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Da queste prime osservazioni, necessariamente parziali e sintetiche, si può forse già intuire l’attenzione qualitativa con cui la fisiologia, la psicologia e la neuropsichiatria italiane del primo Novecento guarda- no al cinema, «percepito come una realtà complessa ma precisa»1, e

alla sua fruizione: appare evidente come la riflessione sul nuovo me- dium si collochi all’interno di contesti epistemici, clinici e applicativi sempre più ampi e compositi, caratterizzandosi per una significativa varietà di riferimenti scientifici e culturali.

La complessità di questa riflessione dipende ovviamente anche dalla sua estesa collocazione storica. Gli oltre trent’anni che separa- no l’importante ma fuggevole osservazione sulla percezione del mo- vimento cinematografico di Ardigò dalle decine di pagine scritte da Pennacchi, all’alba del sonoro, sul cinema come agente patogeno, rap- presentano infatti un periodo lunghissimo non solo per la storia delle scienze della mente ma anche per quella del cinema e del suo pubblico. Nell’interpretazione dei contributi antologizzati è sempre necessario, quindi, tenere ben presente di quale cinema – non solo immaginato ma anche realizzato – essi discutevano, e a quali orizzonti epistemo- logici facevano riferimento. In questo sforzo di contestualizzazione, inoltre, bisogna evitare i facili parallelismi, considerando che gli autori dei contributi non sempre erano aggiornati sul piano scientifico (si è già detto, per esempio, dell’anacronistica ortodossia wundtiana di Kiesow, o del retaggio organicista che conforma per decenni la nostra psichiatria) né erano sempre ricettivi nei confronti delle trasformazio- ni del linguaggio cinematografico (si pensi in particolare a Gemelli e agli scritti psichiatrici degli anni Venti).

Teorie, sperimentazioni e osservazioni cliniche compongono quin- di un racconto tutt’altro che lineare ed evolutivo, un intreccio di slanci pionieristici ma incompiuti, di ricerche solo abbozzate o abbandonate, di inestricabili relazioni interdisciplinari, di condizionamenti ideolo- gici, ritardi e arretramenti, di autorevoli convitati di pietra (non solo Freud, per esempio, ma anche James)2.

1 Francesco Casetti, L’occhio del Novecento, cit., p. 49.

Queste ultime considerazioni vogliono mettere in guardia dalla tentazione di interpretare in chiave genealogica una riflessione scien- tifica sul cinema che pure conobbe delle trasformazioni, per quanto contraddittorie e travagliate. Ciò non significa, tuttavia, che all’interno di questa riflessione complessa non sia possibile provare a individua- re, anche in una prospettiva diacronica, il configurarsi di differenti direttrici di pensiero e sperimentazione.

Volendo ipotizzare una provvisoria sintesi, inevitabilmente schema- tica, si possono distinguere almeno due tendenze principali. Da un lato esiste una ricerca teorico-sperimentale legata allo studio dei processi della percezione, diversificata ma continuativa (da Ardigò a Musatti, passando per il testo di Ponzo del 1911 e per quello di Kiesow). Questi interventi studiano la percezione cinematografica ordinaria (ossia non turbata da alterazioni emotive o patologiche) e astratta, in funzione del- la ricerca scientifica relativa ad alcuni fenomeni psichici: la sensazione e la percezione, prima di tutto, ma anche la memoria, l’immaginazione, l’imitazione, l’emozione. Dall’altro lato abbiamo invece una linea di ri- cerca più attenta alle implicazioni psico-sociali del nuovo medium (da Rossi a Pennacchi, passando per D’Abundo, Masini e Vidoni, Mondio, Gemelli): in questi interventi, la concreta esperienza cinematografica di soggetti storicizzati e fragili è vista come un fenomeno che scatena risposte somato-psichiche di inedita intensità, da tenere quindi sotto costante osservazione. I contributi di questa seconda direttrice di ricer- ca vanno interpretati non solo nell’ambito delle scienze della mente ma anche in relazione a un più ampio progetto di edificazione di un sapere rigoroso (le scienze sociali) capace di interpretare lo sviluppo della so- cietà e di garantirne l’equilibrio.

Questa ipotesi di distinzione non va comunque intesa in termini rigidi. Esistono infatti elementi comuni a tutta la riflessione scientifica sull’esperienza cinematografica che sono per certi aspetti più coesivi dei fattori di diversità. Comune a tutti i contributi è, per esempio,

l’azione di personalità autorevoli come lo psichiatra-psicologo Giulio Cesare Fer- rari, che curò la prima traduzione italiana dei Principles of Psychology, o come Mario Calderoni e Giovanni Vailati (cfr. Luigi Pedrazzi, Il pragmatismo in Italia, «Il Mulino», I, 8-9, 1952, pp. 495-520; Antonio Santucci, Il pragmatismo in Italia, Il Mulino, Bologna, 1963; Riccardo Luccio, Psicologia e pragmatismo in Italia.

La nascita della «Rivista di Psicologia» in Guido Cimino, Nino Dazzi (a cura di), Gli studi di psicologia in Italia: aspetti teorici, scientifici e ideologici, «Quaderni

di storia e critica della scienza», 9, 1980, pp. 55-68). A fronte di questi sviluppi, tuttavia, colpisce che i soli testi micro-teorici sul cinema sensibili alla lezione di James siano firmati da due autori che non appartengono ad alcuna comunità scientifica, Giovanni Papini (La filosofia del cinematografo, cit.) e Giovanni Berti- netti (Il cinema, scuola di volontà e di energie, cit., pp. 145-150). Sulle ascendenze jamesiane in Papini cfr. Luca Mazzei, Quando il cinema incontrò la filosofia, Bian- co e Nero», LXIII, 3-4, maggio-agosto 2002, pp. 78-83.

la convinzione che l’esperienza cinematografica, nel momento in cui esce dall’ambito cronofotografico, sia un oggetto di studio sfuggente, non facilmente documentabile con i consueti metodi di misurazione sperimentale: i metodi alternativi dell’osservazione sintomatologica e dell’auto-osservazione «incidentale», per riprendere l’espressione di un giovane Musatti, non sempre sembrano sufficienti per garantire un’adeguata scientificità delle argomentazioni.

Altro elemento comune che traspare nei testi antologizzati è una concezione fortemente olistica e relativistica della percezione visiva.

Olistica, perché l’Ottocento aveva dimostrato come la visione fosse sem- pre un’esperienza che mette in gioco non solo l’occhio dell’osservatore ma anche il suo corpo, il suo sistema nervoso, la sua memoria, le sue facoltà emotive-affettive ed intellettive, la sua collocazione all’interno di un determinato ambiente. Relativistica, perché la visione è conce- pita come un processo che si sviluppa lungo la variabile temporale, sempre soggettivo, provvisorio, vincolato alle varianti psichiche e am- bientali, suscettibile di errori3.