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primo lógos (discorso), «sulla verità» (perì alétheias), articolato in: 1) introduzione dei presupposti teorici di fondo e rilievo delle loro immediate conseguenze (questa

Una lezione divina: Parmenide

2. primo lógos (discorso), «sulla verità» (perì alétheias), articolato in: 1) introduzione dei presupposti teorici di fondo e rilievo delle loro immediate conseguenze (questa

parte è conservata); 2) confutazione dell’errore di fondo nell’indagine sulla realtà (ne conserviamo i rilievi essenziali); 3) esposizione dei caratteri positivi della realtà (essere)

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Interessi scientifici

Parmenide poeta

Struttura del poema

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coerentemente desumibili dai principi introdotti (integralmente conservata: si tratta del più consistente reperto della sapienza greca arcaica);

3.secondo lógos, sulle «opinioni mortali» (dóxai brótai ): la parte più ampia del poema (probabilmente rappresentava da sola i 2/3 dell’intera opera, che doveva consistere di almeno un migliaio di versi), dedicata a una ricostruzione plausibile del mondo naturale, articolata in una sezione cosmologica e in una biologica. A dispetto della sua originaria consistenza, ne conserviamo solo pochi frammenti.

Sulla

natura primo lógos

rivelazione della verità

secondo lógos opinioni mortali mondo naturalericostruzione proemio

drammatico viaggio straordinario al cospetto della Dea

biologia

cosmologia

IL PROEMIO I versi del proemio sono stati in passato spesso ignorati, quasi fossero un inutile orpello, un insignificante ammiccamento alla tradizione poetica; ovvero sono stati sottoposti a interpretazione allegorica, alla ricerca di un senso allusivo, di metafore e simboli. Di recente, invece, sono stati oggetto di nuova attenzione: nei particolari del Una rivelazione...

La scuola pitagorica coltivò l’ideale del sa- piente iniziato e puro; l’esaltazione del sa- piente, inteso però in senso diverso, fu tema prefe- rito anche da Senofane (attivo nei secoli VI-V a.C.). Nato a Colofone, città a nord di Mileto, fu poeta- cantore e viaggiò a lungo per tutto il mondo greco, soggiornando spesso a Elea, forse mediandovi i temi caratteristici della riflessione ionica. Morì quasi cen- tenario.

Dalle osservazioni compiute durante i suoi viaggi Senofane trasse probabilmente la critica radicale delle idee religiose dei Greci, caratterizzate da un grossolano antropomorfismo: «Omero ed Esiodo – afferma – hanno attribuito agli dei tutto ciò che per gli uomini è onta e biasimo, come il rubare, il fare adulterio e l’ingannarsi a vicenda». Il fatto è che gli uomini raffigurano gli dei a propria immagine e so- miglianza: «Gli Etiopi dicono che i loro dei sono neri e hanno il naso camuso, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi»; e «se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e potessero disegnare, raffigure- rebbero gli dei simili ai buoi, ai cavalli e ai leoni». In opposizione all’antropomorfismo, Senofane so- stiene l’esistenza di un dio, «tra gli dei e tra gli uomini il più grande, né per aspetto simile ai mortali, né per intelligenza», il quale «sempre nell’identico luogo permane senza muoversi per nulla, né gli si

addice recarsi or qui or là»; egli «tutto intiero vede, tutto intiero pensa, tutto intiero ode» e «senza fa- tica con la forza del pensiero tutto scuote». Per tali affermazioni Senofane è stato ritenuto (probabil- mente a torto) precursore della scuola di Elea. La diversità del principio rispetto alle immagini uma- ne porta Senofane a segnalare i limiti della cono- scenza: «Il certo nessuno mai lo ha colto né alcuno ci sarà che lo colga e relativamente agli dei e relati- vamente alle cose. [...] A tutti è dato solo l’opinare». Egli ha tuttavia fiducia in una sapienza umana, che si rinnova continuamente nella ricerca: «Non è che gli dei abbiano rivelato tutte le cose ai mortali fin da principio, ma col tempo essi cercano e trovano il meglio».

Fu appunto tale sapienza umana, non rivelata né ini- ziatica, che Senofane affermò come fondamentale valore civile, in opposizione alla «virtù agonale» (competitiva), a suo avviso troppo esaltata nelle città della Grecia:

«Perché più vale la nostra saggezza che non la forza fisica degli uomini e dei cavalli [...] e non è giusto apprezzare più la forza che la benefica sag- gezza. Difatti, che ci sia tra il popolo un abile pu- gilatore o uno valente al pentatlon o nella lotta o nella velocità delle gambe, non per questo ne è avvantaggiato il buon ordine della città [...] non è questo infatti che impingua i granai della città».

(DK 21 B2)

SENOFANE E L’ESALTAZIONE

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viaggio straordinario, lontano dai sentieri battuti dagli altri uomini, su un carro guidato dalle figlie del Sole verso i confini del mondo, dove i sentieri di Giorno e Notte si incon- trano, qualcuno ha voluto cogliere un riferimento al luogo di accesso all’Ade (regione privilegiata della rivelazione nella poesia omerica), altri al limite della regione celeste. In ogni caso il viaggio descritto sarebbe da intendere come il resoconto di un’esperienza eccezionale (secondo alcuni “sciamanica”), che il poeta evocava nel canto e nel metro propri dell’ispirazione divina delle Muse omeriche ed esiodee: elementi da non trascurare per comprendere adeguatamente la complessità della sapienza arcaica.

La Dea, che accoglie e rassicura il poeta, propone un vero e proprio programma di inse- gnamento [ T6], cui sono riconducibili i due discorsi (su verità e opinione umana) nei quali, come abbiamo visto, si ritiene fosse articolato il poema: in questo senso, dallo stra- ordinario incontro scaturiva una lezione a un tempo logica (soprattutto nel primo lógos) e scientifica (la grande sintesi del secondo lógos), mentre il contesto narrativo (il luogo di tangenza di Giorno e Notte, di luce e tenebra) prefigurava probabilmente il modello esplicativo proposto per il mondo naturale.

viaggio del poeta denuncia errori umani

esposizione adeguata delle opinioni umane esposizione della verità

incontro con la Dea rivelazione

LE VIE DELLA RICERCA Dopo l’esordio, in apertura della rivelazione vera e propria, la Dea, invitando il proprio interlocutore ad aver cura delle parole che sarebbero seguite, propone una netta disgiunzione tra percorsi d’indagine, «le uniche vie di ricerca per pen- sare» [ T6]:

1.l’una, che pensa «che “è” e che non è possibile che non sia», è quella che rileva l’evi- denza immediata dell’essere con la semplice (e pura) affermazione: «è» (éstin, esiste, è vero), marcando l’impossibilità di negarla (non è possibile non essere); nei versi suc- cessivi, di questa via di ricerca sarà esplicitato il soggetto: «l’essere [éon, ciò che è] è»; 2.l’altra, che pensa «che “non è” e che è necessario che non sia», manifesta la radicale

negatività del non-essere. Essa, infatti, contraddice («non è») l’evidenza affermata nella prima via, sottolineando la propria negazione (è necessario non essere): nel fram- mento 6 si ribadirà: «il nulla non è». Come la Dea si affretta a osservare, «ciò che non è» (to me eón) non si può propriamente conoscere, né esprimere. Questa seconda via, di conseguenza, si può prospettare (in quanto alternativa all’evidenza: «è»), ma non si può concretamente percorrere (è priva di contenuti).

... e il suo programma Rivelazione e verità dell’essere T6 L’alternativa «è», «non è»

Essere Il sostantivo greco to ón (o to eón nel dialetto

ionico), participio sostantivato da eînai (“essere”), indica:

1. l’“ente” (come il corrispettivo latino ens), ciò che è, la

“cosa” (ta ónta sono comunemente “le cose”); 2. “tutto ciò che è”, e in questo senso è contrastato dall’espres-

sione to me ón (il non essere); 3. quanto è immutabile, imperituro ed eterno nella realtà, in contrasto con ciò

che diviene, è instabile.

Il termine in Parmenide ricorre in tutti e tre i significati: nel primo senso, al plurale, nei composti apeónta (cose assenti/lontane), pareónta (cose presenti/prossime); nel secondo, designando la totalità del reale, nella quale l’intelligenza riconosce raccolti i singoli enti della nostra esperienza; nel terzo, quando il discorso della Dea si concentra sulle proprietà del reale (i «segni» della «via che è»).

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Si tratta, dunque, di due vie incompatibili: l’immediato rilievo dell’essere («è») e la contestuale constatazione dell’impraticabilità dell’alternativa («non è»), perché il non- essere non è disponibile, escludono la possibilità di una terza via d’indagine, intermedia. In tal modo Parmenide vuol far prendere coscienza del fatto che ogni percorso di ricer- ca deve necessariamente (e coerentemente) riferirsi a «ciò che è» (to eón, l’essere), senza prendere sul serio il riferimento al non-essere.

La prima via è presentata come via della persuasione, in quanto conduce alla verità: lungo il suo percorso l’intelligenza umana (noûs) può manifestare i caratteri, i «segni», di ciò che è, della realtà. [ T8]. La seconda via, ovviamente, è radicalmente da scartare.

vie per pensare

È e non è possibile che non sia

NON È ed è necessario che non sia

evidenza immediata

dell’essere verità contraddice

l’evidenza informazioniassenza di

PARMENIDE E IL PENSIERO IONICO In un linguaggio sorprendentemente astratto, in cui sono sistematicamente implicate nozioni come essere, non-essere, necessario, possibile,

impossibile, che evidenziano lo sviluppo di sempre più raffinate tecniche argomentative,

Parmenide ribadisce in modo originale la sostanza della ricerca ionica.

Se i Milesi avevano ricondotto, in ultima analisi, la molteplicità degli enti alla stabi- le unità di un principio, ed Eraclito ulteriormente raccoglieva le «cose che accadono» nell’unità del lógos, insistendo sull’immutabile ordine universale (kósmos), il sapiente di Elea (in questo vicino a Eraclito) ricava dalle varie indicazioni e proposte cosmologiche un fondamentale, comune denominatore: l’essere.

«Considera come cose che pur sono assenti, alla mente siano saldamente presenti; infatti non potrai recidere l’essere dal suo essere congiunto con l’essere,

né come disperso dappertutto in ogni senso nel cosmo,

né come raccolto insieme». (DK 28 B4. Trad. di G. Reale)

L’essere e i suoi predicati T8 L’essere come denominatore comune

Verità Il termine alétheia è espressione privilegiata per “verità” e riceve un’attestazione particolare nel poema parmenideo.

Circa la sua etimologia esistono sostanzialmente due po- sizioni. In base alla prima, alétheia deriverebbe dal verbo

lantháno (“essere nascosto”, “sfuggire a”) attraverso l’uso dell’alfa privativo: il significato sarebbe dunque qualcosa come “non nascondimento”, “non occulta- mento”. In base alla seconda, invece, il termine derive-

rebbe dal sostantivo léthe (dimenticanza) e indichereb- be quindi “non dimenticanza”. Insomma, da un lato,

con “non nascondimento” sarebbe marcata una condi- zione oggettiva; dall’altro, rinviando alla “non dimenti- canza”, alétheia implicherebbe piuttosto una condizione propria del soggetto.

Così nella sua prima accezione il sostantivo alétheia e l’aggettivo derivato (alethés) avrebbero finito – da Ome- ro a Parmenide – per riassorbire il significato oggettivo di altri termini che indicano “realtà e genuinità”; nel-

la seconda, invece, la connotazione soggettiva di un’e- spressione omerica che veicola l’idea di “non sbagliare”,

“non mancare” (l’obiettivo).

Pensando al poema di Parmenide è opportuno osservare la stretta connessione delle due matrici: l’essere manife- sto (o “non occulto”) implica comunque il riferimento a qualcuno cui tale manifestazione appare. La verità

è in questo senso una condizione dell’oggetto che però necessariamente coinvolge una corrispondente disposi- zione del soggetto (la sua intelligenza).

Noûs, nóos Il termine greco si può tradurre con “intel- ligenza”, “pensiero”, “intuizione”, dal momento che

indica la facoltà somma attribuita all’uomo. Non si trat- ta di un pensare generico, di un qualsiasi esercizio della capacità razionale: noûs (o nóos) e il verbo noéin indica- no, per lo più, un vedere vero e proprio, con l’occhio del- la mente, oltre le apparenze ingannevoli, una specifica

visione dell’intelligenza, che afferra la realtà. In questo

senso già negli autori antichi (Eraclito, Parmenide, Anas- sagora, Democrito) noûs designa il contatto della mente con la realtà, un appropriarsi con l’intelligenza ciò che si ha di fronte.

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L’intelligenza (noûs) sa vedere oltre le apparenze e le differenze, e raccoglie gli enti (vici- ni, lontani, presenti, assenti) in un intero – il loro denominatore – che Parmenide desi- gna appunto come essere (to eón, eînai), da cui il nulla è necessariamente tenuto lontano. È dunque in forza delle capacità di discernimento (nóein) che il sapiente può riassumere la pluralità delle cose (eónta) nella compatta identità e unità dell’essere (to eón).

Alla natura originaria (phýsis) gli autori ionici riducevano gli enti sottoposti a processi di generazione e corruzione: essa, infatti, permaneva al fondo del loro mutamento, incorrutti- bile ed eterna (non a caso associata al divino). Parmenide, in modo più sofisticato, esclude come logicamente contraddittoria ogni relazione tra «essere» e «non-essere» [ T7]: le due vie sono reciprocamente incompatibili, escludendo ogni passaggio dal nulla all’essere (nascita) ovvero dall’essere al nulla (corruzione). Ne andrà evitata, di conseguenza, ogni ambigua eco:

«Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono!» (DK 28 B7)

Si dovrà scongiurare dunque che una superficiale considerazione del dato sensibile (che effettivamente attesta presenza e assenza delle cose) possa tradursi nella convinzione generale che si dia realmente non essere e che l’essere abbia con esso qualche relazione. In questo senso, la Dea esorta il poeta a riflettere, valutando razionalmente («giudica con la ragione») le implicazioni del suo argomento (élenchos).

essere

cose vicine cose lontane cose assenti cose presenti

intelligenza

I SEGNI DELL’ESSERE E L’ESPERIENZA Prendere atto dell’alternativa tra le due vie signi- fica non solo escluderne la commistione, ma poter procedere a determinare le proprietà della realtà (di ciò che è), desumendole con intelligenza lungo la via «che è».

Pluralità ed essere

La confusione dei mortali

T7

Tra i punti controversi nel dibattito intorno ai frammenti del poema di Parmenide c’è quello della sua effettiva consapevolezza dei principi logici fondamentali, poi in parte fissati da Aristotele. Pur senza formale elaborazione, quando Parmeni- de sottolinea le premesse del proprio argomento e i suoi divieti («La decisione intorno a tali cose sta in questo: / “è” o “non è”»; «questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono!»; «razza di uomini senza giudizio, / dai quali essere e non-essere sono considerati la medesima cosa / e non la mede- sima cosa») fa implicitamente ricorso a quelli che si sarebbero chiamati principio di contraddizione e principio del terzo escluso.

Aristotele formula così il primo: «È impossibile che la stessa cosa, a un tempo, appartenga e non apparten-

ga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto». In altre parole, al soggetto S non può appartenere e contemporaneamente non appartenere il predicato P; cioè non è possibile ammettere contestualmente che S è P e non è P.

Il principio del terzo escluso è invece proposto in questi termini: «Tra gli opposti contraddittori non c’è un mezzo»; cioè tra i predicati contraddittori P e non P non si dà predicato intermedio: S è P o non P. Laddove sottolinea che «l’essere è, / il nulla non è» (DK 28 B6), Parmenide sembra invece far leva su un ulteriore assioma logico (implicito in quello di con- traddizione), noto come principio di identità: esso, in effetti, non è indicato tra i principi comuni neppu- re da Aristotele, e risulta messo a fuoco solo molto più tardi (XVIII secolo) con questa formula sintetica: «tutto ciò che è, è», ovvero «ogni soggetto è predi- cato di se stesso» (A = A).

PARMENIDE E I PRINCIPI DELLA LOGICA

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I «segni» (le proprietà dell’essere appunto) sono da Parmenide ricavati di fatto attraverso la confutazione delle proprietà che l’esperienza immediata e ingenua (senza controllo da parte dell’intelligenza, come denunciava anche Eraclito) ci porterebbe ad attribuire (contraddittoriamente) alle cose: molteplicità, mutabilità, mobilità, divisibilità ecc. Il costume mentale – l’«abitudine» scaturita dalle «molte esperienze» – non deve spingere a frettolose conclusioni circa i fenomeni che percepiamo. Così, quelle proprietà apparen- ti sono dissolte, alla luce della discriminazione tra essere e non-essere, come erronee con- vinzioni, in cui inconsapevolmente le due vie sono confuse.

La considerazione razionale dell’insieme della nostra esperienza ha l’effetto di farci cogliere, negli stessi fenomeni quotidiani, un nuovo oggetto d’indagine, che sfugge ai sensi ma non all’intelligenza (noûs): l’essere, appunto. Un oggetto per certi versi astratto, nella misura in cui è prospettato prescindendo dalle qualità sensibili, ma che la Dea de- termina focalizzandone razionalmente i caratteri fondamentali.

I caratteri dell’essere sono ancora in parte quelli della natura-principio ionica, ricavati tuttavia con maggiore intransigenza logica, come rivela l’insistenza sulla loro necessità.

L’essere è ingenerato, imperituro, tutto intero, uno, continuo, indivisibile, immo- bile, estraneo al processo temporale: in caso contrario, si dovrebbe ammettere (esplicita- mente o implicitamente) il non-essere. Solo a partire da tale nozione, infatti, si potrebbe propriamente parlare di generazione (passaggio dal non essere all’essere) e corruzione (il passaggio inverso), o pensare a una discriminazione dell’essere che consenta di dare reale consistenza al molteplice (parlare di più enti significa accettare che qualcosa di diverso dall’essere li divida, li differenzi), e al divenire (se l’essere muta diventa altro da sé, quindi non essere; se l’essere si muove deve darsi qualcosa di diverso da esso, nuovamente non essere ecc.).

L’impraticabilità della seconda via conduce, quindi, a risultati apparentemente para- dossali rispetto al senso comune: all’esame rigoroso dell’intelligenza, l’essere di cui parla la Dea di Parmenide rivela di esistere eternamente identico a se stesso (in una sorta di

ora senza tempo, nella misura in cui non è soggetto a mutamento), integro, omogeneo,

senza lacune al suo interno, compiuto. La sua compattezza e interezza sono accostate alla massa perfettamente curva di una sfera: un’immagine che suggerisce l’impressione che l’oggetto così delineato coincida con la realtà cosmica, prospettata come totalità in- distinta [ T8].

indivisibile intero

imperituro

ingenerato uno continuo immobile atemporale

se negate portano al Nulla considerazione razionale dell’esperienza proprietà dell’essere

GLI ERRORI DEI MORTALI Il poema di Parmenide è anche un’opera critica, tesa a de- nunciare le «opinioni dei mortali in cui non è vera certezza» (gli errori del senso comune). Sotto questa etichetta sono raccolti in realtà obiettivi diversi. Intanto l’insistenza del- la Dea sull’incompatibilità delle vie intende sottolineare le illusioni umane a proposito della loro combinazione: generazione e corruzione, mutamento, movimento – inter- pretati come processi tra essere e nulla – non saranno altro che «parole»:

La confutazione dell’esperienza ingenua Le proprietà dell’essere L’essere e i suoi predicati T8 Illusioni umane

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«saranno nomi tutte

quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non essere,

cambiare luogo e mutare luminoso colore». (DK 28 B8)

In qualche passaggio, la polemica nei confronti dei «mortali» («che nulla sanno») si fa feroce: essi sono apostrofati come uomini della contraddizione, «a due teste» (dikránoi): qualcuno ha preteso cogliervi riferimento al contemporaneo Eraclito, ma l’obiettivo potrebbe essere più ampio. La lunga (e paradossale) deduzione dei segni dell’essere, in- fatti, aveva probabilmente anche lo scopo di rilevare le incongruenze dell’indagine della natura in generale, la quale, facendo leva su processi cosmogonici, rischiava continua- mente di implicare il riferimento al non essere: era dunque urgente una rielaborazione rigorosa del modello.

VERITÀ E OPINIONE A questa esigenza rispondeva la seconda e più ampia parte del poema, dedicata alle «opinioni mortali» – che secondo alcune interpretazioni avrebbe svolto una funzione esclusivamente critica, rappresentando uno schema riassuntivo del- le cosmologie milesie e pitagoriche che Parmenide intendeva combattere. È possibile, in- vece, che essa costituisse un positivo sforzo di illustrazione del mondo naturale: ricordia- mo che il poema di Parmenide era già nella tradizione antica indicato come Sulla natura e che la proposta di una dottrina fisica è in questo senso plausibile. Inoltre, al di là del- l’evidente consistenza in versi, questa parte della lezione (rivelazione) della Dea è artico- lata con un proprio dettagliato indice interno dei contenuti (a conferma del rilievo rico- nosciutole), e sostenuta da espliciti richiami alla conoscenza:

«Tu conoscerai la natura dell’etere e nell’etere tutte quante le stelle e della pura lampada del sole lucente

le invisibili opere e donde ebbero origine,

e apprenderai le azioni e le vicende della luna errabonda dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai altresì il cielo che tutto circonda,

donde ebbe origine e come la Necessità lo guidò e costrinse

a tenere fermi i confini degli astri». (DK 28 B10)

Secondo questa interpretazione, anche Parmenide avrebbe seguito la via della comu- ne esperienza umana (e in questo senso sarebbe stata utilizzata l’espressione «opinioni mortali»), non rinunciando dunque a dar conto della molteplicità e del mutamento attestati dai sensi, ma senza cadere nella fallacia delle «opinioni dei mortali in cui non è vera credibilità».

Uno sforzo di comprensione della natura?

Opinione Il termine dóxa (da dokéo, “mi sembra”, “stimo”, “credo”; “ho l’apparenza”, “sembro”) si rife- risce a ciò che appare proponendosi a una valutazione (donde l’accezione di “fama”, “gloria”); ma il significa- to principale è quello di opinione, credenza o aspettativa che esprime il punto di vista sulle cose (come esse sem- brano), maturato dalla loro esperienza. In Parmenide ha un valore dunque ambiguo: punta a un tempo al conte- nuto che si manifesta e alla sua stima da parte degli uo-

mini (a cui quel contenuto “sembra” in un certo modo). Certamente ritroviamo in Parmenide, come già nel con- temporaneo Eraclito, un’accentuazione negativa di dóxa (come parvenza illusoria) in relazione alle «opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», delle quali si contesta la consistenza, a causa della loro natura contraddittoria. Ma, è significativo che, a proposito della seconda parte del poema (i cui contenuti sono indicati come «opinioni mortali»), si parli comunque di «conoscenza».

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Così la Dea introduce due «forme» elementari (principi) – «etereo fuoco» o «luce» (pháos) e «notte» (nýx) – connotate da alcune proprietà fondamentali: il fuoco è caldo e

luminoso, «rarefatto», «mite», «molto leggero»; la notte è «oscura», «densa», «pesante». Coerentemente con le istanze emerse dall’esame della Verità, ella esplicitamente sottoli-