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1. Il cinema non è uguale per tutti

Il potenziale euristico delle osservazioni svolte da Rossi a fine Otto- cento non viene colto dalla successiva riflessione scientifica italiana sul cinema. Nel momento in cui il generico e «normale» soggetto sen- ziente e percepiente di Ardigò, Foà e Ponzo viene calato nel contesto storico del presente, la sua identità si pluralizza in singole categorie diversificate per connotazioni sociali, di genere, cultura ed età, e si apre all’incontro con i disturbi neurologici e mentali. Si tratta di un incontro inevitabile, particolare esito clinico di una più ampia tenden- za della psichiatria del tempo a imporsi come una scienza sociocen- trica, votata all’intervento e al contenimento, impegnata a proporre e sperimentare soluzioni per i mali sociali del nuovo secolo: le nevrosi, la delinquenza minorile, il suicidio, l’alcoolismo, la prostituzione, la crisi della famiglia, i traumi post-bellici, ecc. Il contesto in cui que- sta psichiatria si trova ad operare presenta caratteristiche di crescen- te drammaticità: dal 1897 al 1926 il numero dei manicomi presenti sul territorio nazionale aumenta in modo costante (da 92 a 142), così come quello dei ricoverati (da circa 27.000 a oltre 60.000)1. Per rendere

l’idea di come la questione della follia stia diventando uno dei problemi fondamentali del paese, basti ricordare come nel periodo 1891-1921 la popolazione italiana cresca del 18,6% mentre quella manicomiale del 168%2. L’incremento più sensibile si registra dopo l’emanazione, il 14

febbraio 1904, della cosiddetta «Legge sui manicomi», invocata dagli alienisti sin dai primi anni Sessanta del secolo precedente: un prov- vedimento che di fatto inasprisce ulteriormente l’indirizzo essenzial- mente medico dell’istituto psichiatrico e istituzionalizza «il concetto di pericolosità sociale e del pubblico scandalo: si entrava in manicomio non perché malati, ma in quanto nocivi, oziosi, improduttivi, di pub- blico scandalo»3.

1 I dati sono tratti da Andrea Scartabellati, L’umanità inutile La «questione follia»

in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento e il caso del Manicomio Provinciale di Cremona, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 45.

2 Ivi, p. 46

3 Silvano Montaldo, Scienziati e potere politico, in Francesco Cassata, Claudio

Pogliano (a cura di), Storia d’Italia. Annali 26. Scienze e cultura dell’Italia unita, cit., p. 56.

Giuseppe D’Abundo4, già allievo a Napoli di Leonardo Bianchi e

poi docente nell’ateneo catanese, è il primo studioso italiano di for- mazione medica ad aprire, nel 19115, la riflessione scientifica sul cine-

ma alla dimensione individuale della persona, sia pure, ovviamente, in una prospettiva più medico-patologica che psicologica: a fronte di un approccio nomotetico tipico della psicologia sperimentale di Ponzo, Kiesow e Musatti (interessato a definire i principi che regolano l’attività psico-percettiva comune a tutti gli individui) egli propone un approc- cio tendenzialmente idiografico (orientato allo «studio scientifico dei fenomeni psichici nella loro forma particolare e unica caratterizzante l’individuo»6), anche se, come si preciserà meglio nel prossimo capitolo,

la singolarità del paziente sarà sempre ricondotta a generalizzazioni tipizzanti.

Il cambio di prospettiva, comunque, muta anche i metodi di stu- dio: se Ponzo, come si è visto, sceglie l’auto-osservazione, ricercata fino al limite estremo della sua registrabilità, i neuropsichiatri citati (con l’eccezione di Masini e Vidoni7) fondano la dimostrazione della na-

tura patogena del cinema su una pratica extrospettiva: l’osservazione di specifici casi clinici (complessivamente almeno una trentina).

Gli interventi più determinati nel dimostrare che il cinema è un fattore scatenante o slatentizzante nella manifestazione di patolo- gie sono firmati da neuropatologi e psichiatri (l’appena ricordato D’Abundo, Liborio Lojacono, Masini e Vidoni, Mondio e Pennacchi). All’interno del dibattito neuropsichiatrico tuttavia non c’è un pieno accordo sul livello di gravità dei disturbi indotti dal nuovo medium. D’Abundo ritiene che non esista una sindrome patologica specificata- mente indotta dalla visione cinematografica. A suo avviso, il cinema è una causa essenzialmente occasionale di disturbi in «soggetti eredi- tariamente predisposti» (un’espressione, quest’ultima, che certifica la piena appartenenza del neurologo barlettano, come di quasi tutta la neuropsichiatria italiana del primo Novecento, al retaggio biopsichico

4 Su Giuseppe D’Abundo (1860-1926) cfr. Marzia Arena, Giuseppe D’Abundo, tito-

lare della prima Cattedra di malattie nervose e mentali nell’Università di Catania,

tesi di laurea, Università degli Studi di Catania, a.a. 2006-2007.

5 Giuseppe D’Abundo, Sopra alcuni particolari effetti delle projezioni cinemato-

grafiche nei nevrotici, «Rivista italiana di neuropatologia, psichiatria ed elettro-

terapia», IV, 10, ottobre 1911 (poi anche in «Bianco e Nero», 550, 2004: il testo è ripubblicato nella sezione antologica di questo volume).

6 Giovanni Pietro Lombardo, Renato Foschi, La costruzione scientifica della per-

sonalità, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 15.

7 Lo studio di Masini e Vidoni, Il cinematografo nel campo delle malattie mentali e

della criminalità. Appunti, («Archivio di Antropologia Criminale, Psichiatria e Me-

dicina Legale», Torino, XXVI, 5-6, 1915), ripubblicato in questo volume, si limita infatti a riflessioni generali, rinviando il dettaglio delle osservazioni cliniche a un successivo studio che però non vedrà mai la luce.

del materialismo positivista). Masini e Vidoni, nel 1915, sono altret- tanto prudenti, e affermano che non è dimostrata l’esistenza di una psicosi da cinematografo: «Qualcuno ha detto che in certi casi il cine- matografo può provocare una psicosi con caratteri speciali. le affer- mazioni di questi autori ci sembrano precipitate»8. Anche Mondio, nel

1924, parla del cinema come di una causa occasionale delle malattie nervose e mentali, ma poi, sulla base dei casi raccolti e della similari- tà dei sintomi registrati, si sente autorizzato a ipotizzare l’esistenza di una «psicosi da cinematografo». «In ogni caso», egli scrive, «il decorso del disturbo è relativamente breve, circa due settimane, e la prognosi quasi sempre fausta»9. Fabio Pennacchi, nel 1930, è invece più pes-

simista: il cinema, almeno nel caso di pazienti psicopatici, è «causa determinante per lo sviluppo di una malattia mentale che si protrae molto più a lungo di quanto si sia potuto credere in principio»10.

Quali sono, dunque, secondo la letteratura scientifica citata, le categorie di soggetti incapaci di mantenere alta quella che i filmologi avrebbero poi chiamato la «soglia di vigilanza»?

Uno dei primi contributi scientifici a stabilire una divisione del pubblico in base al diverso livello di vulnerabilità degli spettatori è quello, già citato, dell’oftalmologo Angelucci11. In questo studio del

1906 si ipotizza una divisione ante-litteram del pubblico, distinguendo

8 Mario Umberto Masini, Giuseppe Vidoni, Il cinematografo nel campo delle ma-

lattie mentali e della criminalità. Appunti, cit., (il testo è ripubblicato nella sezione

antologica di questo volume). Mario Umberto Masini (1876-1943), e Giuseppe Vi- doni (1884-1951) lavoravano presso gli ospedali psichiatrici genovesi di Pavara- no e Cogoleto. Masini aveva fondato la rivista «Quaderni di psichiatria». Vidoni, durante il primo conflitto mondiale, svolse funzioni di ufficiale medico anche in zona di operazioni di guerra, e fu perito del tribunale militare. Dalla secon- da metà degli anni Venti si dedicò soprattutto alle indagini psicotecniche. Cfr. Paolo Francesco Peloso, Psychiatry in Genoa, «History of Psychiatry», 1, 2004, pp. 27-43; Daniela Gaddi, Jutta Birkhoff, L’approccio positivista alla delinquenza

nell’opera di Giuseppe Vidoni. Brevi note preliminari, in Elke Anklam, Giuseppe

Armocida (a cura di), Medicina e ambiente, Atti del XXXVIII Congresso Nazionale

della Società Italiana di Storia della Medicina (Ispra-Varese-Cuveglio, 16-19 ottobre 1997), Commissione Europea, [s.l.],1999, pp. 297-303.

9 Guglielmo Mondio, Il cinematografo nell’etiologia di malattie nervose e mentali

sopratutto dell’età giovanile, «Il Manicomio. Archivio di psichiatria e scienze af-

fini», 38, 1925 (il testo è ripubblicato nella sezione antologica di questo volume).

10 Fabio Pennacchi, Cinema e adolescenza con speciale rapporto alle malattie ner-

vose e mentali, «Rivista Internazionale del Cinema Educatore», II, 9, settembre

1930, pp. 1084-1113 (il testo è ripubblicato nella sezione antologica di questo volume).

11 Cfr. Arnaldo Angelucci, Le malattie degli occhi prodotte dai cinematografi, «Mal-

pighi. Gazzetta medica di Roma», 1906, pp. 251-252 (il testo è ripubblicato nella sezione antologica di questo volume).

l’ «occhio normale» dagli occhi dei miopi, dei nevrastenici e dei bam- bini, associati in un’unica categoria di spettatori dalla retina più ec- citabile, a cui si raccomanda una frequentazione solo occasionale del cinematografo, valutato come spettacolo troppo stimolante e faticoso per un unico organo sensoriale12.

La proposta di divisione del pubblico di Angelucci si fonda esclusi- vamente sui semplici stimoli sensoriali generati dall’apparato tecnico del dispositivo. Da un livello analogo, quello della risposta allo stimolo sensoriale, muove inizialmente le sue riflessioni anche D’Abundo, cin- que anni dopo: il film aggredisce l’occhio e disturba la consueta per- cezione visiva con un «movimento vibratorio dell’immagine»13 talmente

intenso da restare visibile persino ad occhi chiusi. Rispetto all’approc- cio fisiologico di Angelucci, tuttavia, il contributo neuropatologico di D’Abundo estende la riflessione sulla patogenia del cinema anche ai contenuti rappresentativi delle immagini, avviando una critica del vi- sibile cinematografico che poi si radicalizzerà ulteriormente nei suc- cessivi interventi di altri psicologi e psichiatri. Questa critica non ha nulla di moralistico: il cinema, secondo D’Abundo, è uno spettacolo che produce «godimento» per tutti. Però la potente suggestione scate- nata dalle immagini in movimento può far male. Non a tutti ma solo a qualcuno, egli precisa, rivelando così un’impostazione teorica, con- divisa da tutti gli altri contributi neuropsichiatrici, vicina alle tesi di Jean-Martin Charcot sul nesso tra isteria e ipnosi e distante invece dalla posizione di Hyppolithe Bernheim, che sosteneva l’universalità psicologica delle dinamiche di ipno-suggestione14.

All’interno di un bacino di spettatori virtualmente illimitato, i neu- ropatologi e gli psichiatri introducono la polarizzazione, tipica della fre- nologia ottocentesca, tra il soggetto normale e il soggetto non sviluppa- to, a rischio o folle. Il cinema è pericoloso solo per chi – per ragioni molto diverse – non è normale, e la normalità coincide con il profilo identitario di un adulto maschio, sano, acculturato e borghese. Le categorie del

12 Le osservazioni di Angelucci non sono ovviamente isolate. I disturbi che il cine-

ma arrecherebbe alla vista degli spettatori sono al centro anche di altre riflessioni medico-fisiologiche del periodo. Per il contesto francese, ad esempio, e in partico- lare per le osservazioni dell’oculista Étienne Ginestous (di poco successive a quel- le di Angelucci), si legga Thierry Lefebvre, Une «maladie» au tournant du siècle : la

«cinématophtalmie», «Revue d’Histoire de la Pharmacie», 297, 1993, pp. 225-230.

13 Giuseppe D’Abundo, Sopra alcuni particolari effetti delle projezioni cinematogra-

fiche nei nevrotici, cit. (il testo è ripubblicato nella sezione antologica di questo

volume).

14 Sulla querelle tra la scuola della Salpêtrière e la scuola di Nancy, cfr. Stefan

Andriopoulos, Possessed Hypnotic Crimes, Corporate Fiction, and the Invention of

Cinema, University of Chicago Press, Chicago, 2008, pp. 20-26; Ruggero Eugeni, La relazione d’incanto. Studi su cinema e ipnosi, Vita Pensiero, Milano, 2002, pp.

pubblico cinematografico non riconducibili al perimetro della normalità spettatoriale sono in buona parte già individuate ancora prima che il cinema si affacci sulla scena pubblica. Scipio Sighele, tra i padri della sociologia italiana, scrive ad esempio nel 1891 «che le donne, i bambini e anche i giovani sono assai più facilmente suggestionabili degli uomini adulti»15. Al pubblico femminile16 e infantile o giovanile, il neuropatolo-

go D’Abundo aggiunge, nel 1911, le «menti ignoranti, o poco evolute, o nevropatiche [anche] discretamente intelligenti e di buona condizione sociale»17, anche se poi nel suo studio riporta solo casi di bambini e di

donne «isteriche» molto impressionabili soprattutto, osserva D’Abundo, col verificarsi delle mestruazioni. Anche i casi riportati da Mondio e Pennacchi sono tutti relativi a bambini, adolescenti e giovani donne. Colpisce, nel complesso, la netta prevalenza di pazienti bambini, a con- ferma di come stesse crescendo, negli anni Dieci e Venti18, il tentativo di

rispondere scientificamente a quella che, con ogni probabilità, era stata la ‘scoperta’ più sconcertante e allarmante della psichiatria ottocente- sca: la follia infantile19.

Liborio Lojacono20, in una breve ma interessante postilla al sag-

gio di D’Abundo, aggiunge tra gli spettatori a rischio gli alcoolisti, an- che benestanti e «di salute fisica florida»21. Masini e Vidoni fanno loro

queste categorizzazioni, ma le rivedono in una prospettiva criminologi- ca. Secondo i due psichiatri, il cinema eserciterebbe infatti un’influenza criminogena intensa soprattutto su due tipologie di spettatore: da un lato i soggetti «dotati di una mentalità inferiore (…), frequentatori assidui

15 Scipio Sighele, La folla delinquente, cit., p. 120.

16 Sulle rappresentazioni della spettatrice cinematografica nella cultura italiana

del primo Novecento cfr. Luca Mazzei, Al cinematografo da sole. Il cinema descrit-

to dalle donne fra 1898 e 1916, e Silvio Alovisio, La spettatrice muta. II pubbli- co cinematografico femminile nell’Italia del primo Novecento, entrambi in Monica

Dall’Asta (a cura di) Non solo dive, pioniere del cinema italiano, Cineteca di Bolo- gna, Bologna, 2008.

17 Giuseppe D’Abundo, Sopra alcuni particolari effetti delle projezioni cinematogra-

fiche nei nevrotici, cit. (il testo è ripubblicato nella sezione antologica di questo

volume).

18 Da segnalare, in particolare, il fondamentale contributo di Sante De Sanctis,

fondatore della neuropsichiatria infantile italiana.

19 Cfr. Carlo Bonomi, Infanzia, peccato e pazzia. Alle radici della rappresentazione

psicologica del bambino, «Rassegna di Psicologia», XXV, 2, 2009,pp. 129-153.

20 Liborio Lojacono, in servizio presso il manicomio di Palermo, era stato assisten-

te di Leonardo Bianchi nell’ateneo della stessa città.

21 Liborio Lojacono, Turbe nervose consecutive alle rappresentazioni cinematogra-

fiche. Noticina clinica, «Rivista Italiana di Neuropatologia, Psichiatria ed Elettro-

terapia», V, 1, gennaio 1912, pp. 14-15 (il testo è ripubblicato nella sezione anto- logica di questo volume).

del cinematografo»22 e con una predisposizione latente al crimine che il

cinema contribuirebbe a risvegliare; dall’altro lato «i delinquenti nati, che vanno al cinema per trovare idee, ispirazione, modelli da imitare».

Secondo la psicologia e la psichiatria di matrice evoluzionistica e comparativa, dunque, il bambino, la donna, l’individuo solo parzial- mente civilizzato e l’alienato non soltanto sarebbero in possesso di funzioni psichiche più semplici, «meno evolute» (per riprendere l’ap- pena citata espressione di D’Abundo) rispetto a quello di un soggetto normale, ma rappresenterebbero le categorie maggiormente attratte dallo spettacolo cinematografico23.