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La ripresa della narrazione – discorso di Raison

Lettura comparata Rose-Commedia

INDICE NARRATIVO-TEMATICO DEL ROMAN DE LA ROSE

K. Natura entra nella battaglia 15861-16292 L Discorso di Genius a Natura 16293-1

3 La Rose di Jean de Meun

3.1.1 La ripresa della narrazione – discorso di Raison

Già dai primi versi della ripresa, il De Meun si mostra autore smaliziato, che ha in mente un progetto abbastanza preciso. Va notato innanzitutto come cerchi di non far parere l’interruzione con la narrazione precedente. Questo evidentemente dà un’indicazione ben precisa di come la circolazione stessa dell’opera venisse prevista dall’autore come collegata al primo Roman. Questo aspetto, che a prima vista potrebbe sembrare poco significativo, dà invece il senso del controllo che il De Meun vuole esercitare sulla ricezione del testo.

Quando parliamo del Roman de la Rose parliamo di un’opera che si inserisce nel grande filone della letteratura allegorica (numerosi sono i riferimenti e i debiti dello stesso De Meun, a uno dei principali rappresentanti di questa tradizione, Alano di Lilla). E la letteratura allegorica è il filone che maggiormente consente di cogliere il ricorso a un sistema di immagini mentali come modalità di controllo della ricezione del testo. La volontà di garantire la continuità con l’autore precedente è coerente con il carattere didattico-morale del genere allegorico e consente già di apprezzare, a fianco dell’apparente spregiudicatezza, l’estrema serietà e ambizione del progetto del De Meun, sgombrando il campo dalla tentazione di trasformarlo in una semplice opera di gusto goliardico (e d’altronde le dimensioni stesse che il “miroeur aus amoureus” assunse proprio grazie al De Meun rendevano questa interpretazione poco plausibile). Nell’evenienza che però non lo facessero, o che la loro memoria fosse un pò debole, ecco che egli inserisce tutta una serie di sequenze riassuntive ed esplicative che definiscono brevemente la situazione di amante. Nel fare questo il de Meun però non trascura di “guidare” l’intepretazione della prima parte del Roman. Egli insomma riassume o riprende la narrazione precedente, ma in modo funzionale al suo progetto. Nonostante quest’opera di “mascheramento” della frattura tra le due parti del poema, si notano fin da subito, una volta conclusa la prima fase di raccordo e ripresa, le notevoli differenze nell’ispirazione e nelle finalità della nuova opera. Innanzitutto, come ben nota lo Strubel nel commento alla sua edizione, De Meun si premura di far rientrare Raison nel campo della coscienza, assicurandole un ruolo di protagonista e non di semplice parte in causa.

E pour qu’a fortune venons Quant de s’amour sermon tenons R.R.,4833-34

Il discorso di Raison diventa qui interessante. Tra i vari tipi di amore (e già in questo possiamo notare un primo tentativo di razionalizzazione della divinizzata allegoria d’Amore), viene messo in evidenza quello legato ai beni della fortuna. Raison nel suo discorso ricorre a due immagini di un certo interesse anche in rapporto alla poesia dantesca: la sua associazione con fenomeni astrali che comportano l’alternarsi di luce e ombra (e giustamente lo Strubel ricorda che Dante aveva fatto di Fortuna l’imperatrice del regno sublunare) e l’immagine della ruota della Fortuna. Interessante notare come Dante compia una fusione tra queste “immagini mentali” di fortuna nel peccato di avarizia facendole confluire nella rappresentazione degli avari del canto VII dell’Inferno (e dunque stabilendo di fatto un’equazione tra la venerazione di questa nuova dea della “gente nova” e il peccato di avarizia). Ecco allora gli avari girare in cerchio fino a battersi un con l’altro coi prodighi per poi riprendere l’insensato movimento, come è insensata l’azione di chiunque insegua fallaci immagini di bene. Si ricorderà però che l’immagine degli avari che si muovono in cerchio scontrandosi con i prodighi era già stata chiamata in causa salla carola della prima Rose. Dante dunque compie una sovrapposizione tra due immagini circolari: quella della carola, cui rimanda il movimento simile a una danza degli avari, e quella della ruota di Fortuna della seconda. Ciò sembra suggerire una critica ad un modello sociale che ha spogliato la cortesia degli antichi valori, e l’ha piegata alla sopraffazione e all’inganno propri della “gente nova”. Gli avari dunque vengono rappresentati insieme ai prodighi come coloro che inseguono “la corta buffa d’i ben che son commessi alla Fortuna”(vv.61-62), la quale è poi personificata in una intelligenza celeste che sovrintende al continuo mutare delle vicende umane. Si noti dunque la pregnanza dell’immagine come generatrice della suggestione poetica: l’oscurità (associata al mondo sublunare) che assume anche il significato di limite conoscitivo e il movimento circolare. (vedi ad esempio la sestina

Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra, Rime, CI).

Il discorso di Ragione, oltre a introdurre una articolazione e una razionalizzazione dell’amore, che certo porta su un piano di riflessione ben distante dal paradosso cortese e dalle implicazioni gnoseologiche ed etiche connesse al mito di Narciso, presenti ancora nella prima Rose, sposta gradualmente l’asse dal tema lirico ed erotico a quello

delle conseguenze sociali ed etiche dei vari tipi di amore. È proprio la digressione sull’amore di coloro che godono dei fallaci beni di Fortuna ad introdurre da un lato una potenziale contraddizione con l’esaltazione della generosità e prodigalità tipica della civiltà cortese (la largueza), mentre ci fornisce dall’altro l’occasione per constatare somiglianze notevoli con il moralismo dantesco dei canti infernali.

Qu’il aint en generalitè Et laist especialitè

RR, 5439-40

Ragione invita amante a cercare l’amore su questa terra, negando nella sostanza la tesi che Amante ha appena esposto, di un amore che ormai non ha riscontro nell’esperienza umana. Se Amante lamenta la fine, la caduta dell’amore puro e leale, Ragione insiste nella sua tesi che l’amore non debba essere inteso come il sentimento per la donna amata, ma possa rispondere ad una definizione molto più generica di un’affezione rivolta all’umanità, definizione che dunque comprende anche l’amore per il prossimo, lo spirito di carità e l’amicizia. Va ricordato che il momento che segna questo allargamento semantico del significato di amore (o se vogliamo uno spostamento del campo semantico) coincide con la critica dell’amore influenzato dalla Fortuna. I due versi riportati assumono però un altro significato se si pensa anche a una valutazione in senso gnoseologico del sentimento di amore. Potremmo in questo caso interpretarli come l’invito a non esaurire l’amore nella conoscenza dell’altro (si pensi al paradosso gnoseologico della fontana di Narciso: l’amore per la conoscenza dell’altro porta a perdere la coscienza di sè), e ad ampliarlo nell’amore per l’umanità in genere (amor caritas), come l’influsso di una concezione della conoscenza appunto universale, che non si esaurisce nell’esperienza del sentimento individuale ma è propria del saggio che ricerca la conoscenza nell’anima universale del mondo, nell’intelletto possibile che sopravvive alla morte dell’anima individuale.

“Mais or vendent les jugemenz

Et bestornent les erremenz Et taient et content et raient Et les povres genz trestout paient: tuit s’efforcent de l’autrui prendre”

Il discorso si allarga fino a comprendere l’amore per la giustizia e la critica alla categoria dei giudici, che preannuncia la critica ad altre categorie professionali. Qualcosa di analogo si legge nelle prime terzine dell’undicesimo del Paradiso, dove c’è un analogo procedimento anaforico che serve a rendere l’idea dell’indaffararsi nel vizio e nella corruttela morale di queste figure di borghesi, trascinate in un ritmo laborioso quanto insensato, che sembra rallentare solo quando s’invischia nella bestiale fatica dei sensi:

O insensata cura de' mortali Quanto son difettivi sillogismi

Quei che ti fanno in basso batter l'ali! Chi dietro a iura, e chi ad aforismi Sen giva, e chi seguendo sacerdozio, E chi regnar per forza o per sofismi, E chi in rubare, e chi in civil negozio; Chi nel diletto della carne involto S'affaticava e chi si dava all'ozio.

Pd XI, 1-9

È proprio l’accostamento tra questa laboriosità ammantata di scienza e la meccanicità di un coito, a rallentare il dinamismo dei versi precedenti e a far sfociare nel grottesco, nella rappresentazione di automi accecati da passioni volgari, l’elencazione accurata delle nuove professioni della vita cittadina. Ciò segna la differenza tra il genio poetico dantesco, che non disdegna l’irriverenza quando un fine morale più alto la giustifichi, e il più scontato ricorso all’anafora e all’accumulazione cui si fermava l’ingegno da letterato del De Meun.

Il discorso di Ragione si dispiega in modo ora meno argomentativo e più allegorico (lo Strubel segnala la dipendenza di alcuni di questi passi da Alano di Lilla). All’immagine della ruota di Fortuna, nuovamente rievocata, si aggiunge quella del Palazzo di Ragione, instabile e mal costruito, posto su una rocca battuta dai venti. Sono immagini

tradizionali, ma l’aver posto la Commedia come un’anti-Rose e l’accostare le immagini mentali che presiedono alla creazione poetica nell’uno e nell’altro poema, spingono ad alcune interessanti considerazioni. Non mi sembra del tutto insensato accostare all’immagine della ruota di Fortuna quella del roteare delle braccia di Lucifero nell’estrema profondità dell’Inferno. E l’accostamento viene rafforzato dall’immagine dei due fiumi che compaiono nella Rose e che nell’Inferno sono i fiumi infernali. Di quei fiumi si può dare una spiegazione che richiama la teoria umorale (riferibile alla pneumatologia medioevale). Essi rappresenterebbero cioè la circolazione linfatica dei quattro umori (come quattro sono i fiumi infernali) che influiscono, variando la loro composizione, sui sentimenti e i moti dell’animo umano. Dopo aver avanzato questa ipotesi, non paia una contraddizione il ripensare poi quella stessa immagine come generata da un modello di interpretazione delle vicende umane apparentemente diverso. Sia Dante che il de Meun rimandano a un comune bacino allegorico, che probabilmente proprio da quella teoria umorale e fantasmatica continuava ad alimentarsi, ma questo non esclude che ne potessero fare un uso tra loro diverso. E la differenza sta in primo luogo nella contestualizzazione di tali allegorie. L’allegoria di Fortuna nella Rose chiude tutto quell’argomentare così ricco di buon senso e in cui Amore diventa qualcosa di diverso dall’amore cortese. Raison compie dapprima uno spostamento del campo semantico (che non si può definire impercettibile o impalpabile, ma è anzi portato avanti con sfacciata determinazione), che dalla riflessione su Amore conduce a una morale tutta pratica e piantata sul senso comune, collocandovi poi l’allegoria della Fortuna, spogliata di quella coloritura emotiva che dalla confluenza di mitologia e tradizione retorica si poteva ancora sentire nell’Anticlaudianus di Alano di Lilla. Dante, che qui vediamo proprio come l’autore dell’anti-Rose, riprende tutto questo argomentare proprio di un sentire borghese e lo riproietta, insieme ai vizi e alle passioni umane, nell’ineluttabilità del giudizio eterno. A questo punto della nostra argomentazione dobbiamo però porci una domanda. Non vi sono dunque altre possibili interpretazioni del rapporto Rose-Commedia che non siano quelle di un radicale rovesciamento? In effetti, il ragionamento che abbiamo fatto finora può convincere fino a un certo punto, ma forse pecca per un eccesso di semplificazione. Innanzitutto l’accostamento con la teoria umorale suggerito dalla confluenza dei due fiumi suggerisce anche per la seconda Rose una complicazione in senso psicologico, che trascende una chiave solo sociologica ed economica per la lettura delle vicende umane.

Si ha buon gioco a vedere nella fin’amor la sovrastruttura culturale del rapporto sociale feudale e di conseguenza nella demistificazione attuata nella Rose il segno di una trasformazione portata dalla visione del mondo dell’intellettualità borghese parigina, ma tale teoria regge solo se celiamo alla nostra vista i pur significativi elementi di contatto e di continuità che con la civiltà cortese la seconda Rose continuava a mantenere. Rapporti che nella nostra indagine comparativa emergono solo se contestualizziamo l’uno e l’altro messaggio (demistificazione borghese della cortesia nel De Meun e sua rilettura in chiave sacrale in Dante) nel bacino di una ininterrotta tradizione culturale allegorica, che attraverso la graduale enfatizzazione emotiva e drammatizzazione delle prima astratte imagines agentes della retorica medioevale, aveva acquistato la pregnanza dell’indagine psicologica. Torniamo dunque alla rielaborazione che Dante fa nella Commedia dell’immagine di Fortuna, e notiamo che l’immagine della ruota di Fortuna e della confluenza dei due fiumi sono riproposte nel canto XXXIV dell’Inferno. Questa volta però non sarà sufficiente l’accostamento testuale, ma si dovrà fare riferimento a un apparato iconografico eccezionale per il confronto, vale a dire il Battistero di S.Giovanni in Firenze. Il “Bel S.Giovanni” sembra seguire da vicino il dialogo sotterraneo tra i due testi. I bassorilievi delle porte, nella parte curata da Giotto, ci offono proprio quelle personificazioni femminili il cui gusto richiama da vicino le allegorie della Rose. Vi compare ad esempio una donna che tiene ben stretto il borsello, immagine di cupidigia ed avarizia.

Par cest songe pouvez entendre Qu’el vous velt faire au gibet pendre

RR vv. 6517-18

Nel ragionamento di Raison, nel momento in cui ricorre all’exemplum storico (la vita di Nerone narrata da Suetonio) dei rovesci di fortuna, ad un tratto compare questa immagine del gibbetto associata all’immagine dell’impiccato (tradizionale immagine dell’avaro, legata a quella di Giuda iscariota appeso all’albero) che si era già citata a proposito di Pier della Vigna. Si notino dunque i due elementi del gibbetto e della corda appesa al collo, che sarà la condanna di Nerone costretto a nascondersi, lui che aveva imperato con ogni arbitrio e sembrava non conoscere limiti al suo potere. Chi più di Pier della Vigna può rappresentare i colpi cui sottopone la Fortuna? Eppure più su avevamo dato di questa figura un’interpretazione ben più complessa, che richiamava, in una trasfigurazione grottesca, l’immagine di Cristo sulla croce. La scoperta di questo

nuovo riferimento certo non banalizza quella prima interpretazione e solo serve a sottolineare il modo in cui la memoria dantesca complica i suoi riferimenti alla Rose, sviluppando intorno ad essi un complesso apparato iconologico in cui confluiscono arti figurative, mnemotecnica e retorica, iconografia religiosa. E come questi riferimenti spostino il discorso di Raison (e in questo certo agirebbe la forza corrosiva dell’esperienza del Fiore, nell’ipotesi di una sua attribuzione dantesca) fino al richiamo, sia pure parodico o antifrastico, della figura di Cristo (la Rose che diviene “fiore”, che è nello stesso tempo simbolo della città di Firenze e del martirio di Cristo130). L’albero, cioè il lignum vitae, immagine del sacrificio di Cristo, diviene simbolo del patibolo. E questa interpretazione dell’albero come patibolo è resa esplicita dal De Meun.

Fortune a ceste fin vous chace Qui tost et donne les honnours Et fait souvenz des grand menours Et des menours refait greigneurs Et seignorir seur les seigneurs. Que vous iroie je flatant? Fortune au gibet vous atant Et quant au gibet vous tendra La hart au col, el reprendra La bele coronne doreè Dont vostre teste a coronnée. S’en iert vous autre coronnez De cui garde ne vous donnez.

Veniamo confermati comunque nell’impressione che l’elemento iconografico dell’albero sia, nella nostra ipotesi indiziaria del legame Rose-Commedia, un elemento chiave. Si osservi come l’immagine evocata da Ragione della Fortuna che si riprende la corona dorata mentre avvicina la testa del malcapitato al cappio, trovi una risposta nella

Commedia nell’atto di Virgilio, figura della ragione umana, che, prima di accomiatarsi

da Dante, riconoscendogli di essere ormai dotato di libero arbitrio dopo essersi mondato 130 Che proviene dal fiore di Maria e diviene frutto. Vedi ad esempio il responsorio di Fulberto di Chartres, messo in musica dal Pio re Roberto “ Il tronco di Jesse ha prodotto un ramo, e il ramo un

dalle tendenze al peccato, lo incorona signore e maestro di se stesso (sovra te corono e mitrio). Ciò accade negli ultimi versi del canto XXVII del Purgatorio, uno dei più densi di riferimenti al Roman de la Rose.131