione delle aree industriali dismesse dovrà sciogliere – almeno se vorrà conseguire dei livelli apprezzabili di efficacia - riguarda la capacità di articolare con chiarezza la struttura analitica degli oneri della riconversione funzionale, separando nel modo più rigoroso possibile i costi di pre-urbanizzazione, legati alla bonifica dell’area dismessa, da quelli di urbanizzazione, che sono invece strettamente associati alla destinazione d’uso che verrà adottata. Inoltre questa lettura approfondita e rigorosa delle risorse necessarie a garantire il successo degli interventi di riconversione dovrà prestare una particolare attenzione alla distribuzione non solo dei costi, ma anche delle plusvalenze emergenti dalle trasformazioni urbane, perché è da una valutazione siffatta che è possibile attendersi una più attenta regia delle forme di collaborazione tra soggetti pubblici e privati3.

2

Cfr. Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano (a cura), No Sprawl: perché è necessario controllare la dispersione

insediativa e il consumo di suolo, Alinea, Firenze, 2006.

3

Vedi a questo proposito, il saggio di Roberto Camagni, “Verso una riforma della governance territoriale.
Area vasta e controllo della rendita fondiaria e immobiliare”, http://www.storicamente.org/quadterr2/camagni.html.

E’ bene chiarire che tali approfondimenti non servono semplicemente a rispondere ad alcuni quesiti proposti in ambito accademico, ma soddisfano un’esigenza ben più diffusa; quella cioè di andare oltre la semplice consapevolezza che il moltiplicarsi dei fenomeni di dismissione determinati dalla crisi economica comporta una drammatica crescita degli oneri finanziari delle politiche di riqualificazione, e dimostrando altresì che questi ultimi potranno essere sostenuti solo grazie ad una loro avveduta ripartizione tra i soggetti e gli attori delle trasformazioni urbane. Contrastando la tendenza alla rimozione dell’interesse pubblico nelle decisioni economiche che domina ormai la scena da oltre trent’anni, si tratta dunque di associare i costi di una più generale riconfigurazione dei modelli insediativi – certamente non sostenibili se ci si ostina ad adottare una visione parcellizzata e settoriale – ai benefici assai rilevanti che potrebbero derivare dalle interazioni esistenti tra la promozione di un nuovo paradigma urbano e l’avvento di un differente modello di sviluppo. Conviene prendere atto della natura assai complessa di questi approfondimenti, non tanto e non solo per il ricco elenco di variabili che l’analista è tenuto a considerare, ma anche per il crescente numero di tipologie che caratterizzano le aree e i manufatti coinvolti. Non solo; soprattutto nella fase più recente tende a emergere la tendenza dei processi di dismissione a diffondersi dalle grandi realtà urbane alle città intermedie o di piccola dimensione, con una geografia a macchia di leopardo che accentua le diseconomie che tale assetto tende a generare, e che sono ovviamente destinate a influire pesantemente sui bilanci economici delle operazioni di rigenerazione urbana, di riuso e di riqualificazione delle aree dismesse.

A fronte di una morfologia della dismissione che tende a rispecchiare la frammentazione del modello insediativo, anche le strategie messe in campo dalle amministrazioni locali sono costrette a sostituire la micro-urbanistica dei primi esercizi di recupero con un approccio integrato che punta alla riqualificazione di territori sempre più estesi. Si tratta di un fondamentale cambio di rotta, che all’inizio ha fatto leva sui nuovi strumenti urbanistici introdotti in via sperimentale nel nostro ordinamento (i cosiddetti programmi complessi), ma che con il passare del tempo punta ad estendere ulteriormente il proprio raggio di azione e a postulare strumenti di co-pianificazione di scala sovra-comunale che non hanno ancora ricevuto un’appropriata definizione normativa.

In presenza di questa palese contraddizione tra le opportunità offerte dalle aree dismesse agli ambiziosi tentativi di superare le principali anomalie della città contemporanea da un lato, e i limiti imposti dalla cronica penuria di risorse da destinare a questo ambizioso disegno dall’altro, vi è un unico percorso che è possibile seguire. Esso riguarda una valutazione comparata dei costi della dispersione insediativa, che riesca cioè a tener conto che la localizzazione delle imprese, dopo averne costituito l’agente scatenante, può contribuire in futuro ad indicare i principali fattori correttivi. La soluzione di questo apparente paradosso può essere offerta dalla ricerca di una compatibilità tra i costi ingenti della riconversione funzionale e la possibilità di attenuare almeno in parte le diseconomie di un’urbanizzazione irregolare e non pianificata, che ha dissipato suoli agricoli e ha incrinato gli storici equilibri del paesaggio, dell’ambiente e della stessa produzione (congestione veicolare, aumento della nocività ambientale, incremento del fabbisogno di infrastrutture, inefficienza della gestione urbana, ecc.).

Se si adotta questo particolare punto di vista, si è probabilmente in grado di affiancare alla più tradizionale analisi costi-benefici uno strumento in grado di stimare i prezzi impliciti (non di mercato) di quegli attributi qualitativi che contribuiscono in misura elevata al benessere dell’individuo. Laddove la prima tecnica rischia di assegnare i costi in prevalenza al soggetto privato e i benefici principalmente alla collettività, con la conseguenza inevitabile di non favorire in alcun modo l’adozione di provvedimenti correttivi realmente praticabili, il secondo approccio comporta al contrario il ricorso a un metodo di valutazione edonico, che si propone in ultima istanza di computare l’incremento di valore imputabile a provvedimenti che, migliorando la qualità delle

strutture insediative interessate da interventi di riqualificazione, sono altresì capaci di generare rendite di posizione o plusvalenze dei beni immobili che insistono su quello stesso territorio4. Alla base di questa formulazione vi è la convinzione, ormai acquisita dalla cultura contemporanea, che è la stessa nozione di benessere individuale ad aver assunto un carattere multidimensionale, e che solo un pieno apprezzamento degli elementi costitutivi della qualità della vita può consentire di riportare ordine e concretezza nella individuazione delle questioni da privilegiare durante la messa a punto delle politiche pubbliche. In accordo con una proposta di Amartya Sen di alcuni anni fa, che invitava ad affiancare ai tradizionali indicatori macroeconomici di misurazione dello sviluppo quali il PIL un nuovo indice di sviluppo umano (Human Development Index)5, la Commissione istituita nel 2008 dal governo francese e presieduta, oltre che dallo stesso Sen, anche da Joseph E. Stiglitz, e da Jean-Paul Fitoussi, è dunque pervenuta alla definizione della formula del benessere, che comprenderebbe le seguenti dimensioni:

- condizioni di vita materiali (reddito, consumo e ricchezza); - salute;

- istruzione;

- attività personali incluso il lavoro; - partecipazione politica e governance; - rapporti sociali e relazioni;

- ambiente (condizioni presenti e future); - insicurezza di natura economica e fisica6.

In linea con questa riflessione si può dunque concludere che il suolo non costituisce solamente una risorsa scarsa di cui è necessario regolare sapientemente l’uso, né rappresenta semplicemente un fattore potenziale di sviluppo economico. A partire dalla tendenza del territorio a contribuire al benessere individuale e collettivo, le politiche di pianificazione finalizzate alla ricerca di un nuovo ruolo per le aree industriali dismesse possono costituire un catalizzatore per tutte quelle iniziative che nel breve termine cercheranno di escogitare una soluzione di sistema per una crisi che può essere affrontata solo grazie ad un’inedita propensione a guardare al futuro e a imparare le nuove regole del gioco. E per quanto ci riguarda più direttamente, ciò implica da un lato la capacità di elaborare la visione di un nuovo ordine urbano, e dall’altro la tendenza a coniugare gli strumenti della pianificazione urbanistica con il complesso armamentario che può consentire il superamento delle principali contraddizioni di un paradigma economico che appare sempre più in difficoltà.

4

Cfr. Pietro A. Valentino, “L’economia dei beni paesaggistici e il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”, in

Ri_Vista Ricerche e progettazione per il paesaggio, n. 10, luglio/dicembre 2008.

5

Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c'è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2000.

6

CMEPSP, Report of the Commission on the measurement of economic performance and social progress, Parigi,

Nel documento Riutilizziamo l'Italia. Report 2013 (pagine 176-179)

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