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L’albero della vita e la sua deformazione grottesca: Pier della Vigna (Inf XIII)

Lettura comparata Rose-Commedia

INDICE NARRATIVO-TEMATICO DEL ROMAN DE LA ROSE

K. Natura entra nella battaglia 15861-16292 L Discorso di Genius a Natura 16293-1

4. Castrazione di Saturno e fine dell’età dell’oro 20007-20236 5 Genius contrappone il parco dell’agnello al giardino di Deduit

2.5 L’albero della vita e la sua deformazione grottesca: Pier della Vigna (Inf XIII)

Si è visto dunque come il mito di Aracne, almeno nella versione ovidiana, si sovrapponga al tema cristiano dell’albero della vita, o meglio di una sua trasfigurazione grottesca (da lignum vitae all’abero da cui pende esanime Giuda). Questa osservazione è di particolare interesse perché nel canto XIII dell’Inferno, la cui composizione fu vicina a quella del canto di Gerione, troviamo proprio una esemplificazione di questa trasfigurazione grottesca del tema iconografico dell’albero della vita67. Prima di analizzarlo è però necessaria una puntualizzazione metodologica che possa far comprendere la legittimità del nostro procedere, apparentemente troppo “libero”, attraverso una rete di riferimenti interni all’Inferno. Il recente studio di Lina Bolzoni sulla “rete di immagini” della cultura medioevale e della predicazione in volgare, se da un lato suggerisce delle ipotesi di indagine degli influssi esercitati da tale bacino

67 Questo tema iconografico ebbe notevole fortuna sul finire del Duecento, anche per effetto della

diffusione del Lignum Vitae di Bonaventura da Bagnoregio e dell’arbor vitae crucifixae Iesu di Ubertino da Casale. Sulla storia e le varie tipologie di questo simbolo nel medioevo vedi IACOBINI, 1994. Sull’albero della vita come diagramma cosmico, in relazione con le immagini del giudizio universale (di particolare interesse in relazione alla Commedia) si vedano anche i riferimenti al tema in GRABAR, 1983.

“multimediale” sulla cultura e il genio poetico dantesco, dall’altro fornisce preziosi strumenti per la realizzazione di tale approfondimento. Uno di questi è il capitolo in cui vengono classificati e posti in esame, attraverso degli esempi concreti che sono oggetto di studio nel saggio, i vari tipi di immagine allegorica. Non si tratta di allegorie quali siamo abituati a considerare attraverso l’arte figurativa rinascimentale, rappresentazioni vivide e fantasiose di vizi e virtù dell’uomo, ma immagini che condensano in sé dei tesori di sapienza e insegnamenti morali, attraverso un intreccio complesso tra parole e immagini, in cui vengono coinvolte le varie facoltà intellettive in modo tale che l’immagine si presti a colpire la fantasia e nello stesso tempo a fare da supporto all’esplicazione di un discorso morale. Più che semplici rappresentazioni, apparati multimediali che consentono all’autore il controllo sulla ricezione del messaggio. Uno di questi in particolare sembra dimostrare quanto il discorso che stiamo facendo possa fornire delle chiavi di lettura nuove alla critica dantesca. Mi riferisco al “lignum vitae”, cioè all’albero dei vizi e delle virtù, che a un certo punto compare in una forma che intreccia il simbolismo allegorico più intellettualistico e legato ai processi della memorizzazione e della rappresentazione con la ben più vivida e carica di simbolismo figura del corpo di Cristo nella croce.

La croce insomma in tali raffigurazioni, si trasfigura nell’albero stesso, a voler significare evidentemente che dall’esempio della passione di Cristo si dipartono le ramificazioni delle virtù umane. Questa immagine propone esemplarmente i vari livelli di lettura che la Bolzoni già aveva evidenziato in altre immagini.

Un primo livello è quello che colpisce l’immaginazione e la fantasia, ed è rappresentato dalle

Giovanni di Corraduccio Affresco murale

1390. Convento di S.Anna (Foligno)

ferite e dal sangue che sgorga dal corpo martoriato di Cristo,il secondo livello è quello che guida la virtù morale nell’esercizio del bene attraverso una eloquente

schematizzazione rappresentata dalla metafora arborea, corredata a sua volta dalle parole che nei cartigli elencano le varie virtù dell’uomo. Soffermiamoci ora su questa compresenza di elementi eterogenei: il sangue delle ferite di Cristo, le parole nei cartigli. Credo che anche un lettore di Dante non particolarmente esperto senta forte la tentazione di costituire una comparazione tra tale immagine allegorica e i versi del canto di Pier delle Vigne (IF XIII68). Si tratta certo di versi famosi, nei quali la capacità dantesca di colpire la fantasia del lettore con il nuovo, l’inusitato e l’orrido senza per questo scadere nel comico o nell’inverosimile stupisce ancor oggi. Finora si è parlato di questi versi soprattutto come di una citazione delle metamorfosi ovidiane, non mancando di sottolineare come il poeta italiano superi di gran lunga per plasticità e potenza d’immagine il modello classico. Non mi risulta che si sia invece visto nella metamorfosi di Pier delle Vigne in un albero contorto e capace, orribilmente, di soffrire e sanguinare, la trasfigurazione comica (nel senso del comico infernale) di una di queste allegorie del lignum vitae. Il verso-chiave che credo ci spinga in questa direzione è quello in cui si dice che “parole e sangue orribilmente uscìo insieme”. L’intepretazione che sembra più ovvia di tale “parole e sangue” è quella che vede la fusione di due sfere sensoriali: le parole attraverso il soffio strozzato dell’albero, il sangue dalla ferita inferta a quell’albero incarnato. Ma ad un altro livello di lettura (che non esclude il precedente), potremmo pensare alle parole dell’immagine allegorica che abbiamo più su citato, e che Dante con tutta probabilità conosceva (l’immagine dell’albero con la figura di Cristo apparteneva all’iconografia tradizionale del lignum vitae di San Bonaventura e comunque era diffusa al suo tempo), che si avviluppano, insieme a tutto l’albero attorno al corpo di Cristo, fino a confondersi al suo sangue. Questa ipotesi interpretativa porta con sé alche alcuni interrogativi: quale sarebbe il significato di tale trasfigurazione; come risolvere il problema dell’accostamento, implicito in tale supposizione, tra la figura del suicida (anche se per ingiusti motivi) Pier della Vigna e il sacrificio di Cristo, che risulterebbe sicuramente blasfemo; la compatibilità o meno di tale intepretazione con quella più tradizionale di una ripresa dell’orrido ovidiano. Su quest’ultimo punto almeno possiamo dire che il problema non si pone neppure. Allegoria medioevale e rilettura dei classici (in senso ovviamente non umanistico, o al più secondo le 68Un’altra analisi del canto XIII dell’Inferno alla luce di una stretta relazione tra l’ispirazione lirica di Dante e la Rose è in TRAVERSARI, 2007.

caratteristiche dell’umanesimo cristiano dantesco) non si contraddicono ma anzi si potenziano a vicenda, essendo l’allegoria, secondo la nota tesi del Lewis, il modo che la cultura cristiana medievale ha di far rivivere al proprio interno l’enorme bacino mitologico del paganesimo della cultura classica. Che la metafora arborea rispetto al personaggio di Pier delle vigne non sia legata solo alla citazione ovidiana lo si desume anche dal fatto che essa compare in varie altre forme. Ricordiamo infatti, riferito a Dante stesso, il “tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttare al dolce fico” (Inf. XV, vv.65- 66). Dunque la figura di Pier delle Vigne, uomo raffinato e dotato di sensibilità e purezza d’animo, gettato nel discredito dalla maldicenza e dall’invidia si potrebbe proprio accostare a quella del Cristo in croce, venuto sulla terra a scontare i peccati dell’umanità malvagia. Se Dante avesse voluto semplicemente tradurre il “codice” allegorico della predicazione volgare nella più realistica esemplificazione di personaggi della cronaca fiorentina della sua epoca, trasfigurati in immagini del Cristo o di diavoli, avremmo certo potuto con maggiore chiarezza distinguere le componenti culturali di tale operazione, ma avremmo perso tutto il fascino che deriva invece dal mirabile sincretismo di allegoria e realismo nel quale consiste anche la forza del suo realismo figurale. Nel momento insomma in cui l’allegoria si declina nella storia, essa non diventa più comprensibile, secondo una finalità meramente didattica, ma anzi si complica, si mescola con la menzogna e la falsità propria dell’agire umano, allo stesso modo che nella storia e nella cronaca di quegli anni confusi diventava sempre più difficile credere, per uomini come Dante, nella possibilità di un riscatto anche solo morale. Ecco allora che Pier della Vigna non riesce ad essere una immagine del Cristo. L’albero della virtù si ripiega su se stesso, diventa orrido e contorto, l’inchiostro nero delle parole si mischia col rosso del sangue, perché la ragione e la volontà dell’uomo sono attirate nel groviglio oscuro della passione e del risentimento. Pier della Vigna giunge a dire “ingiusto mi feci contra me giusto”, perché non poté vedere un riscatto alle proprie piaghe anche a causa della forza del proprio risentimento che oscurò la sua capacità di discernere il bene dal male, e in lui forse si riconosce il Dante scrittore. Una prova “in positivo” della validità di un’interpretazione di “parole e sangue” che legge la coppia di lemmi come tutta risolta in termini visivi, lo si ritrova poi in altre espressioni simili, in cui quello che fu il limite di Pier della Vigna (il suo non riuscire ad essere “figura Christi”, allegoria vivente ispirata al lignum vitae) viene superato. Così il “visibile parlare”, ma soprattutto il “verbo e nome di tutto ‘l dipinto” (le lettere che si

trasformano nell’aquila d’oro del cielo di Giove). Ecco dunque che Pier delle Vigne resta una esemplificazione del modo di procedere dantesco nella rielaborazione della tradizione figurativa e allegorica. Non è una ripresa lineare, nè una citazione superficiale: essa agisce su vari livelli. Da un lato nel costruire dei centri quasi ossessivi della memoria visiva, creatori di suggestioni e immagini potenti, dall’altro diventando oggetto di una più ragionata trasfigurazione e ricodificazione secondo le modalità del pensiero e della sensibilità realistica della nascente borghesia. D’altronde, la stessa distinzione delle pene secondo le colpe, e la razionale dislocazione delle anime nei gironi e cieli, fa comprendere come Dante sia partecipe delle nuova cultura giuridica della società comunale. Anche la topografia dell’Inferno ripete la stessa “specializzazione” secondo un criterio razionale (la divisione del lavoro) propria degli insediamenti urbani. In questo Dante riflette la proiezione nell’immaginario oltremondano della realtà cittadina, fenomeno di portata più generale: anche la nascita del Purgatorio alla fine del XII sec., è secondo Jacques Le Goff, una proiezione delle nuove strutture ed istituzioni urbane nella dimensione etica e religiosa e nell’immaginario collettivo69.

Il groviglio di sentimenti, di passioni oscure, il grido soffocato di Pier della Vigna da un lato denunciano l’impossibilità di riproporre tal quale il bacino della cultura allegorica e figurativa della poesia didattica e della predicazione volgare, nell’impossibilità cioè di proporlo come una immagine che fa rivivere col proprio esempio la storia della passione di Cristo; dall’altro esprime proprio quella nascente sensibilità verso gli stati d’animo, gli umori dell’individuo, radicati nella sua storia personale e tratti dal contesto della storia cittadina, che nonostante questo resta però esemplare e universale, e che costituisce la chiave del realismo figurale dantesco. La natura contorta e innaturale del paesaggio dei suicidi, gli alberi “strani”, mantengono però un’evidenza sensibile che richiama l’esito delle rappresentazioni invernali della poesia di Arnaut Daniel, il poeta dell’ “aura amara”, che vanno al di là di ogni astrattezza allegorica nella disperata ricerca di una solidarietà con il lettore.

Quella di Pier della Vigna è però solo la prima delle trasfigurazioni in chiave più realistica dell’allegoria del lignum vitae. La seconda, che costituisce il rovescio della prima (che non raggiungeva l’esemplarità della passione di Cristo per una sua debolezza

intrinseca, per il suo essere espressione di una natura debole, incapace di portare fino all’estremo il peso della propria passione con la rinuncia dell’atto esecrando del suicidio) è l’immagine del corpo penzoloni dell’anonimo fiorentino (e non è anonimo per caso) che dice “feci gibbetto a me delle mie case” (Purg. XIII, v.151). Si noti in proposito il forte francesismo da gibet, che riporta al clima parodico del Fiore e comunque potrebbe essere citazione di alcuni passi della Rose, che analizzeremo più avanti (RR, 6517, cfr infra pg. 88). Se non si prende in considerazione l’immagine del

lignum vitae, la figura dell’anonimo suicida fiorentino può trovare contatti al più con

l’immagine di Giuda. Essa viene evocata questa volta soprattutto dalle figure di suono: il discorso del personaggio è intessuto di sibilanti e suoni sordi, a rendere l’idea di chi parla con un cappio serrato alla gola.

raccoglietele al piè del tristo cesto. I' fui de la città che nel Batista

mutò il primo padrone; ond'ei per questo

sempre con l'arte sua la farà trista;

e se non fosse che 'n sul passo d'Arno rimane ancor di lui alcuna vista

(ib. vv.142-47)

Va d’altra parte ricordato che l’impiccagione si associava nell’immaginario medioevale alla colpa dell’avidità. Se invece ci sforziamo di vedere in essa, coerentemente con tutto quanto abbiamo detto finora, la seconda trafigurazione grottesca dell’allegoria del

lignum vitae, ecco che essa si rivela in tutta la sua carica comica e blasfema70. Qui è possibile riconoscere il carattere anche parodico del comico infernale, così come era stato prefigurato dagli esperimenti del Fiore. Se Pier della Vigna rappresentava l’impossibilità di mantenersi puri e di essere immagine di Dio neppure nel momento della passione, per la debolezza morale e il traviamento spirituale di quell’epoca di ipocrisia e avidità, nell’immagine del corpo penzoloni del suicida l’accostamento

70 E si noti che non si tratta di una figurazione astratta: come in Pier della Vigna la corporeità della sua

sofferenza è resa attraverso il sibilare del suono della sua voce, così il rovesciamento di quella prima trasfigurazione nella figura dell’avido impiccato continua nella caratterizzazione della voce dell’anonimo fiorentino suicida: tutto il suo discorso è ricco di suoni sibilanti e strozzati, che riproducano in modo realistico il parlare di una persona oppressa alla gola da un cappio.

diventa blasfemo, lo sdegno dantesco si traduce in un soprassalto d’ironia che porta ad una trasfigurazione irriverente dalla croce infissa nell’albero in un corpo che pende esanime, grottescamente ridicolo nella propria meccanicità marionettistica. Non più le parole della virtù incomprensibili perché mischiate al sangue, ma addirittura l’immagine del Cristo che si stacca dall’albero della vita e oscilla sinistramente fondendosi con quella di Giuda.71

La deformazione grottesca della simbologia dell’albero-croce mutata in patibolo, che qui si compie a livello d’immagine, trova una corrispondenza di tipo testuale nell’ultimo canto dell’Inferno nella singolare deformazione del versetto di un Inno di Venanzio Fortunato, composto dal poeta di Valdobbiadene in occasione dell’arrivo della “Vera Croce”, mentre in Dante, come è noto, le insegne che avanzano sono riferite a Satana (ovvero Lucifero, esso stesso parodia della Croce):

«Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira», disse 'l maestro mio «se tu 'l discerni». If. XXXIV 1-3

Vexilla regis prodeunt fulget crucis mysterium quo carne carnis conditor suspensus est patibulo.

Vexilla regis, vv. 1-4 72

Si può anche ipotizzare che l’Inno di Venanzio, con il singolare verso “suspensus est patibulo”, possa essere all’origine della rielaborazione parodica dell’immagine dell’albero della vita in patibolo di un impiccato. Del resto nel segno della parodia di un altro aspetto della Croce, quello per cui il sangue delle ferite di Cristo è nutrimento per la comunità dei cristiani, come si vedrà, dovrà interpretarsi anche l’immagine degli ignavi il cui sangue nutre i vermi che stanno ai loro piedi.

Questo accostamento potrà apparire davvero eccessivo per molti, ma forse non per coloro che si sono abituati a vedere nel Ser Durante del Fiore un Dante giovane. Se infatti nelle opere dantesche di certa attribuzione non è dato di ritrovare un accostamento così blasfemo, nel Fiore abbiamo il nome di Cristo (quel nome che nella

71 L’immagine del patibolo associata a quella dell’albero della vita deriva però, oltre che dalla

deformazione grottesca della simbologia della Croce, anche da quella dell’uomo legato all’albero al centro del carro del corteggio di Diana, che compare nella tradizione folklorica delle “cacce notturne” (qui rievocate dalle “nere cagne” che fanno irruzione sulla scena): su questo si ritornerà in seguito, a proposito del riferimento a Dame Habonde nel discorso di Nature.

72 VENANZIO FORTUNATO, 2001. Sulla citazione dell’Inno nell’Inferno, vedi le considerazioni di

Commedia rima solo con stesso) in rima con Ipocristo. Osserviamo dunque che siamo

ritornati là dove eravamo partiti, in una almeno momentanea “quadratura del cerchio”. Per chiarire la questione attributiva del Fiore e del rapporto della Commedia con la

Rose, abbiamo infatti adottato un paradigma indiziario, che ci ha portato a rivalutare la

componente allegorica della formazione dantesca. Questa ci ha condotto a ipotizzare un influsso di quelle reti multimediali di immagini che a loro volta si sono rivelate utili come chiavi interpretative che hanno svelato sotto il velo allegorico e dei rimandi impliciti, il Dante dell’esperimento del Fiore nascosto tra le pieghe del Dante autore dell’Inferno, che oscilla tra la parodia della Rose e la scoperta del comico insieme con il gusto del pastiche linguistico, premessa a loro volta del realismo figurale e dell’originale impasto linguistico della Commedia. Ora cerchiamo altre conferme a questa ipotesi. Questa volta siamo più esperti, perché ci muoviamo sull’esperienza delle tele di Aragne di Gerione, che abbiamo visto possono essere interpretate come ripresa delle “toiles d’Aragnes” della Rose. Il percorso che avevamo delineato conduceva a una triangolazione tra Commedia, Fiore e tradizione allegorica. Il punto di passaggio dalla rielaborazione in chiave comica del Fiore alla più complessa tramatura di rimandi della

Commedia era costituita dalla canzone dell’esilio (Rime 47, CIV). Avevamo

individuato nella “donna discinta e scalza che sol di sé par donna” il richiamo più evidente all’immagine tradizionale della malinconia, quindi allo stato psicologico della depressione, che in Dante era associata all’idea della desolazione morale dei suoi tempi (essa rappresenta Drittura, la forma più alta della giustizia terrena, ora abbandonata dagli uomini, “a tutti in ira ed in non cale”). Potrebbe apparire singolare la tesi secondo cui questa stessa immagine femminile era già comparsa nella figura del personaggio della vecchia del Fiore. Ma dobbiamo pensare a immagini fortemente connotate di un significato morale, che agiscono come centri organizzatori della fantasia e della creazione, ad un livello preverbale e fantastico, anche quando questa si esercita su campi semantici diversi.

Ora è necessario capire se lo stesso tipo di parentela si viene a creare anche per quest’altra immagine (o rete di immagini), connessa all’allegoria del lignum vitae. Ipotizziamo dunque un’estensione a rete, analoga a quella che porta dalla figura della vecchia del Fiore alle sue diffrazioni e trasfigurazioni ora nella donna discinta e scalza della canzone dell’esilio, fino al grottesco allegorico della figura di Gerione. Qui la diffrazione si è dapprima compiuta nello stesso canto, articolandosi nell’immagine

sofferta dell’albero incarnato e sanguinante posta a confronto con l’immagine crudamente realistica dell’impiccato. La metafora arborea prosegue nel quindicesimo canto, nella profezia di Brunetto a Dante. Dante viene paragonato da Brunetto al “dolce fico” cui si disconvien “futtare tra i lazzi sorbi”. Se analizziamo la metafora possiamo innanzitutto osservare che Dante ha scelto come albero in cui trasfigurare la propria immagine terrena quello i cui frutti richiamano l’idea della dolcezza ma hanno anche un aspetto carnale, sanguigno (tradizionalmente il fico è connotato come albero del peccato). Frutti delicati, che non possono essere colti da animi rozzi e immorali. L’aggettivo “dolce” mette in gioco anche la sensualità e la delicatezza stilnovistiche. Possiamo a questo punto cogliere anche per l’allegoria dell’albero della vita la sua triangolazione con la canzone dell’esilio. Rivolgendosi alla sua canzone Dante le dice di “negare il dolce pome” (espressione analoga a dire che “il dolce fico non deve futtare”) e di cacciare con “neri veltri”: termini che ricorrono insistenti nel canto. E si noti infine che Pier delle Vigne sta a Dante nel tredicesimo canto come Brunetto sta a Dante nel quindicesimo, entrambi vittime di una corruzione morale che ha sporcato anche le loro anime e li ha fatti ingiusti contra “sé giusti”. E Dante per Brunetto come per Pier delle Vigne cerca di mostrare almeno un riscatto morale: “e non sembrava