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il modello «verticale» della visione cinematografica

Le categorie del pubblico a rischio individuate dalla riflessione scien- tifica italiana sono quasi sempre associate a un modello di esperienza spettatoriale decisamente verticalizzato dall’alto in basso, dove l’alto (l’elemento attivo) ovviamente identifica il potere delle immagini cine- matografiche e il basso (l’elemento passivo) coincide con il sistema ner- voso del singolo spettatore e del pubblico soggiogati dallo spettacolo.

In questo modello di visione, gli spettatori predisposti all’eccitazio- ne reagiscono automaticamente e passivamente davanti alle immagini quasi come se fossero le rane di Galvani rianimate da stimoli elettrici variabili e intermittenti. Lo spettatore, si scrive ancora nel 1928 in un testo non specialistico che rimastica però la letteratura scientifica de- gli ultimi quindici anni, «accetta quello che gli si offre, passivamente, senza chiedere il bello ed il buono che gli si lesina, senza reagire contro il brutto che gli vien dato a piene mani»24, coinvolto in una pavloviana

reazione riflessiva. Lo stimolo non soltanto colpisce direttamente nervi e muscoli, senza che vi sia il tempo di una mediazione dei processi in- tellettivi, ma si somatizza, si traduce in una reazione fisica del corpo, proprio come si sosteneva che accadesse nei fenomeni mesmerici.

Questa immagine del pubblico «galvanizzato» e «psicosomatizza- to» non è ovviamente una novità legata alla nascente riflessione sul

22 Mario Umberto Masini, Giuseppe Vidoni, Il cinematografo nel campo delle ma-

lattie mentali e della criminalità. Appunti, cit. (il testo è ripubblicato nella sezione

antologica di questo volume).

23 In un contributo del 1916 dedicato al recupero civile e morale dei carcerati

tramite il loro impiego in guerra, Vidoni ribadisce con convinzione che «i poveri di spirito, gli individui dotati di una mentalità inferiore […] sono frequentato- ri assidui dei cinematografi» (Giuseppe Vidoni, A proposito della «redenzione dei

condannati» mediante la guerra, «Archivio di Antropologia Criminale, psichiatria

e medicina legale», IV, IX, settembre-dicembre 1917, p. 402).

24 Mario Milani, Il pubblico al cinema, «Rivista del Cinematografo», I, 11, novembre

cinema, ma ha alle spalle una tradizione scientifica, radicata, per esempio, nelle ricerche di Thomas Laycock sulla «funzione riflessa ce- rebrale» in relazione ai fenomeni mesmerici25, e fortemente rilanciata

dalla fine dell’Ottocento grazie alle fortunate immagini, su cui torne- remo nel terzo capitolo, delle folle ipnotizzate dai meneurs ampiamen- te descritte da Tarde e Le Bon, ma anche da Freud26. Non sorpren-

de, quindi, che il pubblico cinematografico passivo «costruito», come vedremo a breve, da psicologi, psichiatri e neurologi sia così simile al pubblico teatrale descritto da Enrico Corradini nel 1908 proprio sulla base del lessico e dei concetti offerti dalla psicologia della folla: un pubblico, egli scrive, «massimamente passivo […] un mostro inerte [che ] si può rendere attivo per qualunque atto si vuole e sino al grado che si vuole […] come il fanciullo e come il popolo ingenuo che ammira ciò che non sa»27.

Le diverse costruzioni dell’immagine del pubblico come entità pas- siva andrebbero quindi correlate e studiate in un prospettiva cultura- le, intermediale e politica più articolata: occorre però anche aver cura, tuttavia, di evidenziare alcune peculiarità delle immagini di pubblico specificatamente legate al cinema, ed è proprio questo l’obiettivo che ispira le pagine che seguono.

Le analisi con pretese scientifiche legate al modello «verticale» si concentrano soprattutto sui fattori rappresentativi ed emotivi, trascu- rati da Ardigò, Ponzo, Kiesow e dallo stesso Musatti (almeno per quan- to riguarda il saggio sulla plasticità del 1929).

Lo psicofisiologo Mariano Luigi Patrizi28, nel 1914, dopo aver cele-

25 Per un’acuta rivalutazione delle pionieristiche ricerche sui riflessi mentali con-

dotte, a partire dal 1840, dal neurofisiologo Thomas Laycock cfr. Marcel Gauchet,

L’inconscio cerebrale, Il Melangolo, Genova, 1994 (ed. or. 1992), pp. 38-54.

26 Cfr. Sigmund Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’Io, in Id., Opere. 1886-

1921, Newton Compton, Roma, 2009, pp. 2323-2368 (ed. or. 1921).

27 Enrico Corradini, La psicologia del pubblico dei teatri, in Id., L’ombra della vita.

Costume-Letteratura e Teatro-Arte, R. Ricciardi, Napoli, 1908, p. 225, cit. in Enzo

R. Laforgia, Come addomesticare il mostro. Il problema della folla e la cultura rea-

zionaria tra Otto e Novecento, «Laboratoire italien», 4, 2003, p. 72 (http://labora-

toireitalien.revues.org/32).

28 Mariano Luigi Patrizi (1866-1935), dopo la laurea in medicina a Roma con Mo-

leschott, è assistente straordinario nel laboratorio di fisiologia di Angelo Mosso a Torino. Tra i principali pionieri italiani delle tecniche ergografiche, della psicotec- nica e della psicofisiologia del lavoro, si dedica in particolare ai rapporti tra attività cerebrale e lavoro muscolare. Dopo aver insegnato a Ferrara e Sassari, si trasferisce a Modena come professore di fisiologia, e in questa sede istituisce nel 1889 un la- boratorio di psicologia applicata al lavoro. Nel 1905 rinuncia alla cattedra di psico- logia sperimentale a Napoli con la speranza di succedere alla prestigiosa cattedra di antropologia criminale tenuta da Lombroso a Torino, circostanza che si realiz- zerà nel 1910. Sostenitore di una visione fortemente organicistica della psicologia,

brato le origini fisiologiche dell’invenzione del cinematografo e ricor- dato i bei tempi del primo cinema scientifico, osserva come l’attuale primato dell’elemento mimico-gestuale e l’abolizione della parola nel cinema limitino la comunicazione dell’attore con il pubblico al solo orizzonte delle emozioni, a differenza di quanto avviene nel teatro29.

Nel ridurre il cinema recitato a un circoscritto atlante animato del- la fisiognomica e, soprattutto, della patognomica, Patrizi aggiorna e ripensa in termini di comunicazione sociale un’accreditata tradizione dell’iconografia parascientifica e scientifica che muovendo dalle tavole di Charles Le Brun e Johann Caspar Lavater, e passando poi attra- verso i ritratti fotografici compositi di Francis Galton e quelli realizzati con stimoli elettrici da Duchenne de Boulogne era giunta alle impo- nenti foto-tassonomie dei volti e dei corpi realizzate da Charcot e Albert Londe alla Salpêtrière30, o da Angelo Mosso, Cesare Lombroso31 e Vitige

Tirelli32 in Italia. Proprio il nesso tra «espressioni di moti dell’animo e

orientò invece in senso fisiologico e sperimentale l’antropologia e la medicina legale. Durante la prima guerra mondiale coordina con Agostino Gemelli le selezioni psi- coattitudinali degli aspiranti aviatori. Si occupa anche di analisi psicologica della creazione artistica e dell’uomo di genio (si veda in particolare Nuovi saggi di estetica

e di scienza, Stamperia di Rinaldo Simboli, Recanati 1916). Su Patrizi cfr. Roberta

Passione, Le origini della psicologia del lavoro in Italia, cit., pp. 37-50.

29 Cfr. Mariano Luigi Patrizi, Lotta ad oltranza tra il gesto e la parola, «La Stampa»,

19 gennaio 1914, p. 2; ripubblicato nella sezione antologica di questo volume.

30 Cfr. Georges Didi-Huberman, Invention de l’Hystérie. Charcot et l’Iconographie

photographique de la Salpêtrière, Macula, Paris, 1982.

31 Sui legami tra la fisiognomica e l’antropometria lombrosiana si veda: Patrizia

Magli, Il volto e l’ anima. Fisiognomica e passioni, Bompiani, Milano 1995; Renzo Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Franco Angeli, Milano, 1985.

32 Sullo straordinario lavoro di documentazione fotografica della malattia menta-

le svolto da Tirelli si veda Bruno Bruni (a cura di), Un atlante inedito di psichiatria

clinica di Vitige Tirelli, U. Hoepli, Milano, 1971. La tradizione scientifica legata

all’iconografia del volto si intreccia nel corso del suo sviluppo con la tradizione della manualistica teatrale e con differenti dispositivi spettacolari, compreso na- turalmente il cinema. Per un inquadramento generale delle relazioni tra scienza fisiognomica, fotografia e cinema delle origini si legga l’importante contributo di Tom Gunning, In Your Face: Physiognomy, Photography, and the Gnostic Mission

of Early Film, in Mark S. Micale (a cura di), The Mind of Modernism, cit., pp. 141-

171. Sulla scarsa permeabilità della psichiatria italiana alla tradizione icono- grafica (imputabile probabilmente all’influenza della scuola psichiatrica tedesca, di matrice istopatologica e quindi poco interessata alla fotografia del corpo) cfr. Tommaso A. Poliseno, Domenico A. Nesci, Enrico Pozzi, L’iconografia psichiatrica, in Filippo Maria Ferro (a cura di), Passioni della mente e della storia, cit., pp. 427- 433. Sul rapporto tra fotografia e psichiatria è ancora utile il lavoro di Sander L. Gilman, Seeing the Insane, Wiley, New York, 1982.

mimica» aveva convinto, già nel 1911, il fisiologo Osvaldo Polimanti a proporre «l’introduzione del cinematografo in psicologia», per realizzare in futuro una sorta di grande catalogo cinematografico dei movimenti del corpo, delle espressioni facciali, della mimica e dei loro cambiamenti «sotto particolari influenze»33.

L’attenzione prestata da Patrizi al legame tra i moti elementari dell’interiorità e il corrispettivo mutamento patognomico rientrava in un suo più vasto interesse per lo studio dei legami tra fisiognomia, mimica ed emozioni34 che lo psicologo aveva ereditato dal suo maestro,

il già ricordato Angelo Mosso. Su questi temi, però, Patrizi converge anche con quanto aveva scritto alcuni anni prima Scipio Sighele in merito all’egemonia del visivo e delle emozioni nelle dinamiche della suggestione collettiva: secondo il sociologo di origine bresciana,

l’attività intellettuale non poteva essere comunicata per mezzo della suggestione dal singolo al gruppo perché essa non aveva mezzi visibili di trasformazione. Al contrario, le emozioni poteva- no essere comunicate proprio perché essendo visibili all’esterno venivano dapprima recepite dagli organi sensoriali e successi- vamente riprodotte in modo automatico dagli astanti35.

Se, come osserva Quaresima, buona parte del discorso internazio- nale sul cinema negli anni Dieci è «dominato […] dal tema della respon- sabilità e peculiarità della gestualità e della mimica cinematografica»36,

questa generale attenzione al gesto e ai suoi controversi rapporti con la parola era imputabile anche allo sviluppo, nell’ambito scientifico, delle ricerche antropologiche ed etnografiche sulle possibili origini gestuali del

33 Queste citazioni sono tratte da uno studio di Polimanti risalente al 1911, citato

da lui medesimo in un altro suo testo in lingua tedesca del 1920 (Osvaldo Poli- manti, Die Anwendung der Kinematographie in den Naturwissenschaften, in Paul Liesegang, Wissenschaftliche Kinematographie, Leipzig, Ed. Liesegang, 1920, pp. 257-329 [tr. it. L’utilizzo della cinematografia nelle scienze, nella medicina e

nell’insegnamento, Carocci, Roma, 2011]). Il fisiologo umbro, tuttavia, non forni-

sce nell’auto-citazione i riferimenti bibliografici precisi del testo del 1911: potrebbe trattarsi di Kinematograph in der biologischen und medizinischen Wissenschaft, «Naturwissenschaftliche Wochenscrift», XXVI (Neue Folge 10), 49, 1911, pp. 769- 774. Sul rapporto di Polimanti con il cinema cfr. Lorenzo Lorusso, Virgilio Tosi, Giovanni Almadori (a cura di), Osvaldo Polimanti: il cinema per le scienze, Roma, Carocci, 2011.

34 Cfr. per esempio Mariano Luigi Patrizi, Le ripetizioni della fisionomia umana,

«Varietas», marzo 1906, poi in Id., Nuovi saggi di estetica e di scienza, cit., pp. 29-37.

35 Damiano Palano, Il potere della moltitudine, cit., p. 311.

36 Leonardo Quaresima, Introduzione, in Béla Balász, L’uomo visibile, Lindau,

linguaggio37, e alla correlata riscoperta del primitivo38. Patrizi si colloca

senz’altro, come altri osservatori italiani del tempo39, in questo contesto,

ma la sua posizione sul primato del gesto al cinema, tuttavia, è assai lontana dalle aperture all’espressività del gesto stesso, rintracciabili in altri ambiti della riflessione teorica degli anni Dieci e Venti, distanti dai residui tardo-positivisti così come dai vincoli della speculazione scien- tifica e più sensibili invece all’edificazione di una teoria specificamente cinematografica.

Patrizi infatti, pur cogliendo la centralità del gesto nel cinema, non ne discerne il potenziale comunicativo e simbolico: per lui la gestuali- tà è più che altro un oggetto di studio fisiologico, come il movimento. L’adesione pressoché incondizionata ai dettati di un evoluzionismo lo- gocentrico lo porta a vedere nel cinema non un progresso della mo- dernità (al contrario del microscopio, del microfono, della cronome- tria) ma una regressione atavistica, un fenomeno di arresto e arretra- mento paleo-archeologico nello sviluppo dell’uomo, perché abolendo il «quadruplice centro della parola, organizzato con paziente lavorìo

37 Una traccia evidente dell’influenza delle teorie sull’origine gestuale del linguaggio

è nel testo di Pasquale Rossi riportato nella sezione antologica (Pasquale Rossi, Psi-

cologia collettiva, cit., p. 22): «In seguito», scrive Rossi, «per raccogliere e per trasmet-

tere i moti dell’animo, l’uomo ha perfezionato, inconsapevolmente dapprima, consa- pevolmente di poi, il linguaggio, che è passato a traverso la mimica, l’interiezione, la lingua monosillabica e radicale, fino ai complessi idiomi moderni».

38 Sulla riscoperta del primitivo e sul rapporto tra etno-antropologia e cinema

delle origini, ma in riferimento al contesto tedesco, cfr. Assenka Oskiloff, Pictu-

ring the Primitve. Visual Culture, Etnography and Early German Cinema, Palgra-

ve, New York, 2001.

39 Tra gli interventi che si occupano di cinema tra gli anni Dieci e Venti, sono

numerosi quelli che affrontano il tema del gesto cinematografico, considerando- lo spesso come uno snodo cruciale del rapporto tra cinema e teatro, ma anche tra passato e modernità, tra corpo e mente, tra incultura e cultura, tra massa e individuo, tra illusione e coscienza del fittizio, ecc. Prezzolini, per esempio, at- tribuisce alla centralità del gesto la ragione di alcune specificità del cinema «che il teatro deve evitare»: «la natura animata, l’ambiente strano, il trucco sorpren- dente, e scene fortemente agitate» (cfr. Giuseppe Prezzolini, Problemi del cinema-

tografo, 1914, poi ripubblicato in Id., Paradossi educativi, La Voce, Roma, 1919,

pp. 58-66). Per Gemelli, nel saggio riportato in questo volume (Le cause psicologi-

che dell’interesse nelle proiezioni cinematografiche, cit.), l’eloquenza del gesto del

personaggio cinematografico è la principale risorsa a sostegno di quel domino assoluto del fatto tipico del cinema, in opposizione alle astrazioni e deduzioni del linguaggio verbale. Fabio Pennacchi, nel saggio che chiude la sezione antologica di questo volume, ritiene che proprio il gesto mostrato «nel suo svolgimento dina- mico» consenta allo spettatore di provare «la doppia illusione di sognare e di agire velocemente», mentre nello spettacolo teatrale «la parola ed altre circostanze di ambiente impediscono che si produca tutto lo speciale incanto del cinema».

di millenni su quattro zone della corteccia grigia» e potendo ricorrere, come accade a molti pazienti isterici, esclusivamente all’espressione gestuale, attiva soltanto l’«istantaneo intendimento», ossia le facoltà, più primitive, dei riflessi e dell’istinto. La sua analisi dei gesti e delle espressioni di attrici e attori, attenta a sottolineare gli eccessi, l’agita- zione alternata alla posa contratta, la tendenza a trasformare i corpi in «fantocci, che, premuti sullo sterno di legno, avvicendano le ma- novre centrifughe e centripete dei loro rigidi arti»40 evoca quella più

ampia patemizzazione nevrotica del gesto al cinema interpretata da più parti come un segno evidente della crisi storica epocale del corpo tra Otto e Novecento41.

Quindici anni dopo, De Sanctis, che già nei primi del secolo aveva condotto una serie di ricerche sul rapporto tra la mimica e il pensie- ro42, esprimerà una convinzione del tutto opposta: richiamandosi «ai

riti e alle cerimonie, alla iterazione dei gesti misteriosi, alla imposi- zione delle mani, alle benedizioni», egli riconoscerà ai gesti cinema- tografici le stesse proprietà che Benussi attribuiva ai segni verbali (essere «conduttori di realtà», esprimere una «funzione intellettiva cre- atrice» che concorre «a determinare il comportamento fisico e mentale dell’individuo»43).

La posizione di De Sanctis sul valore intellettivo e persino psicoso- ciale del linguaggio gestuale, comunque, è minoritaria. Gli effetti del dispotismo del fattore emotivo e delle facoltà intuitive, diretta conse- guenza di un’alterazione delle facoltà di dominio e controllo indotta da stimoli esterni, sono infatti descritti dalla letteratura scientifica quasi sempre con preoccupazione. Proprio negli stessi anni, d’altronde, la ricerca psichiatrica stava dimostrando, anche in Italia, che «gli stati affettivi hanno un’influenza determinante sulla genesi e lo sviluppo dei deliri e di alcune psicosi»44.

L’effetto che suscita maggiore allarme è la confusione tra reale e irreale. Nel 1907 l’autorevole psicologo e filosofo Francesco De Sarlo aveva negato che nell’esperienza cinematografica un soggetto potesse

40 Mariano Luigi Patrizi, Lotta ad oltranza tra il gesto e la parola, cit., p. 2. 41 Sul nesso tra gestualità, nevrosi e cinema del primo Novecento cfr. Pasi Välia-

ho, Mapping the Moving Image: Gesture, Thought and Cinema Circa 1900, cit.

42 Cfr. Sante De Sanctis, La mimica del pensiero. Studi e ricerche, Sandron, Mila-

no, 1903-1904.

43 Questa presa di posizione teorica di De Sanctis a favore del gesto è quasi iden-

tica a quella espressa nel 1912 dal già ricordato Edouard Toulouse, in un inter- vento di carattere divulgativo (molto lontano, per altro, dalla complessità di un intervento come quello pubblicato da Mario Ponzo in Italia nell’anno precedente). Cfr. Edouard Toulouse, Psychologie du cinéma, «Le Figaro», 28 agosto 1912 (ora in «1895», 60, 2010, pp. 125-131).

44 Mario Quaranta, La sperimentazione psicologica in Giulio Cesare Ferrari, in

essere così emotivamente coinvolto da scambiare contenuti della fan- tasia per contenuti reali. Il cinema infatti non aveva, a suo giudizio, una sufficiente complessità rappresentativa per proiettarci in «una vita psichica del tutto diversa da quella che effettivamente viviamo»:

È bene osservare subito però come si richiedano certe condi- zioni affinché i fantasmi dei fatti psichici, (sentimenti, deside- ri, ecc.) acquistino consistenza; così le scene messe sott’occhio mediante il cinematografo, per quanto valide a fornirci una co- gnizione abbastanza viva o intuitiva di eventi compientisi molto lontano nello spazio e nel tempo, non hanno mai tanta forza da suscitare sentimenti, emozioni, desideri riflessi o fantastici. Occorre dunque che la rappresentazione giunga a tal grado di complicazione, di coerenza da suscitare in primo luogo un ab- bozzo di credenza e poi degli stati affettivi, appetitivi ecc. che, per quanto illusori, hanno però tale forza da produrre in noi uno stato d’interna agitazione45.

La posizione di De Sarlo, tuttavia, è isolata. Dal decennio succes- sivo, anche in relazione alla progressiva egemonia del cinema narrati- vo, si fanno più numerose le voci che vedono nel cinema un’esperienza capace di mettere gravemente in crisi il principio di realtà, dando con- sistenza a quei «fantasmi dei fatti psichici» evocati da De Sarlo. In que- sto caso, nel processo di attivazione della «corrente psichica che lega chi sta seduto in poltrona a un universo ‘altro’»46 non si compie quella

liberatoria «scarica emotiva che da Aristotele in poi abbiamo imparato a riconoscere come propria dello spettacolo recitato»47: in altri termini,

riprendendo una più tarda distinzione proposta da Cesare Musatti, la

catarsi è rimpiazzata dalla suggestione48.

Il fenomeno è già descritto da Ardigò nel 1870, ovviamente in rela- zione al teatro: tra i casi frequenti di integrazione da sostituzione, in cui il dato associativo prevale sul dato sensitivo, rimuovendo quest’ul- timo quasi interamente, Ardigò ricorda quelli vissuti dagli spettatori teatrali, quando la loro fantasia è talmente eccitata da portarli a

sostituire le persone immaginate relative all’azione messa sulla scena a quelle vedute veramente degli attori; e si sa che molte

45 Francesco De Sarlo, La fantasia nella psicologia contemporanea, «La Cultura

Filosofica», I, 6, 15 giugno 1907, pp. 145-150.

46 Peppino Ortoleva, Una specie di transfert, in Carmelo Vigna (a cura di), Etica e

spettacolarità, in corso di stampa.

47 Ibidem.

48 Cfr. Cesare Musatti, Scritti sul cinema, Testo e Immagine, Torino, 2000, p. 56.

Sulla dialettica tra catarsi e suggestione cfr. Dario Romano, Introduzione, in Ce- sare Musatti, Scritti sul cinema, cit., p. 16.

volte è avvenuto di spettatori così ingenui, che dimenticarono tanto di assistere ad una finzione, che corsero sul palcoscenico a trattenere il truce tiranno, che stava per immolare la inerme vittima innocente49.

La descrizione ardigoiana del pubblico teatrale in preda alla sugge- stione si inserisce in una storia plurisecolare di smarrimenti e potenti suggestioni collettive indotte dall’esperienza di uno spettacolo che pare unire passato e modernità in una comune mitizzazione, legando l’anti- ca immagine degli spettatori terrorizzati delle prime tragedie greche al fortunatissimo stereotipo primo novecentesco dello spettatore cinema- tografico colto dal panico all’arrivo del treno dei Lumière50, passando

per il terrore indotto dalle proiezioni secentesche di lanterna magica o dalle fantasmagorie di Robertson51. Nei processi di modernizzazione,

caratterizzati da un «epistemological shift from psychological transla- tion to material transposition, which is inaugurated by technologies of automation and mechanical reproduction»52, la fortuna di questa

immagine dello spettatore incapace di distinguere la presenza dalla rappresentazione, il mondo dall’immagine, ovviamente era destinata a intensificarsi.

La crisi della coscienza del fittizio indotta dal cinema è diagnosti- cata in numerosi interventi. Già Ponzo, nel 1911, cita il caso dell’ap-