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Lettura comparata Rose-Commedia

INDICE NARRATIVO-TEMATICO DEL ROMAN DE LA ROSE

K. Natura entra nella battaglia 15861-16292 L Discorso di Genius a Natura 16293-1

74 POZZATO, 1989 75 GILSON, 1987: p

2.11 I comandamenti di Amore

I versi che vanno dal 2.349 al 2.762 ci consentono di fare dei riferimenti meno puntuali e analitici, così da allargare l’orizzonte prospettico della ricerca intertestuale ad un gruppo di elementi caratterizzati da continuità tematica. Con questo non si vogliono certo sconfessare le ipotesi fin qui avanzate. Il fatto che le parentele o le assonanze che abbiamo fin qui rimarcato appaiano spesso slegate rispetto ad una ipotetica continuità nello sviluppo dei legami della Commedia con la Rose, non le rende perciò stesso poco credibili. Se infatti sono notevoli i punti di contatto tra i due primi grandi poemi in lingua volgare, e in primo luogo proprio la vastità enciclopedica del Roman che sola

precede la vastità dell’epos cristiano della Commedia, va anche ricordata l’assoluta eterogeneità strutturale e narrativa tra di essi. Basti pensare all’assenza nel Roman di una figura di auctor/agens paragonabile a quella creata dal nostro maggior poeta. Anzichè essere il “canto del cigno” del mondo cortese penso che si possa avanzare l’ipotesi, almeno per la parte del De Meun, ma secondo alcuni anche e soprattutto per il primo Roman, che la Rose ne costituisca la metodica revisione critica in una prospettiva ormai radicalmente mutata. L’oggettività e la purezza in cui sembrava cristallizzarsi l’universo cortese (e in cui di fatto credettero di fissarlo da noi i Siciliani), è già messa in crisi nelle allegorie del De Lorris, dove lo spazio del giardino appare sempre più claustrofobico e assediato dai valori del nuovo mondo, o antimondo, borghese che premeva sulle mura anguste del castello d’amore. Tale prospettiva razionalista a ben guardare scompagina già la fissità del simbolismo cortese proprio nel De Lorris. Si veda come tutto questo lessico codificato venga sistematicamente svuotato della sua pregnanza simbolica attraverso il metodico ricorso alle figure dell’equivocatio e della variazione del medesimo concetto su coppie di lemmi in rima o legati da giochi etimologici. La parola viene desacralizzata e ridotta a occasione di complessi giochi razionalistici. Su tutto domina il numero due, la vicinanza dei lemmi variati che stringono come in una morsa ogni pretesa residua di simbolismo. Già il De lorris dunque, più che il canto del cigno, avvia la sistematica destrutturazione dell’universo cortese, compiuta agendo in primo luogo sulla parola e l’immagine poetica, dispiegando un universo racchiuso in simboli cristallini e immutabili, in precedenza consegnati all’immaginario di una collettività proiettata in una dimensione astorica, sensibile solo alla sottili variazioni della “mouvance” dei cantori; trasformandolo poi in materia di romanzo enciclopedico, che pretende di fornire nuove chiavi per la comprensione del reale e della vita, ormai assunta come manifestazione delle leggi di una natura governata materialisticamente da leggi biologiche e da rapporti di forza. È già dunque nel DNA poetico della prima Rose, nella cifra stilistica dell’equivocatio, che verrà ripresa nel

Detto d’amore, o comunque del gioco stilistico basato su coppie di parole in rima o in

complicati giochi di assonanza o rimandi etimologici, quando non di semplice variatio, insomma nella forma che gioca sull’apparenza razionalistica del numero due, che comprendiamo appieno la portata dell’operazione culturale in cui si misurano gli autori della Rose. Ed è proprio su questo piano, di struttura profonda, che si gioca la sfida di Dante a tale operazione. Dante accoglie dapprima tale provocazione, forse vi aderisce,

sotto l’influenza di un’adesione giovanile all’averroismo e di un entusiasmo per le novità d’oltralpe, condivisi con il Cavalcanti; ma poi rovescia il proprio atteggiamento nei suoi confronti fino a considerarla il termine di una sfida. Ecco dunque che nell’intima struttura poetica della Commedia il dato imprescindibile è la terzina, il recupero di una struttura metrica che risaliva al polemico sirventese (o forse alla sirma del sonetto), ma che il nostro autore usa per proiettare questo nuovo universo borghese, che cercava cittadinanza nei limiti angusti fino a quel momento della poesia volgare e nato dalla destrutturazione razionalista di quello cortese feudale, nei termini di una inaudita verticalità e di un epos che trova precedenti non tanto nei romanzi di un Chretien de Troyes, quanto nell’epica antica, recuperata nei termini di un umanesimo cristiano117.

E dunque per questo possiamo comprendere come la natura del nostro lavoro non possa rispondere alla pretesa di una sistematicità nei riferimenti intertestuali, e ancor meno di una continuità tematica, perchè l’opera di Dante è anzi intesa a cancellare ogni traccia di una qualche dipendenza dal termine della propria polemica, svolta quasi all’interno di un conflitto interiore e di una rimeditazione personale o che al più poteva alludere a polemiche culturali e letterarie di cui oggi è possibile solo intuire la portata. La presenza della Rose nella Commedia, secondo la nostra interpretazione, non si può cogliere all’interno di un raffronto di tipo analogico, tanto meno se relativo ad aspetti macrostrutturali e tematici di ampio respiro. Anzi si potrebbe azzardare l’ipotesi che Dante compia un’opera di mascheramento, se non consapevole, almeno legato alla natura di “ipotesto” o “antitesto” che la Rose riveste nella sua opera. I rimandi vanno dunque interpretati alla luce, come abbiamo anche più su affermato, di un paradigma di tipo indiziario, che tenga conto dei peculiari caratteri della memoria dantesca, degli influssi che sulla sua vena creativa esercita l’arte della memoria, il suo suggerire immagini mentali poi rielaborate in modo plasticamente potente dalla creatività linguistica e stilistica del poeta fiorentino. E soprattutto bisogna ritenere che Dante sia stato profondamente influenzato dalla lezione arnaldiana, del suo rimeditare ossessivo la parola poetica, dell’arte del difficile che si fa strumento alchemico di una memoria suggestionata e sollecitata dai sentimenti violenti suscitati dalla pena dell’esilio e dal

117 Ma l’inquietudine e il tematismo lirico spesso “difficile” che si cela nell’apparente semplicità della

terzina dantesca non possono essere compresi se insieme al modello del sirventese e del sonetto non si prenda anche in considerazione il magistero poetico arnaldiano, e in particolare la sua sestina. Ma per ciò rimando ancora a FRASCA, 1992 e PERUGI (cit).

desiderio di giustizia. Le parole della Rose, ovvero il lessico cortese decontestualizzato e banalizzato in una struttura di opposizioni binarie rigidamente razionalista già in Guillaume, che si traduce poi in dettato ideologico nel De Meun, viene ripreso più volte nella Commedia di Dante, in luoghi diversi e con procedimenti a volte opposti, ma entro polarità che non casualmente ripetono un medesimo schema. Ha dunque il carattere di una eccezione l’infittirsi dei rimandi e quasi la contiguità tematica nei versi ora citati. Si tratta del resto di una parte cruciale del primo Roman, o almeno tale doveva apparire in Italia, soprattutto per lo spessore problematico che tali temi avevano assunto presso gli stilnovisti.

Nei versi citati infatti Amore, tramite il suo vassallo, istruisce l’Amante sui remedia

amoris, sul modo cioè di affrontare le pene amorose quando la soddisfazione del

desiderio sembra ancora irraggiungibile e il pensiero ossessivo dell’innamorata toglie il sonno e tormenta nel dubbio l’innamorato: il dubbio di non agire rettamente, di commettere errori, di non avere sufficiente coraggio quando incontra la donna oggetto del proprio desiderio.

Appaiono interessanti alcuni riscontri con il Dante stilnovista (o con i versi purgatoriali che a quell’esperienza poetica e biografica si rifanno esplicitamente). Subito dopo la scenetta scolastica del maestro che erudisce l’allievo, Amore “detta”, parola per parola, i suoi comandamenti.

Li dieus d’amors lors m’encharja Tot ausi com vos orroiz ja

Mot a mot ses comandaments.

R.R., 2055-57

I precetti amorosi vengono impartiti dunque ad Amante come se venissero dettati in modo che si scolpiscano nella sua mente. L’immagine rimanda direttamente a quella del “dittator” di Purgatorio XXIV

E io a lui: "I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando".

Purg. XXIV, 52-54

Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne;

Purg. XXIV, 58-60

Nel canto purgatoriale il “dettare” gioca sulla duplice valenza di “dettare” a chi scrive, e “impartire regole, leggi”, “dare comandi” (valore del termine “dictator” in latino). La stessa ambiguità si trova nei versi della Rose dove i comandamenti sono effettivamente l’espressione della signoria d’Amore, ma sono anche impartiti “mot a mot”, come nella dettatura (che era richiamata dalla scena del maestro con l’allievo). Allo stesso modo che il Dante poeta scrive seguendo i precetti ricevuti da Amore in qualità di Amante al suo servizio, così l’autore della Rose espone ai suoi lettori quanto ha udito da Amore nel sogno.

Un ulteriore parallelismo riguarda la rivendicata profondità esegetica del testo scritto dal poeta.

Qui dou songe la fin orra Je vos dis bien que il porra Des geus d’amors assez apenre, por quoi il veille tant atendre dou songe la senefiance et al vos dirai sanz grevance;

R.R., 2065-70

Se il carattere profetico e l’ispirazione scritturale della Commedia è un dato acquisito, chi vede nella Rose solo un pasticcio allegorico resta stupito da tale appello a riconoscere la “senefiance” del testo da parte del lettore, alla luce di un’esegesi che potrà disvelarsi solo alla fine del Roman. È vero che tale promessa di un disvelamento ultimo del senso “vero” della vicenda narrata non è poi stata mantenuta (almeno dal primo autore), ma resta comunque notevole una tale ambizione esegetica per un’opera che spesso si vuole affidata a un allegorismo banalmente didattico e dunque esplicito. In Dante sono numerosi i riscontri testuali che si potrebbero avanzare anche al di fuori del maggior poema, nelle opere giovanili, contigue cronologicamente al periodo in cui presumibilmente Dante potè leggere il poema transalpino. In primo luogo la Vita Nuova

rappresenta un esempio di quella tendenza all’autoesegesi (e dunque di un controllo sulla ricezione dei propri testi) che sarà una costante della produzione poetica dell’Alighieri. Le prose dell’opera giovanile valicano il collante biografico delle “razòs de trobar” dei canzonieri provenzali cui forse si ispiravano (ma nel modello del prosimetro entrava certamente anche il De Consolatione), in direzione di processi convergenti di decontestualizzazione e risemantizzazione, volti a un ripensamento di una prima produzione extravagante in funzione di un senso complessivo e di una nuova tensione morale, in cui biografia e allegoria118 finiscono per fondersi nel carattere biografico ed esemplare al tempo stesso. Proprio il primo dei componimenti, A

ciascun’alma presa e gentil core, che tratta dell’interpretazione di un sogno richiesta ad

alcuni poeti dell’epoca, mostra elementi di notevole analogia con la tematica del sogno di cui si deve ricercare la corretta interpretazione, qualcosa di analogo alla “senefiance” promessa dal De Lorris per il sogno autobiografico ed allegorico che è materia del

Roman. Anche nella Vita Nuova, peraltro, apare evidente quella drammatizzazione delle

forze interiori, non già vuote allegorie ma quasi personaggi di teatro che agiscono nell’agone interiore, che costituiscono l’elemento di continuità tra il Roman de la Rose e l’eredità mediolatina, di matrice stoica e cristiana, della psicomachia.

2.12 Ragione

Nella situazione di pena e incertezza in cui si viene a trovare l’amante, e che certo richiama da vicino la condizione di smarrimento dell’agens nei primi canti della

Commedia, ecco che interviene in soccorso la figura di una donna salvatrice. Si

potrebbe ritenere più opportuno fare ora un richiamo a Beatrice. Sennonché nella

Commedia il soccorso viene prestato in prima battuta da Virgilio, che fu mosso dalla

donna beata e bella. Il parallelismo con Virgilio regge anche perché è Virgilio, e non Beatrice, a rappresentare la ragione umana (che nel Roman è personificata appunto in

Raison). Se la situazione narrativa consente il confronto, questo poi si rivela meno

convincente se si analizza il discorso di Raison. Essa conduce un “chastiement”, un sermone morale misto di rimprovero e ammonimento, per ricordare all’amante i suoi

118 Vedi in proposito la riflessione di T.S. Eliot “A chiunque essa appare come una contaminazione di

biografia e allegoria, ma una contaminazione secondo una ricetta che è andata perduta per la mente moderna”. ELIOT, 1992 p. 861.

errori. La contrapposizione tra Raison e Amor non potrebbe essere più netta. Tutto ciò che l’amante fa o pensa sotto il dominio di Amore non può che essere “Folie” (un termine chiave, ripetuto numerose volte), rispetto alla quale a ben poco valgono i discorsi saggi e gli inviti alla responsabilità. Questo particolare della folie amorosa fornisce un’ulteriore chiave di interpretazione rispetto alla descrizione insistita, che si era notata più su, che il poeta faceva della ricchezza e sovrabbondanza della Natura. Egli infatti ritorna su questo tema proprio in relazione alla follia amorosa:

Biaus amis, folie et anfance T’ont mis en poine et en esmai. Mar veis le bel tens de mai Qui fis ton cuer trop esgaier. Mar t’alas onques ombroier Ou vergier dont Oisseuse porte La clef a quoi t’ovri la porte. Fous est qui s’acointe d’Oisseuse: s’acointance est trop perilleuse.

Il tempo di maggio rende “troppo” felici, e questo eccesso va posto in relazione proprio con le immagini di sovrabbondanza naturale. Si ripropone insomma il legame tra l’abbondanza di natura e l’eccesso amoroso, la lussuria. Questa però si deve intendere come lussuria della mente, ovvero come un atteggiamento contemplativo piuttosto che come concupiscenza carnale, una disposizione riflessiva pericolosa perché espone al rischio della follia. Per questa ragione il poeta evoca all’interno dello stesso discorso la figura di Oziosa, richiamo che contiene anche un riferimento indiretto allo specchio, rievocato anche, peraltro, dall’aggettivo “perilleuse” (“perilleus” era il miroeur in cui si guardava Narciso, “perilleuse” sarà la fontana dello stesso mito nella citazione che ne fa il De Meun).

Più che alla costruzione di una morale amorosa, assistiamo insomma a una sconsolante rivendicazione di autorità sul cuore dell’uomo, che male fa a farsi governare dalla forza così cieca di Amore. Forza che si circonda poi di figure poco raccomandabili come Danger e Malabocca. Anche le forze che scatena Raison però hanno qualcosa di minaccioso, come Honte, sua figlia. Si assiste insomma, nel discorso di Raison, a un

appalesamento e a una chiarificazione delle forze in campo, in cui si dispiega il teatro interiore, esemplificato in “tipi” che si contendono l’agone della psiche dell’innamorato, mentre ben poco spazio viene lasciato all’iniziativa dell’amante. L’unica nota realistica e che stupisce in un discorso così poco avvincente è la sollecitazione a raffrenare il proprio cuore e a tentare di liberarlo dalla signoria d’amore espressa in quel “dompte

ton cuer et reffrain” (R.R. v.3.052) che potremmo rendere con “addenta il tuo cuore e

tienilo”, che richiama il realismo dell’Inferno dantesco, di un Amante che come un dannato cerca di recuperare il dominio sulle proprie passioni, con la stessa rabbia e disperazione del conte Ugolino quando morde il capo del proprio carnefice, ma che fa pensare nello stesso tempo alla metafora del cuore mangiato119, certo giunta a Dante per altre vie (soprattutto come topos della lirica d’amore, dove evidentemente a mangiare il cuore del poeta è Amore120). È proprio il riferimento per antitesi, quello della Vita Nuova, in cui a “tenere” il cuore è Amore e ad addentarlo è Beatrice, quello che sembra

richiamare più da vicino l’immagine del cuore tenuto con i denti perche non subisca la signoria d’Amore.

Il discorso di Raison è poi in fondo così grossolano (se confrontato con la complessa architettura filosofica dei discorsi dotti del secondo Roman), anche per una ragione drammatica, per giustificare quella che sarà poi la reazione piccata dell’amante.

Ragione in Guillaume non è ancora la ragione mercantesca nè l’esposizione del

materialismo universale del De Meun; si riduce, tranne appunto per quei fortuiti accenni di realismo che abbiamo citato, a una “misura”, una generica saggezza ammantata di moralismo che serve più che altro da bersaglio polemico per il De Lorris. Va ricordata, anche nella prospettiva del diverso ruolo che Ragione assume nel secondo

Roman, la funzione di supporto (e non di contrasto) che nella Vita Nuova la ragione

offre nella sudditanza d’amore: dall’inizio in cui «non sanza lo fedele consiglio della

119 L’accostamento con l’episodio di Ugolino va letto ancora nello spirito della deformazione tragica e

grottesca al tempo stesso che abbiamo visto attuare per altri simboli (ad esempio l’albero della vita trasformato in patibolo), e secondo uno slittamento del campo semantico già visto altre volte (dalla tematica amorosa e quella politica e morale). Il Conte Ugolino infatti, in uno spazio (la torre) circolare e oppressivo come l’Haie del giardino di Deduit, addenta con tenacia il capo del proprio carnefice. Il punto di passaggio dal tema del cuore addentato con forza nella Rose al “rodere”del conte Ugolino si potrebbe riconoscere nel v.25 di “Così nel mio parlar” Rime XLVI: “sì di rodermi il core a scorza a scorza”. Altro elemento di analogia tra la vicenda cronachistica di Ugolino e la terribile signoria d’amore è dato dall’immagine della chiave: Amore “con una chiave d’or mi fermò il cuore” nel sonetto IV del Fiore, mentre il supplizio di Ugolino inizia quando udì “chiavar l’uscio di sotto”. Per il significato di “tenere a freno il cuore” vedi anche Par XXII: “fermar li piedi e tennero il cor saldo”.

120 E ovvia cade qui la citazione del “Vide cor tuum”, pronunciato nell’angoscioso discorso di Amore

Ragione» (cfr.rispettivamente VN 1, 10 e 2, 4) Amore governa il rapporto con Amante, alla fine in cui, di fronte al rischio di un traviamento dopo la morte di Beatrice (l’amore “cortese” per la donna gentile) è proprio la “costanzia della Ragione”(VN 28, 1-2) a ricondurlo all’amore ormai completamente sublimato per Beatrice.

Il discorso di Franchezza e Pietà, personificazioni giunte in soccorso dell’amante al seguito di Ragione, mostra alcuni elementi di interesse. Innanzitutto, la presenza insieme a Ragione di altre due figure femminili, unitamente alla situazione e al riferimento alla signoria d’Amore ci conducono nell’atmosfera della canzone dell’esilio, con le tre donne che si pongono intorno al cuore dell’amante. Dante fa corrispondere il tono elegiaco e sommesso delle tre personificazioni dei diversi tipi di giustizia all’argomentare risoluto e fermo di Franchezza e Pietà, che smuovono Danger con argomenti solidi e razionali. Se per Rime XLVII vale soprattutto il rapporto di opposizione, per un passo della Commedia una spia viene dalla somiglianza:

prima era scempio e ora è fatto doppio

Purg XVI , 54

Il ere avant asez troblez

Mes or est ses anuiz doblez RR, 3297-98

Si dirà che la sovrapposizione non è perfetta a livello lessicale, e non lo è del resto neanche su quello semantico: nel passo dantesco si parla di un dubbio filosofico-morale che si raddoppia nella mente dell’agens, nel passo del Roman è invece una intensificazione non della difficoltà di sciogliere un dubbio, ma della condizione di sofferenza dell’innamorato. Se però si pensa a come le questioni d’amore avessero assunto una coloritura filosofica e come la battaglia dei pensieri in cui si arrovellava l’amante già con Cavalcanti fosse anche un paradosso di tipo filosofico prima ancora che una impasse sentimentale, e si sottolinea poi come la frase contenuta nel distico sia pronunciata da Raison (che cerca di intercedere presso Danger in favore di Amante), personaggio per sua natura deputato alla riflessione filosofica, ecco che ristabiliamo la possibilità di un confronto. E non nascondo che contro ogni obiezione mi sembra più persuasiva l’immediatezza di questo giro sintattico chiuso in due versi.

Ora, secondo il modo ormai a noi consueto, cerchiamo di motivare questi legami, di dare corpo e spessore di argomentazione a queste “ombre”, analogie testuali che sollecitano la memoria del lettore dantesco ma che devono anche essere giustificate e

interpretate. Il canto XVI del Purgatorio occupa una posizione pressochè centrale nella