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Lettura comparata Rose-Commedia

INDICE NARRATIVO-TEMATICO DEL ROMAN DE LA ROSE

K. Natura entra nella battaglia 15861-16292 L Discorso di Genius a Natura 16293-1

74 POZZATO, 1989 75 GILSON, 1987: p

2.10 Alcuni nodi intertestual

Riprendo ora l’analisi dei rapporti intertestuali tra la Rose e la Commedia (sia che la loro matrice sia una conoscenza ipotetica del Roman da parte del poeta fiorentino, oppure riconducibile alla mediazione di una versione a noi sconosciuta del poema francese, circolante in Italia al tempo di Dante, o per via indiretta attraverso gli echi del

Roman nella tradizione poetica certamente conosciuta da Dante e per lui significativa). Ades me plut a demeurer

A la fontaine et remirer

Li cristaulx qui me monstroyent Moult de choses qui y estoyent Mais de fort heure m'y mire Las tant en ay puis souspire

Ou mireoir entre mil choses Choysi rosiers chargiez de rose Qui estoyent en ung destou Cloz d'une haye tout entour

R.R.,1613-16

L’amante rimirando sempre più in profondità i cristalli nel fondo dello specchio d’acqua, scorge dei roseti carichi di rose, del colore che mai più intenso fu visto sotto il cielo. L’atto ha dunque un carattere estatico-contemplativo, ma al suo interno si può distinguere un elemento di scelta estetica personale: l’ amante riconosce e distingue una rosa, tale che al suo cospetto tutte le altre sono trascurabili.

La forza e l’intensità della descrizione del profumo del roseto, in cui i tanti odori si condensano in un unico intenso profumo rimanda alla descrizione di Paradiso, che si avvale di similitudini con altre sfere sensoriali:

“Così un sol calor di molte brage si fa sentir, come di molti amori usciva solo un suon di quella image. Ond' io appresso: «O perpetüi fiori de l'etterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti vostri odori” Pd XIX ,18-23

Tale raffinatezza nell’accostare sensazioni diverse in Dante segna una notevole superiorità espressiva rispetto al Roman, nel quale l’autore si limita a parlare di un “grant monciau” di rose. Diventa però interessante notare la forza con cui egli descrive il passaggio dal primo abbandono estatico alla scelta di una singola rosa, per la sua superiorità assoluta, che viene colta con un atto intellettuale più che contemplativo: “esgarder” . Credo che possiamo su questo punto giovarci delle riflessioni che abbiamo fatto sull’arte come atto non puramente mimetico ma legato invece a un principio compositivo, e quindi a una intellettualizzazione della dimensione estetica, che sembra precedere la sua sacralizzazione ed eticizzazione nella direzione di una morale cristiana.

Ancora più interessante, nella direzione dei riscontri con la Commedia, è il passo in cui l’Amante attua questa sua scelta del fiore più bello:

D’antre les botons en eslui un si tres bel; envers celui nus des autre riens né prisié, puis que je l’oi bien avisié, car une colors l’enlumine qui est si merveilleus et fine com nature la pot plus faire.

R.R., 1652-58

Ad un attento conoscitore della Commedia, non sfugge quell’enlumine, che fa pensare all’ alluminar del noto passo di Oderisi (Purg. XI).

Oh!», diss' io lui, «non se' tu Oderisi, l'onor d'Agobbio e l'onor di quell' arte ch'alluminar chiamata è in Parisi? Purg. XI, 80-81

È nota la questione intorno all’alluminar del Purgatorio. Vista la forte valenza tecnica del significato che assume in quel particolare contesto (indicando la tecnica della miniatura), la critica si è divisa tra coloro che propendono per un forte francesismo, che deliberatamente si contrappone al concorrente italiano “miniar” (non per nulla l’autore poi puntualizza che tale tecnica pittorica è così chiamata in Parisi , quasi a suggerire che non esiste un lemma italiano che esprima il medesimo significato per quell’arte) e coloro che, come fa il Mattalia108, propongono un’etimologia latina da “ad lumen”, che sottolinea l’uso dell’allume, un legante per alcuni tipi di pigmenti usato anche dai miniatori, e che aveva la caratteristica di “dare luce” , schiarire i volti e le vesti delle miniature. Il fatto che il Mattalia indichi una etimologia latina non impedisce che il verbo fosse comunque sentito come francesismo, vista la forte somiglianza con

enluminer e, soprattutto, le parole di Dante sull’origine oitanica di tale vocabolo. 108MATTALIA, 1975.

In secondo luogo, proprio il possibile legame con questo passo del Roman, farebbe propendere nella direzione o di una memoria “inerziale” di una lettura attenta della parte di Guillaume del Roman, oppure a una più ragionata riflessione da parte dell’autore nel processo di composizione e condensazione attuato nel disseminare di “indizi” intertestuali il nostro maggior poema. Analizziamo intanto la prima ipotesi, quella della memoria poetica più o meno inconsapevole. Quell’illuminar è chiaramente associato alla città di Parigi, sede di una scuola pittorica o di una accademia di cui fece parte il pittore umbro. Si potrebbe obiettare che in questo passo non si scorgono riferimenti alla città francese. Però va ricordato che la memoria dantesca del Roman è sicuramente posteriore alla sua rielaborazione/condensazione attuata nel Fiore, e che dunque, sia che Dante sia stato autore del Fiore, sia che abbia conosciuto il poema francese attraverso il

Fiore o altri volgarizzamenti e riduzioni simili all’irriverente poemetto, è perfettamente

compatibile con tale memoria così “filtrata”, un processo di condensazione del testo che rende molto vicini passi tra loro distanti qualche decina di versi. Se accettiamo tale condensazione del testo originario e quindi andiamo ad esplorare anche i versi vicini, ecco emergere l’analogia con il duplice toponimo città italiana/Parigi. Più su nel

Roman, l’amante afferma che il profumo delle rose è così intenso che non vi avrebbe

rinunciato né per Pavia né per Parigi

Et lors me pris si grant envie Que ne leissase pour Pavie Ne por Paris que n’i allasse R.R. 1616-1620

Il nome di Pavia sarà stato suggerito a Guillaume dal gusto per l’allitterazione, ma senza dubbio resta il nome di una città italiana che viene messo in parallelo con quello della capitale francese. Quindi non solo sussiste la memoria del lemma francese enluminer, ma essa si associa alla coppia Agobbio/Parigi che ripete la coppia Pavie/Paris. Ricordiamo, per inciso, che il gusto dei toponimi cittadini, reali o inventati, all’interno di locuzioni iperboliche, è uno degli stilemi tipici del Fiore. Ma qui preme più rimarcare l’associazione con la Commedia: Oderisi è l’onor d’Agobbio e di quell’arte che

alluminare è chiamata è in Parisi. Nel passo dantesco la citazione assume una forma

ben precisa, e non una generica condensazione frutto di una inconsapevole memoria inerziale, essendo il forte francesismo derivato dal Roman in posizione centrale rispetto al nome della città italiana e di quella francese, quasi a suggerire una posizione mediana

della tecnica artistica tra tradizione italiana e nuovi apporti della cultura francese (e certo a Dante premeva soprattutto sviluppare il confronto tra i processi di traduzione culturale delle arti figurative e della poesia).

“L’odor de lui entor s’espent”

R.R., 1665

Con questo verso notiamo come alcuni riferimenti intertestuali vedano il calco dantesco come rovesciamento parodico del passo della Rose (o meglio, per seguire al terminologia continiana “antiparodico”, sennonché qui si tratta probabilmente di una precisa volontà dantesca di deridere il rivestimento cortese con cui certa parte della “gente nova” voleva evidentemente nobilitare la sua realtà di ruberie e meschinità):

“E per l’inferno ‘l tuo nome si spande”

If XXVI, 3

La violenta invettiva contro Firenze con cui Dante apre il XXVI canto, che ricordiamo è anche il canto di Ulisse e dell’”Orazion picciola”, e dunque dell’invito a seguir virtute e conoscenza, cela forse un debito al verso citato del Roman di Guillaume de Lorris, che farebbe in questo modo quasi da controcanto edenico e cortese, di una cortesia ancora autentica, al risentimento rabbioso del poeta? Il richiamare alla memoria l’Eden serve a far risaltare la fatuità dei “miseri malvagi” e la loro falsa adesione ai precetti cortesi; d’altra parte basti ricordare come le invettive più violente della Commedia, quelle in cui il linguaggio trova gli accenti più aspri, quasi volgari, sono proprio quelle del Paradiso. Altri indizi sono da ricercarsi nell’analogia anche fonetica, oltre che semplicemente sintattica: si vedano le coppie minime entor/inferno, s’espent/si spande. Il dubbio di una analogia casuale rimane legittimo, ma forse potrà attenuarsi se a questo riscontro aggiungeremo quelli successivi, dove il procedimento di ricalco parodico (o semplice rovesciamento semantico) tra situazione edenica cortese e situazione infernale appare il medesimo.

Si veda ad esempio

“l’en en jue et rit et envoise”

R.R. v. 2178

Si noti come l’espressione trimembre ricordi da vicino il verso di Giacomo da Lentini : “u’ si mantien sollazzo, gioco e riso”

I versi del Notaio adottano la stessa espressione, probabilmente non per un’influenza diretta dal Roman, ma derivata da altre fonti comunque francesi o provenzali (sono note le traduzioni del Notaio, da Folchetto la più nota). Certo non ne possiede la delicata ironia, mentre procede, in sintonia con le tendenze più generali della scuola siciliana a una sua sacralizzazione, sottolineando il parallelismo tra eden cortese e paradiso cristiano. La suggestione del parallelismo non è eccentrica rispetto al nostro tema: il Notaio è una delle poche certezze che abbiamo sulla cultura dantesca (nel senso che è certo che ben lo conobbe, vista se non altro, la citazione che ne fa in un testo “tecnico” rispetto a temi di poetica come era il De vulgari Eloquentia); il peso del Roman cerchiamo di dimostrarlo in questa sede, ma certo possiamo anticipare che ben difficilmente poteva essere sconosciuto a Dante. Dunque, considerando la “vischiosità” della memoria poetica dantesca, certo non gli sarà sfuggita questa analogia. E in fondo notiamo come il Roman, in cui la descrizione delle gioie del Paradiso degli innamorati si stempera nell’ironia (definendole cioè per paradosso come sintomi di una ben strana malattia), assume una posizione mediana tra la ripresa preziosa e cristallizzata nella contemplazione estatica del Notaio, e il rovesciamento sarcastico che del passo del poeta siciliano si compie probabilmente in un passo infernale:

al santo loco ch’aggio audito dire, u’ si manten sollazzo, gioco e riso.

JaLe, Io m’aggio, 2-3

Io udi' già dire a Bologna del diavol vizi

assai

Inf XXIII, 142

È difficile stabilire se la coppia di emistichi ch’aggio audito dire / io udi’ già dire possa essere indizio d’intertestualità significativa o non si tratti piuttosto di una formula di uso frequente. Ma è suggestivo pensare a un riferimento esplicito, tanto più che una via intermedia tra l’apparente “candore” del Notaio e la satira degli ambienti accademici si può forse dare nel Guinizzelli, dove si ritrova la stessa formula, associata alla denuncia della natura ingannevole dell’amore:

se non ch'audit'ho dire

che 'n quello amare è periglioso inganno che l'omo a far diletta e porta danno.

GuGu, Madonna il fino amor, 22-24

Che Dante nella descrizione dell’Inferno pensasse talora a un Paradiso cortese rovesciato, lo suggerisce peraltro anche il primo emistichio del verso del poeta siciliano:

se per Giacomo il paradiso è il “santo loco” di un’eterna epifania del “claro viso” e del “morbido sguardare”, l’Inferno, pochi canti più su di quello citato, è dove “non ha loco il santo volto”.

al santo loco ch’aggio audito dire, u’ si manten sollazzo, gioco e riso.

JaLe, Io m’aggio, 3-4

se non veder lo suo bel portamento e lo bel viso e ’l morbido sguardare

Ibid., 11-12

Gridar: qui non ha loco il santo volto Inf XXV, 48

Gli elementi lessicali “santo”, “loco”, “viso” trovano rispondenza in “santo”, “loco”, “volto”. Certo, l’antitesi non è del tutto perfetta perché la sostituzione di “volto” a “viso” sposta in chiave cristologica la contemplazione, mentre nel Paradiso di Giacomo essa era rivolta alla manifestazione di una bellezza tutta femminile per quanto angelica, ma rimane l’impressione di un rovesciamento grottesco della sottile malizia di Giacomo.

Tornando al verso di Inferno XXIII, i lettori del Fiore vi possono riconoscere uno degli stilemi più tipici e “avvelenati” del poemetto. Il frate Falsembiante, esponente della categoria dei nuovi intellettuali falsi e ipocriti, che disprezza chi

non ha lett' a Bologna

Fiore XXIII, 11

Espressione tecnica del mondo accademico degli Studia per intendere il tenere lezioni universitarie di diritto, il termine viene ridicolizzato da Dante, che da giovane a qualcuna di quelle lezioni evidentemente aveva presenziato in veste di uditore, per cui si immagina un severo ambiente accademico in cui si insegnano, in luogo del diritto, “del diavol vizi assai”. Siamo qui nel clima infernale delle “pungenti salse” e di Venedico Caccianemico, degli ipocriti frati gaudenti Catalano de’ Malavolti e Loderingo degli Andalò, ma soprattutto di quell’ambiente universitario bolognese che aveva importato nell’Italia trecentesca la sprezzante ipocrisia degli ambienti accademici parigini, della doppia verità averroista, incarnata dalla figura del frate ipocrita Falsembiante, insomma di quel mondo intellettuale che costituiva una negazione della moralità dantesca e una banalizzazione e una mistificazione a un tempo della cortesia come della spiritualità

cristiana. Così non credo si debba insistere sulla sfumatura ironica che la frase di Loderingo testè citata conterrebbe (il cui senso sarebbe “non serve certo aver studiato a Bologna per sapere che il diavolo ha natura menzognera”), e valorizzare invece il gusto per la rievocazione degli ambienti accademici. Qualcosa di analogo era avvenuto con il diavolo maestro di logica, che trascina all’Inferno un Papa, che si credeva destinato al Paradiso, “per la contradizion che no’l consente”. Con la consueta capacità di condensazione, Dante con il verso di Inf.XXIII che abbiamo citato rovescia parodicamente il passo del Notaio, e fa un rimando a quel Roman de la Rose che rappresentava l’ideologia materialista e la banalizzazione della cortesia che sia Guillaume de Lorris che il Notaio ancora credevano di poter rappresentare e far rivivere. Insomma con questo ulteriore riscontro si consolida un paradigma nuovo per la nostra indagine, che avevamo anticipato più su a proposito del v.1665, quello che porta a riconoscere i passi in cui Dante rovescia l’analogia sviluppata dalla Scuola Siciliana, tra Eden cortese e paradiso cristiano, insieme trasfigurati in immagini di sogno, tramutandoli in angosciose visioni infernali.

Si che par l’oeil au cuer m’entra RR, 1740109

Si noti come l’emistichio conclusivo corrisponda in modo letterale, con un’analogia dunque non solo fonetica ma anche di significato, all’attacco della sestina arnaldiana “lo ferm voler”, in cui “intra”, va ricordato, è anche una delle parola-rima ossessivamente ripetute. Anche qui, come abbiamo fatto più su per gli analoghi riscontri tra la poesia di Giacomo da Lentini e il Roman, possiamo ipotizzare che la semplice analogia abbia sollecitato la memoria poetica dantesca per cui potremmo aspettarci che, come è avvenuto per il Notaio, vi sia, in un breve giro di versi della Commedia, una citazione congiunta del Roman e del poeta chiamato in causa dal De Lorris. Se leggiamo i versi seguenti sembra che anche l’analogia con i versi di Arnaut abbia spinto alla doppia citazione nella Commedia.

Leggiamo intanto il seguente verso del Roman

“Une eure pleure et autre chante” (RR, 2186)

109 Amante sta descrivendo la dinamica dell’innamoramento che procede dallo sguardo (personificato in

Doux Regard). A una prima freccia che si conficca nel cuore (tuttavia senza farlo sanguinare), cioè Beltà, seguono le altre qualità meno sensibili come Semplicità, Franchezza, Cortesia ecc. Un possibile riferimento, che qui ci limitiamo ad accennare, va a “voi che per li occhi mi passaste il core” di Guido Cavalcanti.

Confrontiamolo ora con il passo della Commedia in cui Dante fa parlare in provenzale l’anima di Arnaut :

« Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan » (Purg.XXVI, 142)

Il procedimento questa volta è diverso rispetto al riferimento a Giacomo da Lentini. Nel passo infernale vi era un richiamo testuale, sottile e ironico al punto da essere difficilmente apprezzabile da un lettore moderno, che rovesciava il significato della citazione decontestualizzandola (da una trasognata atmosfera dell’eden cortese al realismo infernale). Qui invece il riferimento al Roman è esplicito, ma non è né una citazione, né una parodia. Appare però suggestivo che quello che per Dante fu il miglior fabbro del parlar materno, qui si esprima con le parole dell’amante cortese di Guillaume de Lorris. E si noti anche come il passo da cui attinge sia vicinissimo, in rapporto alla vastità dell’intero Roman, a quello che potrebbe aver sollecitato il riferimento al passo di Giacomo da Lentini nel XXVI dell’Inferno. Ora resta da chiedersi se il fatto che Dante faccia parlare Arnaut con le parole di Amante, nel ricordo di questi versi del Roman, sollecitato anche dalla vicinanza della citazione analoga del Da Lentini, costituisca una ripresa superficiale, quasi inconsapevole, oppure egli abbia voluto proprio mettere in bocca ad Arnaut le parole dell’Amante del primo Roman. In questa seconda ipotesi sarebbe importante capire quale significato assume tale scelta, visto che abbiamo escluso il rovesciamento parodico che i versi del Notaio subiscono nell’Inferno. Si noti infine come il verso pronunciato dal “lussurioso” Arnaut sia molto simile a quello pronunciato da Francesca (“dirò come colui che piange e dice”). Sui legami tra il canto V dell’Inferno e il canto XXVI del Purgatorio, già notati da altri, si tornerà comunque più avanti.

Un altro verso, tra quelli che Dante fa pronunciare ad Arnaut, chiama in causa il Roman

de la Rose, anche se la sollecitazione all’indagine viene dalla triangolazione del Fiore.

Come è noto, nei versi incipitari del poemetto toscano, Amante recita

Perch’i guardava il fior che m’abellìa Fiore, I,2

Ci si è chiesti se questo “m’abbellìa” non sia un’anticipazione del “tan m’abellis” che Dante attribuisce ad Arnaut.

Non va taciuto peraltro come i riscontri per le parole di Arnaldo nella Commedia non siano soltanto con il Roman, che anzi costituisce solo uno dei possibili tasselli che servono a ricomporre il quadro della memoria dantesca, per cui sarebbe più opportuno pensare piuttosto a una molteplicità di stimoli. Le parole di Arnaldo sono le stesse del’incipit di una canzone di Folchetto di Marsiglia, citato, come Arnaut, nel De

Vulgari Eloquentia proprio per questo canzone110. E non va poi trascurata la memoria musicale delle canzoni di Berenguer de Palou111: Tan m’abellis santus cortes human e Tan't m'abelis jois et amors e chants che riportiamo:

Tant m'abelis joys, et amors e chans,

Et alegrier, deport e cortezia, Que'l mon non a ricor ni manentia

Don mielhs d'aisso.m tengures per benanans; Doncs, sai hieu ben que midons ten las claus De totz los bens qu'ieu aten ni esper,

E ren d'aisso sens lieys non puesc aver.

Quest’ultima presenta più echi con i primi sonetti del Fiore: oltre alla coppia già citata m’abelis/ m’abbellìa, vi si aggiunge cortezia/cortesia del verso successivo, e il tema della chiave con cui si esprime la signoria (di Midons nella canzone provenzale, di Amore nel Fiore): midons ten la claus/ con una chiave d’or mi fermò il core (Fiore, IV, 1). Il riferimento a Berenguer dunque offre più suggestioni testuali che guardano al Fiore, ma difficili da interpretare in assenza di un quadro interpretativo più ampio (e stante l’incertezza attributiva del poemetto toscano). Interessante è invece la confluenza di Folchetto con il primo Roman, da cui aveva ampiamente attinto Giacomo da Lentini, citato poco più su. E questo suffraga l’impressione che abbiamo più su esposto, che cioè la memoria di Dante non sia sollecitata in modo lineare, ma si eserciti entro linee di

110 Si ricorderà che la canzone di Folchetto viene citata, per la complessità ardita della costruzione

sintattica, come esempio dello stile definito sapidus et venustus etiam et excelsus (De Vulg. II VI, 6)

111 Così recita la sua vida: Berenguer de Palou fou de Catalunya, del comtat del Rosselló. Pobre cavaller

fou, però destre, instruït i bo amb les armes. I trobà bé cançons, i cantava d'Ermesén d'Avinyó, muller