Lettura comparata Rose-Commedia
INDICE NARRATIVO-TEMATICO DEL ROMAN DE LA ROSE
K. Natura entra nella battaglia 15861-16292 L Discorso di Genius a Natura 16293-1
74 POZZATO, 1989 75 GILSON, 1987: p
2.8 Il mito di Narciso e la fontana
2.9.1. Una nuova concezione dell’arte
È vero che Venere questa volta appare nelle vesti di una donna dal piglio deciso e dallo spiccato senso pratico. Ma la figura di Pigmalione innesca ben altre considerazioni, se messa in relazione con l’etica cortese. Innanzitutto l’ “amore impossibile”, completamente fuori dai canoni e dal fine della procreazione, si inserisce in una tradizione intellettuale molto antica, che risale alla pederastia degli intellettuali greci. In questa tradizione, l’intellettuale, impegnato nella ricerca del vero e della bellezza, traduce tale atteggiamento spirituale anche nelle scelte della vita affettiva e sessuale, che si pongono in antitesi con quelle dell’etica dell’amore procreativo e coniugale. Nell’antichità tale scelta era il tratto distintivo di una elite, mentre la sua versione medioevale, appunto l’amore adulterino, o addirittura la castità, degli intellettuali della fin’amor, aveva trovato un radicamento sociologico ben diverso96. La fortuna che tale idea dell’amore ha trovato, come contemplazione platonica dell’amata e mezzo di catarsi spirituale, valica i confini della cultura medioevale per giungere, attraverso il
petrarchismo, ad essere il nucleo fondatore dell’idea dell’amore nella cultura occidentale moderna97. Tale amore paradossale è infatti stato il nucleo generativo del sistema di valori della civiltà cortese, in cui le storie degli innamorati e la loro etica diventavano esemplari per tutta la multiforme società che gravitava intorno alla corte. Fondamentale fu il fatto che vi si identificasse la classe dei marginal men rappresentata dai cavalieri senza terra, che potevano così anteporre alla ideologia del possesso e del potere98, quella di una nobiltà fondata sulla gentilezza d’animo e un’etica della rinuncia. La trasformazione della società feudale, e il diffondersi della cortesia nelle realtà comunali italiane comportò ben presto il venir meno delle ragioni sociologiche dell’esistenza degli ideali curtensi, perché si sentivano sempre più soffocanti i vincoli alla rinuncia e alla devozione estatica, e al limite anche senza speranza di domnei, della donna amata. Con il Cavalcanti il paradosso cortese arriva alle sue ultime conseguenze: mentre si rovescia il rapporto amante amata (è la donna a costituire un tramite di elevazione spirituale per l’innamorato), l’analisi dei devastanti effetti dell’amore passione si salda con le convinzioni ereditate dalla filosofia averroistica. L’amore diventa così una forza cieca che distrugge le facoltà intellettive dell’uomo, impedendogli di attingere la felicità intellettuale che consiste nel partecipare delle idee dell’intelletto possibile. La donna costituisce un tramite inarrivabile di purezza, mentre l’uomo è condannato dalle proprie passioni a perdere per sempre quel sogno di felicità ed eternità promessogli dalle proprie aspirazioni intellettuali.
Se accettiamo questa lettura del mito di Pigmalione rispetto a quello di Narciso, in cui Narciso è l’artista vincolato a fissare un’immagine reale (anche se interiorizzata), mentre Pigmalione è l’artista che riesce finalmente a svincolarsi dal rapporto con l’oggettività diventando egli stesso l’artefice dell’oggetto della propria contemplazione, da considerarsi ormai come esternalizzazione di un contenuto spirituale, allora si può vedere in questo “manifesto” della poetica ovidiana, fatto rivivere in età medioevale, una rivendicazione analoga all’idea della pittura come “arte pura” affermata all’inizio del secolo scorso da Kandiskij.99 A questo punto possiamo chiederci se e fino a che punto il mito di Pigmalione ritrovato nella Rose possa aver influito sul giovane Dante e
97 Compiremmo un errore di valutazione storica se credessimo che questa idea dell’amore come servizio
e devozione di un’immagine conservata nel proprio cuore, e possibile anche senza alcuna speranza di “merce”, sia nata con l’umanità stessa. Essa trova la propria origine proprio nella civiltà cortese medioevale. Vedi in proposito MARROU, 1983.
98Che ben presto si espresse, in un tentativo di banalizzazione della cortesia originaria, nei trovatori della linea alto cortese.
sulla sua concezione del ruolo dell’artista, quale emerge dalla Commedia e da altre opere (vedi ad esempio l’epistola a Can Grande della Scala). Si badi bene che a quanto stiamo scrivendo non costituisce un ostacolo il carattere “realistico” della poesia dantesca. Il fatto stesso che annuncio della Commedia (anche se ancora pensata come poema paradisiaco) sia la parte conclusiva e più metafisica del prosimetro giovanile fa capire quanto tale perplessità sia più il frutto di un nostro pregiudizio su quali debbano essere i caratteri di una poetica realistica, che la conseguenza di una effettiva comprensione della sua natura. Proprio questo pregiudizio, secondo Auerbach, rende ragione del fatto che per lungo tempo questo straordinario annuncio di un poema paradisiaco sia per così dire passato in secondo piano nella critica dantesca.100
Si può concordare con Agamben, quando afferma che la comprensione della letteratura medioevale richiede il superamento della compartimentazione disciplinare, in particolare tra scienze umanistiche e medico-scientifiche, nella globalità di un approccio interdisciplinare. Proprio la citazione che egli fa di un passo nel quale Averroè espone la teoria secondo cui la fantasia ha origine nel cuore, consente di capire quanto sia profondo il divario tra la mentalità del mondo medioevale e quella attuale. Già nella rappresentazione “archetipica” dell’essere umano. Se infatti dovessimo chiederci che cosa fa da paradigma alla auto-rappresentazione dell’uomo moderno, credo che troveremmo la risposta in due ben distinte immagini. La prima è quella di un albero che
99 “Nella pittura compositiva, che si sviluppa oggi dinanzi ai nostri occhi, vediamo immediatamente i
caratteri del raggiungimento dello stadio superiore dell'arte pura, nella quale i residui del desiderio pratico possono essere eliminati totalmente, e che è in grado di parlare da spirito a spirito con una lingua puramente artistica ed è un regno di entità pittorico – spirituali (…)Il passato c'insegna che l'evoluzione dell'umanità consiste nella spiritualizzazione di molti valori. Tra questi valori l'arte occupa il primo posto.(…)Tra le arti la pittura percorre la via che conduce dalla finalità pratica alla finalità spirituale. Dall'oggettivo al compositivo”. (KANDINSKY, 1973 Articoli teorici: La grammatica della creazione da W. Kandinsky - Tutti gli scritti vol.1ed.Feltrinelli 1973) È nota la teoria dell’evoluzione dell’arte di Kandinskij, secondo il quale essa deve attraversare tre fasi, l’ultima delle quali, che si sta realizzando nella pittura moderna, porta l’artista a prescindere del tutto dalla realtà oggettiva e a dare forma materiale a contenuti emozionali interiori. Mi limito soltanto a evidenziare la notevole portata di questa affermazione che da un lato sembra applicare all’arte una teoria dello sviluppo spirituale analoga alle tre età di Gioachino da Fiore, dall’altro trova significativi addentellati con lo studio della creatività artistica da parte della psicanalisi di scuola inglese. In un altro scritto del 1913, Sguardo al passato, l’artista giunge a definire l’opera d’arte come “una creazione del mondo” Anche il pittore Klee ripete sostanzialmente lo stesso concetto di Kandinskij: "L'arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è".
100 “Come se la mimesis poetica dovesse essere una copia di cose determinate, e non fosse piuttosto
autorizzata a fondere a suo piacimento il materiale di realtà tratto dall’infinito numero delle cose di cui la memoria dispone”. AUERBACH, 1963: p.55 (citato in BRANCA, 1966). Il termine chiave di questa
libertà espressiva pur nell’ambito di una poetica realistica è proprio “memoria”: è proprio guardando nel libro della memoria, che inizia il percorso intellettuale e mistico-poetico del libello giovanile.
potrebbe idealmente sovrapporsi all’uomo vitruviano di Leonardo. Questa forma esprime la materialità del nostro corpo, il suo essere disegnato secondo la forma di uno zampillo di sangue, che viene pompato dal cuore e si ramifica come le fronde di un albero101. Ad essa si associa, o meglio si contrappone, quella dettata dalla percezione delle parti del nostro corpo, per cui la testa appare smisuratamente più ampia e gli arti diventano sempre più piccoli. In questa forma dell’ “omuncolo”, quella della “propriocezione”, sembra rovesciata la precedente e l’attività mentale tipicamente umana fa di esso un “microcosmo”, che rinnega il contatto con la materialità . Nella nostra cultura dunque l’uomo come entità fisiologica e l’uomo come entità mentale- spirituale si contrappongono in modo netto. Nel medioevo invece la contrapposizione non era così netta, anzi all’immagine dell’albero, con tutti i significati biblici che ad essa si collegavano attraverso l’allegoria del lignum vitae, poteva ben accordarsi anche a quella dell’attività spirituale. L’attività mentale era infatti, come ben sottolinea Agamben, un’attività “fantasmatica” che era esercitata all’interno di apposite camere del cervello in cui si concentravano in modo diverso quegli umori che originavano comunque dal sangue pompato dal cuore. L’attività mentale insomma non aveva ancora quel carattere freddo e astratto, immateriale che ha assunto nella modernità, ma manteneva il suo contatto con la materialità attraverso l’idea di un qualcosa di fluido e di sanguigno da cui faceva dipendere l’esistenza stessa delle immagini che popolavano il teatro interiore. Certo, il legame tra spiritualità e materialità non era né materialistico né deterministico, anche se il pericolo di una tale deriva, che avrebbe facilmente condotto a un ateismo materialista o a un panteismo pagano, era sempre possibile (e fu sentito in particolare nel contatto con l’averroismo). Si potrebbe obiettare che l’autopercezione corporea in forma di “homunculus” non è una prerogativa dell’uomo moderno. Ma è un fatto che la teoria che la esprime è stata elaborata dalla scienza medica moderna102, quindi propria di un’epoca in cui il razionalismo cartesiano aveva stabilito una netta distinzione tra “res cogitans” e “res extensa”, unite soltanto dall’”escamotage” filosofico e medico della ghiandola pineale. Per i medioevali il fatto
101 È l’accostamento con l’albero non è casuale, perché anche la forma dell’albero deriva da un sistema
linfatico analogo a quello sanguigno dell’uomo.
102 È stata elaborata la prima volta nel 1870 dagli studiosi Fritsch e Hitzig i quali scoprirono la relazione tra parti della corteccia cerebrale, diverse per numero di neuroni, e parti del corpo e venne poi ripresa dal neurologo canadese Wilder Penfield. L’omuncolo moderno dunque è una rappresentazione del corpo umano disegnato a partire dal cervello, secondo una considerazione quantitativa del numero di neuroni del movimento. Naturalmente non faccio qui riferimento agli altri “omuncoli”, uomini creati artificialmente dalla scienza alchemica (come quello di Paracelso), o quelli della teoria genetica di Anton van Leeuwenhoek, che hanno in comune con questo solo il nome.
che il cuore fosse il centro del sistema circolatorio non era un fatto soltanto fisiologico, come dimostra nel suo saggio Agamben103, ma ne faceva il centro egemone, attraverso la diffusione dello pneuma, di ogni attività mentale, fantastica e sensoriale. In questi termini, Dante poteva scrivere che la paura “nel lago del cor m’era durata104” (Inf. I, 19). Il riferimento a Kandisnkij certo illumina sulle insospettate analogie tra la sensibilità artististica moderna e quella e quella della “new age” medioevale sorta all’epoca dello Stilnovo. Essa però, applicata alla poetica dantesca, nasconde anche delle gravi insidie, già a partire dalla Vita Nuova. Branca in “Poetica del rinnovamento
nella Vita Nuova” cita opportunamente l’Auerbach, osservando a proposito del carattere
dell’amore nella Vita Nuova, che una delle “regole” del realismo dantesco consista proprio nel non fare uso di questa straordinaria libertà espressiva che pure sembrava caratterizzare la poetica di questa nuova corrente artistica medioevale. l’amore di cui parla Dante, che lo solleciterà a concepire un poema paradisiaco per la “gloriosa donna della mente”, resta pur sempre un amore caratterizzato nei termini del più diffuso sentimento tra gli uomini.
Possiamo però sviluppare il confronto tra Narciso e Pigmalione anche secondo una lettura diversa del loro rapporto, questa volta in chiave analogica anziché differenziale: sia Narciso che Pigmalione sono figure della negazione e dell’assenza. L’esteta contemplatore di un’immagine riflessa e lo scultore infatti scoprono una dimensione della creazione umana come percezione dell’assenza.
Narciso “scoprendosi” come immagine riflessa nega a se stesso uno statuto ontologico indipendente (mi scopro in quanto sono un riflesso, cioè mi rendo conoscibile in quanto non sono); lo scultore crea in quanto “toglie”, libera la forma imprigionata nella materia: la creazione umana dunque non consiste nel “dare”, nel “creare” perfezione e bellezza (come è il sogno di Pigmalione), tantomeno nel dare e nel creare vita (come avviene nella procreazione naturale), ma nel rivelare l’assenza nel mondo reale della bellezza cercata e sognata. Credo che questo discorso possa collegarsi alla dimensione simbolica dell’enigma come assenza e negazione, posta in rilievo da Agamben in uno
103 Sulla pneumatologia medioevale vedi AGAMBEN, 1977 Cap.III . Rimandiamo a questo capitolo per
la consultazione delle fonti. Ci limitiamo ad aggiungere qualche citazione dantesca: “la paura che nel lago del cor m’era durata”, “Tre donne intorno al cor mi son venute” il capitolo della Vita Nuova sui tre spiriti.
104 Anche se probabilmente questa espressione fu scelta dall’autore anche per una sua doppia lettura, in
cui alla interpretazione secondo la teoria umorale, se ne aggiunge una in termini d’immagine: la paura (immagine paurosa) che si palesa come immagine riflessa nello specchio interiore.
dei capitoli conclusivi del saggio citato. Se pensiamo a una lettura di questo tipo in chiave psicanalitica, credo che il concetto che meglio possa servire a spiegarla sia quello freudiano di rimozione. Il rimosso è ciò che una pulsione istintuale vorrebbe ripresentare alla mente e che l’Io respinge negando ad esso uno spazio di realtà e conoscibilità.
È dunque ciò che entra in rapporto con la nostra vita psichica solo nella misura in cui risponde alla condizione di “cosa che non è”. Secondo Freud la nostra vita psichica è frutto di stratificazioni diverse, ciascuna delle quali è codificata con un proprio linguaggio. Nel passaggio da una fase all’altra della vita psichica avviene la trascrizione nel nuovo codice, tranne che per quelle parti che subiscono il processo di rimozione. Queste parti restano come isole nell’universo psichico, e possono talora riaffiorare alla coscienza, senza però che la nostra mente sia in grado di decifrarle. Sono quindi oggetti psichici “enigmatici”, significati che resistono all’associazione col significato. Quanto affermava S.Agostino nelle Confessioni: “Io non comprendo tutto ciò che sono”, “mi sono fatto un problema a me stesso”, non andrebbe più inteso come la consapevolezza di un limite nella conoscenza di sé, ma piuttosto della necessità di questo limite. Lo sguardo di Narciso allora è lo sguardo in un universo interiore improvvisamente oggettivato, che non risponde alla logica aristotelica e al principio di non contraddizione (è formato infatti da cose che sono, cioè si rendono presenti alla coscienza, in quanto non sono), custode di verità racchiuse nell’enigma. Lo sguardo di Narciso è dunque una forma di Ubris che lo porta a violare l’enigma (come nel mito di Edipo che scioglie l’enigma della Sfinge, citato da Agamben). Secondo questa interpretazione qual è il rischio insito nell’aspirazione di Narciso? Dove sta il rischio di “vedere interamente” dentro di sé, di trovare una chiave che permetta di decifrare quei linguaggi indecifrabili che custodiscono i misteri della vita inconscia (chiave evidentemente collegata alla loro traduzione in termini visivi)? Tale rischio sta nell’oggettivazione del sé come oggetto conoscibile e dunque, per converso, nello svuotamento della soggettività conoscente. Per questo l’Ubris di Narciso è anche un suicidio.