• Non ci sono risultati.

Efficienza territoriale 1

Nel documento Riutilizziamo l'Italia. Report 2013 (pagine 168-175)

Fra i vari elementi critici della recente Strategia nazionale per l’efficienza energetica (SEN) prodotta dal Governo italiano (DL 8 marzo 2013), ve ne è uno qui assai pertinente. Nella SEN il tema cruciale dell’efficientamento energetico dei sistemi insediativi non è affrontato. Si parla molto dell’efficienza degli edifici, delle reti energetiche e dei mezzi di trasporto, in particolare dell’importanza dell’abbandono del modello tutta gomma e di un importante shift modale verso modi di trasporto sostenibili (ferro, cabotaggio). Ma le inefficienze e le emissioni climalteranti connesse alla irrazionale distribuzione territoriale degli edifici e delle funzioni, ed all’eccessivo consumo di suolo8, non vengono significativamente approfondite, e per certi aspetti nemmeno citate.

La valutazione della efficienza energetica territoriale, intesa come capacità di un determinato territorio di erogare medesime prestazioni insediative finali (output) attraverso configurazioni che implichino diversi livelli di consumo energetico, ebbe un periodo di significativo sviluppo dalla metà degli anni ’70 dello scorso secolo, quando a causa dello choc petrolifero e all’incremento improvviso del costo dei combustibili fossili il tema dei costi dei trasporti divenne una variabile economica dotata di una sua indipendenza e valenza strategica.9

Le dimensioni attraverso le quali valutare l’efficienza energetica territoriale sono molteplici. Si va dagli aspetti localizzativi, in connessione con la dotazione infrastrutturale, per valutare ipotesi alternative di offerta di mobilità, in particolare con l’utilizzo di infrastrutture per il trasporto su ferro che sono fra le più efficienti in termini di Kj/passeggero/km; per considerare poi gli aspetti connessi alla densità insediativa, l’efficienza energetica del patrimonio edilizio, i fattori climatici, i costi di gestione dei servizi a rete (adduzione idrica e reflui, trasporto locale, energia elettrica, gas), le possibilità del teleriscaldamento. Attualmente il principale strumento di pianificazione a disposizione è il Piano Energetico Comunale (PEC), previsto dalla L. 10/1991 come allegato di settore al Piano Regolatore Generale. I suoi scopi specifici sono però connessi al dibattito presente nel periodo in cui la legge fu varata, tanto che gli obiettivi principali in tema di sostenibilità assegnati al PEC sono il risparmio energetico e la diffusione della produzione energetica da fonti alternative, che invece oggi è divenuta misura specifica di livello nazionale promossa con le politiche del contributo 55%. Di efficienza energetica territoriale in quanto tale non si parla. Questo fatto non ha impedito alle amministrazioni più avvedute10 di utilizzare il PEC per sperimentare approcci innovativi, quali la definizione di distretti energetici nei quali promuovere la diffusione delle FER e dei sistemi di teleriscaldamento. In tale sede è emerso limpidamente come solo al di sopra di una certa densità insediativa (100-120 ab/ha) sia significativamente conveniente realizzare sistemi di teleriscaldamento, mentre al diradarsi delle utenze non aumentano solo i costi di connessione ma anche le perdite di carico e le dispersioni in ambiente, rendendo economicamente non conveniente l’allaccio. La compattezza insediativa non è quindi solo un modo per ridurre

8

In merito a ciò vale la pena di segnalare che è appena uscito il draft di uno schema di Decisione del Parlamento europeo “on accounting rules on greenhouse gas emissions and removals resulting from activities relating to land use,

land-use change and forestry” che connette in modo strutturale la contabilità dell’uso del suolo al calcolo delle

emissioni climalteranti ed alla ripartizione dello sforzo di loro riduzione paese per paese in coerenza con gli obiettivi di riduzione assunti a livello comunitario secondo le indicazioni del Protocollo di Kyoto.

9

Per una sintetica rassegna di tali studi cfr. De Pascali (2008).

10

l’artificializzazione del suolo o abbattere le emissioni (ed i costi) derivanti dalla mobilità, ma anche una condizione essenziale per la produzione di insediamenti intrinsecamente più efficienti dal punto di vista della gestione energetica.

La pianificazione insediativa ad alta efficienza è favorita in contesti nei quali si tratta di allestire nuove partizioni insediative, come molte esperienze avviate nel Mondo anglosassone mostrano. Nel caso italiano, caratterizzato da un reticolo insediativo fitto ed antichissimo, il tema si pone in modo diverso, essenzialmente in termini di politiche attive di efficientamento, quali le esperienze di perequazione insediativa alla scala vasta compiute in Emilia Romagna o l’innovativa sperimentazione del sistema ad aspirapolvere messo in atto nella pianificazione locale a Siena. Non può tuttavia non apparire evidente l’elevato grado di coerenza e convergenza fra efficienza energetica territoriale, promozione della compattezza insediativa e rinaturalizzazione di suoli degradati e dismessi.

In particolare, i rapporti fra potenziamento del trasporto pubblico su ferro, riaddensamento del sistema insediativo attorno al ferro, e riuso delle aree dismesse si presentano come politiche dotate di una naturale convergenza operativa, e capaci di realizzare reciproci rilevanti benefici sia dal punto di vista ambientale che sul versante della fattibilità economico-finanziaria.

È per questi motivi che occorre assumere la politica di efficientamento energetico come una delle chiavi principali per il riordino insediativo del territorio italiano, e per la promozione di politiche di riutilizzazione dei suoli dismessi. Ed in tale prospettiva un particolare ruolo lo assumono i suoli e gli spazi pubblici, che si presentano assieme alla continuità ambientale come i principali corpi di riconnessione e di coesione del sistema insediativo, oltre che i luoghi nei quali si realizzano quelle dotazioni territoriali pubbliche che sono alla base di ogni processo di sana valorizzazione immobiliare.

Bibliografia

Camagni R., Gibelli M.R., Rigamonti P. (2002). “I costi collettivi della città dispersa”. Alinea. Firenze.

Centro di Ricerca sul Consumo di Suolo, (2012) “Rapporto 2012”, INU Edizioni, Roma.

Cutaia L., Morabito R. (2012) “Sostenibilità dei sistemi produttivi. Strumenti e tecnologie verso la green economy”, ENEA, Roma.

De Gasperi M. (2013) “Bolle di mattone”, Mimesis, Milano.

De Pascali P. (2008), “Città ed energia. La valenza energetica dell’organizzazione insediativa” FrancoAngeli, Milano.

Fitoussi J.P., Laurent E. (2009) “La nuova ecologia politica. Economia e sviluppo umano”, Feltrinelli, Milano.

Giancola D. (2012), Tesi di Laurea Magistrale “Consumo di suolo e fiscalità urbanistica: la necessità di una riforma fiscale per il governo ecologico del territorio”, Torino.

Lanzani A., Pasqui G. (2011), “L’Italia al futuro. Città e paesaggi, economie e società.” Alinea, Milano.

Latouche S. (2007) “La scommessa della decrescita”, Feltrinelli, Milano.

Ombuen S. (2013a) “Sviluppo sostenibile, lavoro, territorio”, in L. Pennacchi (a cura di) “Tra crisi e grande trasformazione. Libro Bianco per il Piano del Lavoro 2013”, Ediesse, Roma.

Ombuen S. (2013b) “Per bilanci dell’uso del suolo” in “Il consumo di suolo: lo stato, le cause e gli impatti”, convegno ISPRA, Roma, 5 febbraio 2013, www.isprambiente.it.

CAP. 16. L

A CITTÀ DELLA CONTRAZIONE di Giovanni Caudo

“Questo schiaccerà quello”. Con questa asserzione Victor Hugo decreta la supremazia del libro a stampa sulla cattedrale che era stata fino ad allora il libro di pietra ovvero il luogo ove si poteva apprendere la parola di Dio nella luce filtrata dalle vetrate, negli affreschi e nella maestosità delle sue sculture. Allo stesso modo, la costruzione della città di pietra dava corpo al potere dell’uomo sulla terra. Progettare la città é stato il modo con cui il Potere ha espresso il suo dominio nel tempo rendendo visibile l’invisibile. Non possiamo dubitare che ancora oggi sia così: il corpo unitario della città é una nozione primaria, elementare, esso esiste nella sua grave materialità. Ma la sua evidenza oggi é diversa, si é complicata, in qualche misura é celata. Per quanto sia possibile ancora una sua delimitazione, la città non si restituisce più come corpo unitario. La metafora del corpo umano va oramai stretta alla città: questa si sottrae all’insularità che caratterizza il corpo per assumere molteplici configurazioni attraversate internamente da un limes non più a contatto con il fuori. La città non é più l’esito di un progetto unitario, espressione di un Potere dominante nel tempo, ma specchio della frammentarietà in cui esso si é dissolto. La città appare gradualmente nel tempo perché si forma nel frattempo: si costruisce per parti, trasformandosi continuamente e manifestandosi come forma attualizzata di quel flusso vitale dato dall’agire, dalle scelte, dalle interrelazioni umane. Spazi sprecati, aree dismesse, interstizi, residui senza conformazione o usi definiti si infiltrano come terra di nessuno e separano i frammenti della metropoli. E’ in questo scenario che prende corpo la principale mutazione che attraversa le città europee, che si rinnovano a partire da ciò che sta tra le cose, dalle discontinuità che le attraversano e nelle quali coesistono molteplicità di senso e potenzialità inespresse. E’ il fronte interno della città1.

Costruire nella città è l’orizzonte contemporaneo del nostro agire. E’ lì che la città diventata groviglio, sfida la geografia e si dissolve in tutte le direzioni. E’ il corpo della città, non più quello delle “abitazioni inumane, dei tuguri, dei muriccioli scalcinati, dei bandoni di metallo”, ma quello fatto dai pezzi di città moderna, da edifici monumento, da interstizi di spazio posti tra le case, da strade sproporzionate, da brandelli e da lacerti di territorio urbanizzato che ci appaiono spesso sprecati. Un territorio dove è possibile costruire connessioni, determinare nuove intensità urbane. Non semplicemente densificare o riempire (infill) ma stabilire nuovi rapporti, costruire relazioni di prossimità, assecondando e consolidando quanto già uomini e donne, cittadini e non, hanno costruito: relazioni, sotto forma di associazioni, di gruppi, di comunità operose che rendono vivi questi territori. Un corpo che non è stabile ma che è, ancora, “disordine, precarietà tanto più grave e pericoloso perché si presenta sotto forma di agio, di meno peggio – mentre tutto, invece, sarebbe ancora da cominciare”.

Le città occidentali, ed europee in particolare, dove è stato pensato e costruito il vecchio mondo, sono impegnate nella comprensione di queste trasformazioni. E anche l’Italia, forse più delle altre città europee ha il compito, anche per storia e cultura, di pensare a politiche per dare forma a una urbanizzazione senza espansione fisica. Qui c’è un primo spazio di innovazione per le politiche urbane e non si tratta di declinarle solo entro al tema, pur giustissimo, del limite al consumo di suolo, o alle diatribe su come valorizzare le aree dismesse. Le città della vecchia Europa, avendo

1

sostanzialmente esaurito la fase di espansione fisica hanno oggi nelle forme dell’urbanizzazione la leva principale su cui agire per collocarsi entro lo scenario globale senza perdere la loro specificità e peculiarità, potremmo dire, senza perdere la loro storia e il loro insegnamento. Si può leggere anche in tal senso il ritorno, crescente, di interesse per l’abitare. Assumere cioè il mondo di cose depositato nella città esistente, da quelle quotidiane degli abitanti, a quelle che si intrecciano con i flussi e gli attraversamenti dei nomadi urbani, come punto di partenza per costruire l’in comune. Parigi, Londra, Berlino, ma anche Amburgo, Lione, la conurbazione olandese della Randstad, ma anche Ivanovo in Russia, Riga capitale della Lettonia e poi ancora Madrid, Barcellona, Siviglia, Belgrado e molte altre sono le città, alcune da anni altre da meno tempo, impegnate nel ridefinire la loro posizione nel nuovo scenario del mondo di città e nell’individuare i modi con cui tessere i rapporti con la nuova configurazione dei flussi, non solo, o non più, delle merci ma della finanza, della conoscenza e dell’innovazione. In molti paesi le politiche urbane sono considerate di preminente interesse nazionale e non si tratta della declinazione della sfida competitiva, ormai obsoleta, quanto di comprendere nel profondo la natura di come collegare lo spazio urbano ai processi di crescita economica e nello stesso tempo lavorare per la coesione sociale rinnovando le tradizionali forme di welfare europeo.

L’assunzione della fine del paradigma della crescita urbana intesa come espansione fisica della città vuol dire affermare che la prospettiva è la trasformazione del/nel già costruito, ri-abitare la città esistente. L’espansione delle città, sempre più sconfinate, e la mobilità alimentata a idrocarburi sono due caratteri del Novecento da cui ci dovremo necessariamente allontanare. Due forze hanno, in prevalenza, dato forma alla città soprattutto nel secondo dopoguerra: la rendita, quella che si conseguiva facendo diventare edificabili i terreni agricoli, e l’automobile per muoversi in città, l’illusione della libertà individuale. Due forze che oggi è necessario rivedere e su cui ormai da diversi anni molte città europee si sono impegnate. E’ questo il terreno attorno al quale si sta ridefinendo, dentro a quella che globalmente viene definita l’Urban Age, la nuova prospettiva della città europea. Le città italiane sono considerate tra le espressioni più alte della civiltà urbana europea. Ciò di cui si parla oggi quando si evoca il ruolo delle città, ha sullo sfondo una questione di grande rilevanza: l’evoluzione della città europea, di quella che era nata attorno alla produzione industriale e che con l’espansione del dopoguerra diede spazio al modello di welfare continentale. Adesso, dinanzi al territorio urbanizzato nel corso degli ultimi sessant’anni, fatto di frammenti, di interstizi, di immobili inutilizzati, di tutto quello che in molti casi ci appare come uno spreco, è necessario ri- immaginarla in una nuova consistenza. Sarà per lo più un processo di contrazione e di densificazione a dover essere governato e in cui forme di metabolizzazione e rigenerazione del costruito definiranno nuove forme di naturalità urbana. La contrazione è una dinamica che non necessariamente comporta una riduzione, una diminuzione, essa è piuttosto un complesso di modificazioni che si applicano alla città che c’é e che produce un esito, che comporta un di più. Se fino agli anni '70 la produzione della città ha riguardato terreni non edificati ai margini della città, con la de-industrializzazione il tema al centro dell'attenzione è la trasformazione della città compatta; se in passato prevalevano usi del suolo uniformi ed omogenei (si pensi ai grandi quartieri residenziali o industriali della periferia), nella fase attuale si è imposta una destinazione multifunzionale degli spazi rigenerati. Infine, se i grandi progetti del dopoguerra erano promossi e finanziati dallo Stato, o da altre emanazioni del potere pubblico, gli interventi recenti hanno come protagonisti – sul piano della progettazione, dell'investimento di capitali e della committenza – gruppi economici privati del settore immobiliare, finanziario e della nuova economia.

L’implicazione più forte di questa mutazione è che la crescita immobiliare non è più guidata dalle nuove costruzioni, dall’espansione urbana che si aggiunge a cerchi concentrici facendo aumentare i valori delle aree centrali, ma è alimentata, invece, dalla valorizzazione del patrimonio esistente.

Si tratta di un cambiamento radicale del paradigma economico nella costruzione della città e che trova concretizzazione in una nuova parola chiave: rigenerazione urbana.

Nei progetti di rigenerazione urbana a leva immobiliare (property-led urban regeneration) si manifestano infatti in modo evidente i caratteri che la produzione della città assume nel passaggio dal modello industriale a quello post-industriale, con riferimento alle trasformazioni che hanno investito il settore immobiliare, alla crescente interdipendenza tra dinamiche multi-scalari (dal locale al globale) e all’instaurarsi nei processi di rigenerazione di nuovi rapporti e modalità di interazione tra attore pubblico e interessi privati. Alla fine della filiera della finanziarizzazione c’é ancora la città. I plusvalori immobiliari, una volta realizzati e immessi nel sistema economico, raggiunto quindi l’obiettivo di ricapitalizzare il sistema, tornano, almeno in parte, nella città, e si fanno pietra, atterrando e concretizzandosi in città e quartieri reali attraverso operazioni di rigenerazione urbana e valorizzazione immobiliare. La liquidità virtuale deve concretizzarsi e la città, la grande città, é il luogo più adatto.

Tutto ciò rende l’azione politica e l’esercizio di un ruolo regolativo da parte delle istituzioni locali ancora più difficoltoso e fragile di quanto esso già non sia in contesti ad alta complessità e frammentazione quali quelli metropolitani odierni. Alcuni autori (Castells, 2003) sostengono che le culture e i modelli organizzativi propri delle reti dell’economia transnazionale stiano erodendo le capabilities di istituzioni e organizzazioni locali, le quali non sarebbero più in grado di governare il nuovo spazio dei flussi. Anche senza arrivare a queste conclusioni, è indubbio che tempi e spazi dell’economia e della politica siano sempre più in tensione, poiché come ha sostenuto Bagnasco (2003) gli spazi dell’economia sono pensati in funzione degli scambi di possibilità attive e potenziali, mentre quelli della politica in funzione della stabilità e di relazioni di reciprocità. E’ così che sotto la forza dei processi di finanziarizzazione la visione pubblica arretra aprendo il campo alla massimizzazione dei profitti. Nella fase iniziale, quella della valorizzazione immobiliare, i plusvalori immobiliari non sono intercettati dall’ente locale, ma anche quando i flussi finanziari ritornano in città, nella fase della concretizzazione dei plusvalori, l’utilità per il soggetto pubblico si riduce a qualche opera pubblica di importanza, spesso, marginale. Esempi recenti italiani molto noti come l’intervento della ex fiera a Milano o come alcune delle centralità in corso di realizzazione a Roma sono l’evidenza empirica di questo processo.

Da queste condizioni emerge l’importanza di riaffermare la centralità delle regole per una trasformazione ordinata e per contribuire a rifondare un diverso modello d sviluppo economico. Regole che, diversamente da quanto si sostiene, non sarebbero contro il mercato, ma piuttosto a favore di un’economia di mercato capitalista che salvaguarda i principi di convivenza civile e di mutua solidarietà, che in definitiva faccia i conti con la difesa di un ambiente comune all’agire dei singoli e degli individui. Regole per un uso ordinato del territorio e per far crescere un’economia più radicata nella società. Sarebbe questo il compito che ci si dovrebbe prefiggere, ma per il momento siamo ancora alla necessità di far emergere le contraddizioni dell’attuale condizione urbana. E la contraddizione più rilevante è la continua erosione del suolo a fronte della quantità di immobili che si possono riusare dentro alla città esistente.

La costruzione della città efficiente che ha inteso separare le parti: la strada, l’edificio, le diverse funzioni, ci ritorna oggi come un territorio da ri-densificare. Un territorio che é campo di ricerca. Ma qual’é il senso di questa ricerca? Cosa c’é oltre l’opportunità di riempire data dalla disponibilità del suolo? Sembra giunto a conclusione quel processo di espansione messoci davanti da una concezione dello spazio, esito della riduzione del mondo a spazio da attraversare, che ci prometteva con la modernità l’età di un progressivo divenire. Una riduzione topografica con la quale misurare il globo e telegrafica per connettere tutti i suoi punti, tale che oggi la realtà del globo può essere contemporaneamente presente lì dove ci troviamo. Nel contempo, però, abbiamo smesso di pensare il mondo, di immaginarlo.

Conoscere “la sfera imperfetta nella quale siamo persi nell’universo” e farla diventare la nostra realtà, non ci ha aiutato. La conoscenza della realtà ci restituisce ciò che ha di “peggiore e di migliore il mondo di oggi: l’esperienza del vuoto e della libertà” (Sloterdijk, 2002). Due abissi della conoscenza -uno ci ha portato Fuori dal pensiero del mondo e ci ha fatto perdere la capacità di pensarlo, di immaginarlo; l’altro è conseguente alla scoperta che il nostro Ordine é solo uno dei possibili e che altri ordini possono esistere in forme del tutto diverse dal nostro - a fronte dei quali sembra necessario tornare a dare attenzione allo spazio che ci sta intorno: lo spazio di prossimità. Non si tratta di un ritorno all’antico, ma della reazione all’aver reso il globo spazio della circolazione e non più luogo dell’esperienza. Alla vaporizzazione dello spazio dei flussi ne consegue il bisogno di agglutinarsi nei luoghi di prossimità e anche il senso dello spazio pubblico si modifica per corrispondere a questo desiderio: non più soddisfazione di un fabbisogno universale (welfare) ma risposta alla voglia di stare bene (wellbeing). La consapevolezza del limite nel processo di espansione e, allo stesso tempo, la consapevolezza della necessità di contenere il processo di individualizzazione sono i fattori essenziali per dare senso alla costruzione nella città, per fare in modo che lo spazio pubblico torni ad essere occasione per dare intensità al sistema di relazioni tra le persone e ricerca di un dialogo possibile con la comunità circostante.

Scrive Latour in Politica della natura (Latour, 2000): “La notte è caduta, la processione terminata,

Nel documento Riutilizziamo l'Italia. Report 2013 (pagine 168-175)

Outline

Documenti correlati