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ZENONE Le teorie contenute nella prima parte del poema di Parmenide dovettero susci- tare scalpore, ma trovarono anche seguaci e difensori, in primo luogo in Zenone di Elea (V secolo a.C.). Secondo la testimonianza di Platone, era più giovane di Parmenide di circa venticinque anni. Ingegno acuto, sottile, vigorosamente polemico, si occupò anche di politica e contribuì notevolmente al buon governo di Elea. Sarebbe morto con gran- de fierezza – non si conosce l’anno preciso –, torturato per avere cospirato contro il ti- ranno della città.

LA STRATEGIA DI ZENONE Nella tradizione Zenone appare essenzialmente come un pensatore critico, tutto inteso a difendere gli esiti paradossali del pensiero del maestro Parmenide dagli attacchi:

«Zenone di Elea non ebbe una propria dottrina, ma sollevò ulteriori aporie intorno a

queste tesi». (Pseudo-Plutarco)

In questo senso, è stato definito «un filosofo senza filosofia». Per confutare i critici del- la concezione dell’essere parmenideo (e dunque contestare i caratteri della realtà assunti dalla comune esperienza, ovvero polemizzare contro specifiche posizioni teoriche, forse pitagoriche), egli elaborò una serie di argomenti (lógoi) – probabilmente 40 – subito di-

venuti celebri. Essi miravano a provare che, se la negazione della molteplicità e del mo- vimento può a prima vista apparire insensata, la loro ammissione conduce a conclusioni ancora più assurde. Per l’abilità in questa tecnica confutatoria fu considerato il fondatore della dialettica [ P1, U4, 1].

Di fatto, tale strategia ebbe due effetti congiunti rispetto all’impegno teorico di Parme- nide:

1.quello di accentuare il rilievo dell’opposizione tra l’essere «uno» (hen) – un «segno»

tutto sommato secondario nel quadro delineato dal maestro, molto più attento a mar- care interezza, totalità, integrità dell’«essere» – e «i molti» (ta pollà), la molteplicità;

2.quello di accelerare la dissoluzione dei comuni presupposti di interpretazione del mondo dell’esperienza (pluralità, movimento, divisibilità ecc.), rendendo decisamente problematico lo sforzo proposto nel secondo lógos del poema.

paradossi di Zenone

mostrano le

contraddizioni dei critici realtà

realtà difendono le tesi del maestro immobile in movimento indivisibile divisibile una molteplice

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Il fondatore della dialettica Due effetti

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Il cardine degli argomenti di Zenone consiste nella dimostrazione che sia la nozione di pluralità sia quella di movimento implicano il concetto di infinito (infinita divisione, infinita moltiplicazione), il quale appunto conduce a conseguenze contraddittorie rispetto agli assunti di partenza (esistenza di molti enti finiti, evidenza empirica del moto di traslazione da un punto all’altro ecc.). Si tratta di rilievi da mettere probabil- mente in relazione al problema dell’infinitesimale matematico, affacciatosi sulla scena culturale greca nell’indagine dei pitagorici intorno all’incommensurabilità del lato con la diagonale del quadrato.

GLI ARGOMENTI CONTRO LA MOLTEPLICITÀ Esaminiamo due degli argomenti contro la molteplicità:

«Se gli esseri sono molteplici, è necessario che siano tanti quanti sono e non di più e neppure di meno. Ora, se sono tanti quanti sono, devono essere finiti».

(DK 29 B3. Trad. di G. Reale)

D’altra parte:

«Se gli esseri sono molteplici, gli esseri sono infiniti».

Supponiamo, infatti, che esistano due entità A e B, distinte; per il fatto di essere di- stinte, esse devono risultare separate da una terza entità C come lo spazio intermedio tra A e B. Ma C è distinta tanto da A quanto da B, e quindi esisteranno altri due elementi D ed E separanti rispettivamente C da A e da B, e così via all’infinito: sicché l’ammettere due entità distinte conduce necessariamente ad ammetterne infinite. Se, da un lato, le singole cose sono quelle che sono, e dunque sono finite, dall’altro, proprio per essere finite, presuppongono qualcosa che le limiti, che si interponga tra loro, e così il loro numero diventa infinito.

Ammesso che il segmento AB di una retta sia diviso in due parti uguali nel suo punto mediano, e queste a loro volta in due nel loro punto mediano e così di seguito all’infini- to, gli elementi (i punti) che costituiscono il segmento risulteranno infiniti; ora, essi o sa- ranno nulli (cioè privi di grandezza e dunque pari a zero) o non saranno nulli: nel primo caso la lunghezza del segmento risulterà nulla (poiché la somma di infiniti zeri è zero), nel secondo caso infinita (poiché la somma di infinite quantità diverse da zero è infinita).

A E D C B

Zenone, insomma, puntava a contestare la molteplicità insistendo sull’assurdità della nozione di unità che ne è alla base – cioè della nozione di un “uno” che ne ammetta altri –, per affermare la verità dell’“uno” che non ammette altro da sé.

GLI ARGOMENTI CONTRO IL MOVIMENTO Esaminiamo ora gli argomenti contro il movimento.

Supponiamo che un corpo mobile debba spostarsi da un estremo all’altro di un dato segmento (parte di spazio): prima di aver percorso tutto il segmento, dovrà averne percorsa la metà; prima di questa, la metà della metà, e così via all’infinito; quindi non percorrerà mai tutto il segmento: è impossibile percorrere in un tempo finito infinite parti di spazio. Ritroviamo in questo argomento il tema della divisione nel punto me- diano, per cui esso è noto con il nome di «dicotomia».

Il concetto di infinito Cose finite e infinite Un segmento finito e infinito La «dicotomia»

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In modo analogo, supponiamo che Achille (eroe proverbiale per velocità) faccia una ga- ra di corsa con la lenta tartaruga lasciandole il vantaggio di un tratto s: per batterla dovrà percorrere innanzitutto questa distanza s, poi il tratto s1 percorso dalla tartaruga mentre lui percorreva il tratto s, poi il tratto s2 percorso dalla tartaruga mentre lui percorreva il tratto s1, e così via all’infinito; quindi Achille non raggiungerà mai la tartaruga.

0 ½ 1

alla partenza

quando Achille ha percorso l’handicap

0 ½ ¾ 1

In entrambi gli esempi, le difficoltà derivano dal fatto che lo spazio si divide in infinite parti di spazio, certo sempre più piccole ma mai nulle, che richiedono un numero infi- nito (e quindi mai completabile) di movimenti. In questo senso, anche questi argomenti, particolarmente celebrati nell’antichità, dipendevano dal rilievo delle assurdità che con- seguono alla posizione di unità molteplici, e quindi dalla probabile polemica antipita- gorica (che sembrerebbe evidente nello scambio costante tra piano fisico e geometrico). Famoso anche il paradosso della freccia: la freccia che si crede in movimento è, in ogni istante del suo volo, stazionaria, cioè in una porzione di spazio identica alle sue misure; in realtà, quindi, essa è immobile. Zenone evidentemente presuppone che il tempo sia com- posto da una successione di istanti: se in ogni istante la freccia è stazionaria, nella somma di quegli istanti non può prodursi la traslazione della freccia. Insomma, contro ogni evi- denza empirica, la freccia non raggiungerà mai il proprio bersaglio!

Supponiamo ora che in uno stadio siano disposti tre serie di corpi (A1-4, B1-4, C1-4) di uguale lunghezza: una ferma e le altre due in movimento, con la stessa velocità, in dire- zione opposta, lungo percorsi paralleli. Rispetto alla serie di corpi immobili, la velocità di quelli in moto sarà uguale, ma nella loro relazione reciproca risulterà doppia: l’ele- mento B4 della serie B alla fine del movimento avrà coperto due elementi della serie A, ma 4 della serie C. tempo T1: A A A A tempo T2: A A A A B B B B ➔ B B B B ➔ ➔ C C C C ➔ C C C C Achille e la tartaruga La freccia Le masse nello stadio

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La sapienza arcaica na- sce e si muove per lun- go tempo all’interno di un orizzonte culturale profondamente segnato dai modelli dell’epica e del- la lirica. Talvolta ciò ha comportato l’adozione di quei registri espressivi e degli stessi miti o forme religiose della tradizione poetica: in ogni caso, la ricerca razio- nale ha fatto i conti con i suoi condizionamenti, ma ne ha anche sviluppato in modo originale esigenze e istanze.

Una delle più significative è rappresentata dalla sof- ferta consapevolezza dei limiti delle possibilità conoscitive umane, che nella poesia del VII-VI se- colo a.C. si intreccia con il più generale compianto per la condizione umana.

Pessimismo poetico

Nell’antica poesia è netta la contrapposizione tra conoscenza umana e conoscenza divina: la prima li- mitata e ancorata alle esperienze presenti, la secon- da piena e proiettata anche sul passato e sul futuro. Sapienza umana è quella che pensa «cose mortali» (come recita Epicarmo), sebbene gli dei possano in- vestire della loro conoscenza individui privilegiati (gli indovini, per esempio), dotandoli di particolari poteri ovvero garantendo loro determinate rivela- zioni (è il caso soprattutto della ispirazione poetica). In ogni modo è sistematicamente marcato lo scarto tra le discutibili presunzioni dell’uomo e la certezza del conoscere degli dei.

Questa forma di pessimismo poetico ha riscontro anche nella produzione filosofica arcaica: non a caso sono poeti come Senofane, Parmenide e poi Empe- docle a riproporre il modello, sebbene gli ultimi due intendano, in realtà, presentarsi come mediatori eccezionali della verità ai comuni mortali, piuttosto che marcarne l’inattingibilità.

Ottimismo della ricerca filosofica

Tuttavia, a dispetto di quel pessimismo, la sapienza è proposta dai pensatori antichi come historia (ricer-

ca), attraverso cui l’uomo è in grado di cogliere il

principio (o i principi) della realtà, in altre parole la natura originaria da cui tutto scaturisce e a cui tut- to sarebbe riconducibile. In questo ottimismo e nelle modalità della sua traduzione possiamo cogliere una serie di implicazioni gnoseologiche (relative, cioè, al problema della conoscenza):

1.la consapevolezza che il principio non si manife-

sta immediatamente sul piano sensibile, anzi, in qualche caso (Anassimandro), che esso struttural- mente non è alla portata dell’esperienza;

2.il tacito riconoscimento, quindi, della capacità di

muovere dai dati empirici immediati per indivi- duare ciò che a essi stabilmente soggiace;

3.la fiducia nell’intelligenza come una sorta di or-

gano aggiunto a quelli sensibili per vedere con certezza oltre quello che appare ai sensi.

Esperienza e intelligenza

Le osservazioni sul pensiero dei primi filosofi sono in larga misura frutto di illazioni da testimonianze: i frammenti di cui disponiamo confermano comunque questo quadro, soprattutto per quel che concerne il nesso tra esperienza sensibile e intelligenza (nóos, noûs):

1.per un verso il pensiero è proposto come una pe-

culiare forma percettiva, con cui si vede oltre le apparenze sensibili: una forma di intuizione che già in Omero è attestata, in relazione all’uso di composti di noéin, come facoltà di intravedere la realtà dietro una parvenza ingannevole;

2.per altro, invece, il pensiero si impone come stru-

mento riflessivo, grazie al quale il dato (in que- sto senso imprescindibile come sollecitazione) dei sensi è trasceso: pensare è dunque, in questa accezione, più vicino a ragionare, inferire, valu-

tare.

Intuire e asserire

Al pensiero come intuizione è collegato un aspetto caratteristico della sommaria produzione filosofica arcaica: il tono assertivo, sentenzioso delle tesi. Esse si propongono spesso più come folgorazioni intui- tive che come risultato di inferenze o elaborazioni, probabilmente per l’incidenza dei modelli dell’ispi- razione poetica, cui, per rendere più accessibile il proprio messaggio, spesso i pensatori arcaici si rifa- cevano nella loro comunicazione.

Sebbene questa modalità comunicativa valga in par- ticolare per le prime personalità, essa si può ancora riscontrare facilmente nello stile espressivo di Eracli- to e in un autore come Anassagora, che pur scriveva in prosa alla metà del V secolo a.C. e circola anche nei frammenti di Democrito, in gran parte costituiti da sentenze di carattere morale.

Riflettere e argomentare

Tuttavia, a partire da Eraclito si sarebbe fatta stra- da, a sprazzi, anche una strategia diversa, che co- niugava asserzioni e confutazioni di opinioni o tesi avversarie, per arrivare infine a stabilire criteri di accettabilità delle teorie: questo momento sa- rebbe stato soprattutto coltivato in seno all’elea- tismo.

In questa prospettiva la funzione specifica dell’intel- ligenza sarebbe stata quella di organizzare e strut- turare, elaborare, mettere alla prova sia il materiale direttamente presente ai sensi, sia quello raccolto e recuperato dalla memoria e comunque presente alla mente.

POSSIBILITÀ E LIMITI DELLA CONOSCENZA

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IL SENSO DEGLI ARGOMENTI Sarebbe sbagliato considerare questi argomenti di Ze- none (e altri consimili da lui elaborati) quali semplici sofismi o falsi ragionamenti. In realtà, essi attirano efficacemente la nostra attenzione su talune gravissime difficoltà insi- te nei concetti di movimento, grandezza e lunghezza, dovute all’inevitabile introduzione del concetto di infinito. Di fatto, aggiungendosi a quelle connesse con la scoperta pita- gorica delle grandezze incommensurabili, queste difficoltà logiche suscitarono nei Greci tale diffidenza nei confronti dell’infinito, da persuaderli a compiere ogni sforzo pur di escludere il concetto da ogni seria costruzione scientifica.

Soltanto oggi, attraverso l’analisi infinitesimale e la teoria degli insiemi, è possibile ragionare con proprietà ed efficacia sull’infinito matematico; proprio perciò, tuttavia, ci rendiamo conto che i problemi avvertiti e posti dai Greci erano effettivi, non artificiosi, e che i ragionamenti di Zenone già costituiscono un approfondimento dell’analisi razio- nale dei concetti e dei termini che li esprimono.

La dialettica apparentemente distruttiva di Zenone (il quale, tuttavia, era plausibilmente impegnato a difendere il punto di vista razionale di Parmenide) deve, inoltre, far prende- re seriamente in considerazione l’ipotesi che egli si proponesse di sviluppare una teoria critica della ragione umana, di mostrare, cioè, come ogni conoscenza sia potenzialmen- te impugnabile dall’analisi razionale: per esempio, è possibile che Zenone non intendesse effettivamente negare la possibilità del movimento reale sensibile (da cui deriverebbe una condanna dei sensi), ma – pur riconoscendo la realtà del movimento – volesse richiama- re l’attenzione sulle difficoltà per la ragione umana di spiegare ciò che i sensi attestano. MELISSO Assai diversa da quella di Zenone fu la figura dell’altro continuatore di Parme- nide, Melisso (V secolo a.C.). Nato a Samo (dunque nell’area orientale di colonizza- zione greca), trascorse tutta la vita nella propria isola, dove ricoprì importanti cariche politico-militari.

Più che alla difesa delle dottrine dell’Eleate, egli si dedicò al loro sviluppo e alla loro in- tegrazione, mirando a chiarire e precisare – attraverso una sostenuta procedura dimostra- tiva – le proprietà della realtà: un notevole sforzo argomentativo, che trova un precedente solo nel poema parmenideo.

Possediamo frammenti consistenti di un suo scritto in prosa Sulla natura o sull’essere, il cui andamento dimostrativo è così sintetizzato da Simplicio:

«L’essere non è nato; ciò che non è nato non ha principio [inizio], poiché ha principio

[inizio] ciò che è nato; ciò che non ha principio [inizio] è infinito; l’infinito non è pos-

sibile che esista come secondo accanto ad altro, ma è uno; l’uno e infinito è immobile».

(Simplicio, Commento alla Fisica)

ingenerato immobile

essere senza

principio infinito uno

Melisso avrebbe portato alle estreme conseguenze le deduzioni di Parmenide su tre punti:

1.l’essere, in quanto ingenerato e incorruttibile, non ha principio o fine che costituisca limite e dunque sarà infinito: «come è sempre, così anche è necessario che sia sempre infinito»;

2.in quanto infinito sarà anche uno (se fossero due, l’uno limiterebbe l’altro): «Se fosse infinito, sarebbe uno. Se fossero due, infatti, non potrebbero essere infiniti, ma costi- tuirebbero l’uno un limite per l’altro»;

La diffidenza verso l’infinito

L’analisi razionale

Sviluppo dell’eleatismo

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3.dal momento che il mondo dell’esperienza non rivela i segni dell’essere ma è dominato dal mutamento e avvolto nella contraddizione, esso è da considerarsi frutto dell’ingan- no dei sensi («È dunque chiaro che non vedevamo in modo corretto»).

Dall’esistenza dell’essere uno, ingenerato (secondo la lezione di Parmenide) e immobi- le (per esclusione del vuoto, equiparato al nulla e riconosciuto condizione dell’eventuale movimento), Melisso avrebbe dedotto ulteriormente l’incorporeità:

«Essendo uno, esso deve essere privo di corpo. Se, invece, avesse spessore, avrebbe parti e

non sarebbe più uno». (DK 30 B9)

Un aspetto accomuna Zenone e Melisso, peraltro vissuti in aree geografiche diverse e probabilmente mai entrati in contatto diretto: la radicalizzazione delle posizioni di Par- menide con l’azzeramento dello spazio dell’opinione. È possibile infatti rilevare due accentuazioni significative:

1.l’insistenza sull’uno quale segno dell’essere, con la conseguente opposizione alla mol- teplicità attestata nell’esperienza;

2.il rifiuto del mondo fenomenico, con la dissoluzione sistematica dei comuni presup- posti della sua interpretazione (a partire dal movimento).

1.Che relazione c’è tra il pensiero di Zenone e Melisso e quello di Parmenide? 2.Qual è il senso degli argomenti di Zenone?

3.Quali sono le accentuazioni originali dei due autori rispetto al pensiero di

Parmenide?

4.In quale direzione si sviluppa il pensiero di Melisso?

FISSIAMO LE IDEE

Una molteplicità di principi: