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la persistenza delle immagini nella memoria

Da queste ultime considerazioni sull’immagine cinematografica come agente ora patogeno e ora – ma in misura decisamente più margina- le – terapeutico, appare sempre più evidente come nella dialettica tra attivismo e passività del soggetto spettatoriale che anima, fuori e den- tro la comunità scientifica, la riflessione sul cinematografo, il secondo termine della relazione, senza dubbio prevalente, si presenti spesso come una sorta di facile degenerazione della positività del primo: sia il nuovo medium, sia il suo nuovo spettatore, in altri termini, lasciano intravedere potenzialità psicologiche positive che tuttavia, nella con- creta esperienza di incontro tra l’immagine animata e l’occhio, restano inespresse, a profitto invece delle componenti psicologiche negative.

Un ultimo territorio infrapsichico su cui verificare i dettagli di que- sta progressiva criticizzazione dei processi percettivi e rappresentativi legati al cinema e alla sua fruizione psichica è rappresentato da due ambiti cruciali, e intimamente correlati, della riflessione scientifica

finanziaria, Praxis, Torino, 1911; Id., Il nuovo mondo è tuo: l’arte del successo in tutte le manifestazioni della vita, Lattes, Torino, 1922.

95 Ivi, p. 147. 96 Ibidem. 97 Ivi, p. 150. 98 Ivi, p. 149.

e filosofica di quel periodo: le rappresentazioni mnemoniche e la for- mazione di immagini eidetiche, cioè puramente mentali, soggettive e «riprodotte», ma con forti caratteri di realtà99.

Gli storici delle scienze psichiche sono pressoché concordi nel ri- conoscere alla memoria un ruolo centrale per «la comprensione del funzionamento psichico alla fine del XIX secolo»100. Nella stagione pio-

nieristica della percettologia scientifica italiana, la memoria è studiata come una dimensione psichica fondamentale della percezione, ed è una facoltà attiva che prelude a un atto di volontà del soggetto. Già nel 1870, Ardigò, affermando che la rappresentazione ha sempre «il suo lato dell’esteriorità […] e il lato dell’interiorità»101, associa il presente al

primo lato e il ricordo al secondo. L’esperienza percettiva, quindi, non è determinata solo da fattori sensoriali: in essa, la sensazione pura è integrata con un’attività psichica che completa i dati sensitivi di base, li integra con dati astratti, elide o sostituisce i dati superflui o non utili102. In questo processo dinamico un ruolo importante è svolto non

solo dalle inferenze ma anche, appunto, dalle immagini conservate nella memoria.

Gli studi scientifici dell’epoca che si occupano della percezione ci- nematografica, ed eventualmente delle sue ricadute sulla salute psi- chica, riconoscono anche nell’esperienza soggettiva della sala questo ruolo decisivo della memoria, capace di riattivare e presentificare il ri- cordo. Se è da tutti condivisa la convinzione che, come ricorda Pasquale Rossi, «ciò che una volta è comparso insieme nel campo della psiche, tende a ridestarvisi»103, le posizioni tuttavia si diversificano quando si

tratta di riconoscere i tempi, le modalità e gli effetti dell’azione svolta dai ricordi della visione di immagini cinematografiche e della loro re- lazione con il presente vissuto dal soggetto.

Come si è già visto, infatti, i contributi di Ponzo (1911), Kiesow e Musatti identificano nell’attività integrativa (o, nel caso di Musatti, strutturante) svolta dal ricordo di esperienze precedenti una funzio- ne risolutiva per il funzionamento della percezione cinematografica.

99 La ricerca sui fenomeni eidetici è particolarmente sviluppata in Germania dai

primi anni Dieci da Erich Rudolf Jaensch.

100 Marcel Gauchet, L’inconscio cerebrale, cit., p. 58. Sulla centralità della memo-

ria nel rapporto tra inconscio freudiano e media del primo Novecento cfr. Thomas Elsaesser, Freud e i media tecnologici: la perdurante magia del Wunderblock, in Lucilla Albano, Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi, cit., pp. 81-107.

101 Roberto Ardigò, La psicologia come scienza positiva (1870), in Id., Opere filoso-

fiche, vol. I, Angelo Draghi, Padova, 1882, p. 169.

102 Cfr. Wilhlem Büttemeyer, Roberto Ardigò e la psicologia moderna, La Nuova

Italia, Firenze, 1969, pp. 34-54.

103 Pasquale Rossi, Psicologia collettiva, cit., p. 22. Il contributo di Rossi è parzial-

Differente, e più preoccupata, è invece la posizione di coloro che, come D’Abundo, Lojacono, Masini e Vidoni, Mondio, Pennacchi studiano non tanto il durante, il farsi della percezione dell’immagine cinemato- grafica, quanto il disfarsi, il dopo, il darsi del ricordo di questa perce- zione nella produzione dei fenomeni suggestivi.

Se negli studi della nascente psicologia collettiva si teorizza l’as- soluta immediatezza della reazione allo stimolo della suggestione104,

per gli studiosi appena citati la specifica eccitazione indotta dall’im- magine animata sembra invece indurre nello spettatore reazioni meno veloci e per questo più imprevedibili105. Volendo usare una metafora

batteriologica, in linea con le scoperte biologiche dell’epoca, l’immagi- ne cinematografica penetra nel sistema nervoso dello spettatore con la stessa invisibile insidiosità di un germe, e proprio come accade per i germi, la sua patogenia ha un certo tempo di incubazione e poi diven- ta attiva, generando fenomeni allucinatori. Questa interpretazione del decorso post-cinematografico ed endopsichico delle immagini non è un elemento di novità scientifica incoraggiato dalla progressiva affer- mazione del cinematografo, quanto piuttosto la radicalizzazione di un fenomeno già descritto nel secondo Ottocento (si vedano, per restare nel contesto italiano, gli influenti studi sulla genesi delle allucinazio- ni prodotti da Augusto Tamburini106), e poi sviluppato da un ampia

letteratura sul fenomeno del falso riconoscimento o paramnesia107.

Secondo Tamburini, la genesi del fenomeno allucinatorio andrebbe

104 Scipio Sighele, per esempio, sostiene che l’uomo della folla sottoposto allo sti-

molo della suggestione, passa «dall’idea all’atto con una celerità spaventevole» (Scipio Sighele, La folla delinquente, cit., p. 81).

105 Al postulato dell’immediatezza aderiscono tuttavia anche alcuni degli psico-

logi presenti nella sezione antologica di questo volume. È il caso, ad esempio, di Mariano Luigi Patrizi: lo psicofisiologo, nel suo testo del 1914, riferendosi alle reazioni del pubblico ricorre all’espressione, inequivocabile, di «istantaneo inten- dimento».

106 Cfr. Augusto Tamburini, Sulla genesi delle allucinazioni, «Rivista Sperimentale

di Freniatria», 6, 1880, pp- 126-154 (ripubblicato in «Rivista Sperimentale di Fre- niatria», 2, 2006, pp. 13-40). Sui fenomeni allucinatori nelle ricerche di Tamburini si veda: Salvatore Mazza, Antonella Mazzoni, Il modello epilessia in psichiatria. Au-

gusto Tamburini e la genesi delle allucinazioni, in Filippo Maria Ferro (a cura di), Le passioni della mente e della storia, cit.; Valeria Paola Babini, Come nascono le allu- cinazioni? Da Esquirol a Tamburini, «Rivista sperimentale di freniatria», 2, 2006, pp.

41-50. Per un’introduzione alla teoria psichiatriche ottocentesche sull’allucinazione cfr. Monica Ghidoni, Utopie ed eterotopie del corpo: le allucinazioni agli albori della

psichiatria, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Verona, 2011.

107 Per una sintesi problematica delle riflessioni dell’epoca sul falso riconoscimen-

to cfr. Giuseppe Fanciulli, Intorno al falso riconoscimento, «La Cultura Filosofica», I, 12, 15 dicembre 1907, p. 328-338.

infatti cercata nei centri corticali, «depositi di immagini sensorie»108

all’epoca ancora vagamente localizzati e poco conosciuti dal punto di vista del loro funzionamento:

L’eccitamento morboso dei centri sensori corticali darà origine a falsi sensazioni. Esso risusciterà, cioè, da quei ricchi deposi- ti delle impressioni ricevute, una o più immagini sensoriali, e quando per la sua intensità faccia entrare queste immagini nel dominio della coscienza, quelle si presenteranno a questa con tutti i caratteri della realtà109.

Il primo, ancora una volta, a sottolineare tale particolarità nel de- corso suggestivo successivo alla visione cinematografica è D’Abundo. La proiezione cinematografica, egli sostiene, non agisce determinando un fulmineo shock nel sistema nervoso ma «esplica silenziosamente la sua influenza, ingigantendo poi rapidissimamente».

Una convinzione analoga è sostenuta da Mario Ponzo nel già più volte citato intervento del 1919. Ponzo, citando espressamente D’Abundo, osserva come dopo la visione il film continui ad esistere in un’area della mente dello spettatore che Pennacchi identificherà poi con il «vastissimo campo del subcosciente»: le immagini del film, tutta- via, vivono in questo ambito sotto nuove forme, estranee alle strutture coerenti, lineari, chiuse di un intreccio. Ponzo descrive questo stato del film nella memoria come «un caos di scene senza alcuna connes- sione», preludio a «un nuovo ordinamento» in cui le immagini cine- matografiche si trasformano e si raggruppano secondo criteri nuovi. Nella sua memoria lo spettatore non trattiene il ricordo organico di un mondo possibile istituito dalla «finzione scenica quanto piuttosto le «tracce sconnesse di molteplici rappresentazioni, tracce che vanno continuamente trasmutantesi e variamente raggruppantesi».

La dimensione narrativa e drammaturgica (con tutti i processi di identificazione e proiezione che questa può chiamare in causa), sem- bra giocare, secondo Ponzo, un ruolo marginale nei processi di me- morizzazione, al punto da vanificare le motivazioni moralistiche e pe- dagogiche del lieto fine110. Ciò che agisce realmente nella memoria è

l’intensità sensibile di queste «tracce sconnesse», ossia del frammento

108 Cfr. Augusto Tamburini, Sulla genesi delle allucinazioni, cit., p. 139. 109 Ibidem.

110 Nella sua critica ai film dal contenuto turbativo ma che si concludono con un

finale positivo, Ponzo riprende, sia pure senza citarle espressamente, le racco- mandazioni diramate dal ministero dell’Interno in un ordine di servizio del 14 gennaio 1916. «La sola circostanza», si legge, «dell’essere il fine o lieto o morale o comunque non censurabile, non può valere a giustificare la rappresentazione di scene che intrinsecamente presentino gli estremi voluti per il divieto» (cit. in Umberto Tiranty, La cinematografia e la legge, cit., p. 58).

(D’Abundo, nel 1911, aveva usato il termine «dettaglio»111). Non tanto,

si potrebbe aggiungere, una rappresentazione quanto una presenza. Il cinema, dunque, ben prima di proporre un percorso sistematico del senso attraverso la costruzione narrativo-rappresentativa, offre alla percezione un percorso dei sensi destrutturato, frammentario, seletti- vo, capace però di vanificare la retorica strutturante del racconto. La svalutazione degli aspetti narrativi teorizzata da Ponzo sembrerebbe convergere con la già ricordata analogia, proposta da Gemelli, tra lo spettatore e il sognatore, perché anche in questo secondo caso il rac- conto non è visto come un elemento decisivo. In realtà la convergenza tra Ponzo e Gemelli è solo apparente: nel caso di Ponzo, l’allentamen- to o il dissolvimento dei nessi narrativo-rappresentativi si producono

dopo la visione, nel corso di un lavoro di rimemorizzazione che pre-

scinde dal livello di densità narrativa del film oggetto del ricordo, men- tre la disarticolazione narrativa descritta da Gemelli dovrebbe essere un aspetto strutturale del film che facilita l’ingresso dello spettatore in uno stato pseudo-onirico durante la visione. Le tracce disnarrative di cui parla Ponzo, come si dirà a breve, non concorrono di certo a salvaguardare l’integrità morale di coloro che le hanno introiettate, né attribuiscono un ruolo di attiva, proustiana riconfigurazione della memoria involontaria alla coscienza dello spettatore, ma sicuramente attestano una sensibilità da parte di Ponzo per i fenomeni di riorga- nizzazione psichica del vissuto spettatoriale decisamente carente nel pensiero di Gemelli, più vincolato alla preoccupazione di normalizzare l’esperienza della sala e a una lettura delle trasformazioni del linguag- gio e dell’industria del cinema (non va dimenticato che siamo ormai nel 1926) piuttosto attardata.

Si è già detto di come queste tracce abbiano reciso i legami con la sorgente della loro rappresentazione (lo spazio-tempo in cui furono proiettate nella sala) e conducano ormai una vita propria nella men- te dell’ex-spettatore. La loro riemersione presenta sempre caratteri di involontarietà e imprevedibilità: anche se le immagini animate, scrive Ponzo nel 1919, «paiono passare attraverso noi senza lasciar traccia», in realtà, «noi le vediamo poi risorgere quando meno le attendiamo in certi momenti della vita». Pennacchi, nel contributo antologizzato in questo volume, ricordando, analogamente a Ponzo, che queste tracce riaffiorano dalla memoria quando meno ce le si aspetta, nelle «ma- nifestazioni della vita, con una parola od un gesto del tutto inattesi,

111 Sulla centralità del dettaglio visivo nella genesi di effetti traumatizzanti sullo

spettatore sensibile insiste ancora, nel 1937, l’ex psichiatra Corrado Tumiati. Ri- chiamandosi esplicitamente agli studi di D’Abundo, Lojacono, Masini e Vidoni, Tumiati identifica proprio in «certi particolari in primo piano a forte rilievo (mani che strangolano, visi terrorizzati, moltiplicarsi angoscioso di figure ecc.)» gli ele- menti maggiormente capaci di incidere sulla memoria dello spettatore (cfr. Corra- do Tumiati, Pazzia e cinematografo, «Cinema», I, 21, 10 maggio 1937, p. 364).

per una specie d’impulso automatico», ricorda il caso di una paziente sedicenne, affetta da idee deliranti a contenuto erotico:

Queste idee erano informate sempre a scene cinematografiche già viste, non solo in tempi più o meno recenti ma anche a quel- le cui aveva assistito da bambina, in tempi molto lontani, e che erano già – dimenticate del tutto anche dalla madre che pure le aveva viste.

L’intensa capacità di disorientamento di queste immagini conse- gue soprattutto dal fatto di essere erroneamente ricordate come fram- menti di vita realmente vissuta. Esse producono quindi una «pseu- dologia fantastica» (per usare un’espressione impiegata da Ponzo nel 1919), ossia esperienze artificiali che si associano al ricordo di av- venimenti reali, creando con questi ultimi un paesaggio mnemonico unitario, frutto di una fusione pressoché indiscernibile tra realtà e immaginario, simile alle allucinazioni retroattive descritte nella lette- ratura ottocentesca sull’ipnosi, o alle «attitudes passionnelles» indotte dalla riemersione allucinatoria di un passato traumatico fotografate da Paul Richer112.

Questa dinamica di fusione di ricordi reali e fittizi, che, parafra- sando il titolo di un importante intervento non cinematografico di Ponzo, si potrebbe definire come «la realizzazione nell’azione di un decorso rappresentativo»113, non è esclusiva del cinema ma coinvolge

anche l’esperienza onirica, suggerendo indirettamente una possibile analogia tra le due esperienze ben più profonda di quella proposta da Gemelli. Nel 1922, l’antropologo e psichiatra piemontese Giovanni Marro interpreta il caso di un ufficiale in permesso dal teatro di guer- ra colto da estemporaneo delirio114 nel quadro patologico, definito da

De Sanctis115, di uno «stato sognante vero»116 (in sostanza una sorta di

esperienza onirica ad occhi aperti). Per descrivere questo stato, Marro non solo prende a prestito termini ampiamente usati nel coevo lessico del cinema («proiezione», «sceneggiatura») ma evoca anche una serie di condizioni già individuate dalla letteratura scientifica come tipi-

112 Per un approfondimento della relazione tra degli studi fotografici sull’isteria

condotti da Richer e il cinema delle origini cfr. Pasi Väliaho, Mapping the Moving

Image: Gesture, Thought and Cinema Circa 1900, cit., p. 68.

113 Cfr. Mario Ponzo, Federico Rivano, La realizzazione nell’azione di un decorso

rappresentativo onirico, «Archivio di antropologia criminale psichiatria e medici-

na legale», LXVII, 2, 1927, pp. 185-201.

114 Giovanni Marro, Nuovo contributo alla patologia del sogno, «Archivio di Antro-

pologia Criminale, Psichiatria e Medicina Legale», LXII, 3-4, 1922, pp. 243-269.

115 Cfr. Sullo «stato sognante vero» cfr. Sante De Sanctis, I sogni. Studi clinici e

psicologici di un alienista, Bocca, Torino, 1899.

che dell’esperienza cinematografica: da un elevato livello di credenza nella realtà della rappresentazione all’imprevedibile riemersione dal subcosciente, in forme allucinatorie, di immagini latenti di «insolito vigore, vivacità e nettezza»117, dall’eccesso di tensione emotiva alla con-

seguente attivazione dell’automatismo psichico. Analogamente, quan- do Ponzo, nel 1927, in veste di medico di reparto del manicomio di Collegno, studiando con Federico Rivano il caso di un uomo colpevole di aver ucciso la madre e ridotto in fin di vita la sorella, avanza l’ipo- tesi che l’omicida abbia agito proprio sotto l’influenza suggestionante di un sogno ricorrente, utilizza – per descrivere l’azione di questa «rea- lizzazione» del sogno nello stato di veglia – espressioni del tutto simili a quelle utilizzate nel saggio cinematografico del 1919: anche nel so- gno, osserva Ponzo, i fatti sono rappresentati «con una vivacità tale da essere creduti reali»118, al punto da trasformarsi in «fatti vissuti nella

parte ricettiva e nella parte reattiva».

Secondo Ponzo, questo impasto mentale di ricordi veri e immagi- nari è talmente fitto da far vacillare persino l’autocontrollo razionale dello spettatore maschio borghese e colto: sempre nel contributo cine- matografico del 1919 lo studioso, per dimostrare questa convinzione, chiama in causa se stesso, ricordando di aver avuto in un’occasione la tentazione di aprire una busta sigillata non destinata a lui, facendo ricorso a una tecnica che aveva visto applicata da un impiegato in una scena cinematografica. I rischi maggiori di una perdita di controllo e di discernimento, tuttavia, coinvolgono come sempre le categorie più deboli, le donne, i bambini, gli psicopatici.