C’è una relazione che collega il futuro del dismesso con il futuro delle città: questa relazione si può leggere attraverso i temi del consumo di suolo e della campagna abitata da parte dei cittadini, ovvero del rapporto ineludibile tra il paesaggio della città e il paesaggio dell’altra città. L’avvio dell’apprezzamento di tale relazione risale alla metà degli anni ’80 quando la legge Galasso, la legge 431/’85, ci mette di fronte al fatto che tutto è paesaggio. Paesaggio non è più solo quello delle città e dei territori delle regioni del sud, descritto e dipinto ai tempi del Gran Tour; paesaggio è anche quello delle città e delle regioni del nord, descritte a quei tempi sbrigativamente e con giudizi non sempre positivi1.
La legge Galasso e, successivamente, la Convenzione Europea del Paesaggio considerano paesaggio ogni luogo, ogni corridoio d’acqua, ogni elemento naturale e ogni ambiente, non solo se assimilabile alle situazioni di eccellenza ma anche alle espansioni insediative prive di identità e alle situazioni di degrado. Proprio queste ultime due situazioni hanno sollecitato l’avvio delle prime descrizioni del paesaggio in area urbana e periurbana con la scoperta delle contaminazioni tra morfologie insediative e tra stilemi delle costruzioni nei bordi urbani, lungo le tangenziali metropolitane e nelle periferie regionali; e, contestualmente, anche la conoscenza della dimensione del fenomeno del dismesso con la pubblicazione dei primi censimenti delle aree dismesse.
La prima stagione del dismesso risale agli anni ’80 quando le città registrarono gli esiti del fenomeno del decentramento produttivo con la fuoriuscita delle attività produttiva e la loro riorganizzazione in altre regioni e con l’avvio di un processo di diffusione insediativa che arrivò a interessare anche molti centri rurali con l’insediamento di capannoni e di villette mono e bifamigliari.
Sono gli anni in cui compaiono i vuoti urbani con la dismissione di industrie e di manufatti, accompagnate dalla comparsa di situazioni di degrado insediativo e di marginalità sociale. Ad essere interessati per primi dal fenomeno furono i grandi complessi industriali, quelli che avevano contribuito alla crescita delle città fabbrica nella prima fase di industrializzazione e che, in quegli anni, si vengono a trovare completamente inseriti nel tessuto urbano. Emergono, di conseguenza, anche i problemi di inquinamento delle aree e l’urgenza di ricorrere a programmi di caratterizzazione e di bonifica e i problemi di marginalizzazione sociale e di insicurezza a causa del frequente riutilizzo improprio degli immobili abbandonati.
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La guida Cook nell’edizione del 1923 liquidava brevemente Mantova come una città “di nessun interesse se non per l’arte e la storia” (Cook’s Handbook for London with two Maps, London 1909) riprendendo il giudizio che avrebbe espresso Charles Dickens durante la sua visita alla città, un autore che avrebbe avuto una grande influenza anche nella formazione di quel filone culturale che esprime un atteggiamento negativo nei confronti delle città. Sul soggiorno dello scrittore inglese a Mantova nel 1844, vedi Charles Dickens, Mantova e il palazzo Te, a cura e con un saggio di G. Scuderi, Mantova, 2009. Cfr. nota al testo di Maria Cristina Treu, La città di Mantova, in Storia di Mantova, tra presente e futuro 1960-2005, Tre Lune Edizioni, Mantova, 2012, pag. 52.
È il passaggio da una economia urbana fondata su produzioni di grande dimensione e su un processo crescente di aggregazione anche sociale a un sistema di micro economie territoriali in cui si invera la riorganizzazione spaziale della grande impresa e in cui si impongono le economie di relazione tra i sistemi produttivi decentrati e il controllo dei mercati e dei processi innovativi da parte di una nuova fase di concentrazione anche dei centri finanziari, terziari e di ricerca.
È il fenomeno che impone l’attenzione sul rischio di un progressivo impoverimento delle ragioni sociali e economiche che, in epoca moderna, hanno sostenuto la formazione delle città. Con la dismissione delle grandi imprese e con la contrazione della popolazione residente, le città perdono la propria base economica e il ciclo di vita delle città sembra andare verso la fine. Oggi, diremmo verso quella forma diffusione e di metropolizzazione2 di alcuni territori regionali che, solo per pigrizia, ci ostiniamo a chiamare ancora città e in cui continuiamo a distinguere più comuni anche se tra gli abitati non c’è soluzione di continuità.
Le amministrazioni pubbliche reagiscono e si avviano a affrontare questi problemi riprendendo progetti infrastrutturali fermi da anni e attrezzando le città con programmi di riqualificazione urbana da attivare con accordi tra operatori pubblici e privati per fermare l’esodo delle attività manifatturiere, per richiamare attività nuove e più innovative e per avviare un processo di rigenerazione del tessuto sociale.
Sono gli anni in cui, accanto agli studi sull’ordinamento delle polarità urbane, emerge la competizione tra le grandi capitali delle nazioni più avanzate e che più hanno la capacità di attrarre investimenti e di presentarsi sulla scena del mondo in rappresentanza delle stesse proprie nazioni. In Italia, sono gli anni in cui possiamo collocare l’avvio delle prime iniziative di riqualificazione urbana promosse da alcuni soggetti pubblici e da qualche investitore privato, che comunque richiedono come volano una quota di investimenti pubblici e, nei casi di intervento più ricorrenti, la presenza di funzioni commerciali.
Di seguito è la crescita abnorme delle costruzioni edilizie - con quantità indipendenti da ogni domanda e con criteri localizzativi che determinano un consumo di suolo più alto della somma delle corrispondenti superfici abitative - che, unitamente alla ridondanza delle infrastrutture, mobilitano le coscienze sulla crescita di situazioni di abbandono e di degrado di aree e di manufatti contestualmente al consumo di nuovo suolo. Mentre i cittadini riscoprono il paesaggio delle aree agricole di una campagna sempre più abitata.
La sovra produzione edilizia e il consumo di suolo, dinamiche già segnalate negli anni ‘70 da una ricerca nazionale per il CNR, vengono riconfermate negli anni più recenti, dai censimenti Istat dell’Agricoltura, da una ricerca dell’istituto Nazionale dei Geografi, dalle associazioni ambientaliste e da più iniziative regionali3. Il fenomeno viene accentuato dall’espansione di piccole lottizzazioni,
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cfr. Francesco Indovina, La Metropolizzazione del territorio, in AA.VV. L’esplosione della città. Barcellona, Bologna, Donostia Bayonne, Genova, Lisbona, Madrid, Marsiglia, Milano, Monpellier, Napoli, Porto, Valencia, Veneto Centrale, Editrice Compositori, Bologna 2005, pagg. 14-34.
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Il primo studio che denuncia la sovraproduzione edilizia e il consumo di suolo risale all’indagine nazionale promossa dal CNR negli anni ’70, seguita da quella del WWF con “L’incendio grigio” denunciato da Fulco Pratesi negli anni successivi, dagli studi della Società Italiana della Scienza del suolo negli anni 2000, dal Convegno Internazionale “Il sistema rurale”, promosso nel 2004 dalla Regione Lombardia e dal Centro di Documentazione del Politecnico di Milano e edito da Libreria Clup, dalle denunce di Lega Ambiente e dai recenti Osservatori sul consumo di suolo di Lega Ambiente e dell’INU.
di capannoni industriali, di centri logistici e commerciali e di cittadelle terziarie tematiche che si vanno a insediare nei comuni in difficoltà e in località poco accessibili.
Il dismesso aumenta anche per l’abbandono di immobili mai utilizzati, cui segue la crisi che evidenzia la contraddizione tra la rincorsa al mattone, le spese crescenti in infrastrutture e in servizi e la crescita delle situazioni di degrado delle aree dismesse urbane e non urbane, dove i programmi di riqualificazione si devono confrontare anche con i problemi di compromissione e di inquinamento del territorio, dei sistemi verdi e delle acque.
Il tema del dismesso non è più solo una questione urbana: è una questione che investe le risorse dei beni pubblici primari, quelli del suolo e dell’acqua che, con la qualità dell’aria, sostengono la vita stessa di ogni città. Ciò che accade nelle città non può più essere estraneo a quanto accade nelle aree delle sue periferie più lontane. L’attenzione si focalizza su situazioni che richiedono la convergenza di programmi di intervento che richiedono opere di bonifica e di riqualificazione delle reti tecnologiche integrate con quelle sui manufatti edilizi4.
È l’avvio di una seconda stagione del dismesso, quella che avrebbe dovuto avviarsi con le esperienze tentate con i Programmi di Riqualificazione Urbanistica per lo Sviluppo Sostenibile Territoriale, e che oggi dovrebbe affermarsi pur tra le grandi difficoltà politiche e amministrative degli anni più recenti.