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Lettura comparata Rose-Commedia

INDICE NARRATIVO-TEMATICO DEL ROMAN DE LA ROSE

K. Natura entra nella battaglia 15861-16292 L Discorso di Genius a Natura 16293-1

3 La Rose di Jean de Meun

3.9 Discorso di Falsembiante

Data la complessità di questo lungo discorso ne riportiamo qui la struttura:

Falsembiante distingue la vera e la falsa religione (vv.11.010-11.190); i travestimenti e i metodi dell’ipocrita (11.191-11.272); se sia opportuno o meno che un religioso si dedichi a mendicare (vv.11.273-11.528); i fini e i mezzi di questo comportamento (vv.11.529-11.704); potenza universale dei valletti dell’Anticristo e ruolo dell’università nello smascherarli e combatterli (vv.11-705 – 12.013).

Il discorso di Falsembiante in una sessantina di manoscritti contiene al v.11.226, una interpolazione di 96 versi (risalente alla fine del Duecento e probabilmente contenuta nel o nei manoscritti della Rose consultati da Dante185).

Questa parte dell’opera è tra quelle che più significativamente si ricollega all’esperienza del Fiore, essendo il personaggio di Falsermbiante, insieme alla Vecchia, quello di maggior rilievo sul piano ideologico oltre che dotato di una straordinaria vis comica. Nel personaggio e in ciò che dice si incarna e trova un articolato svolgimento la polemica, allora attualissima, sugli Ordini Mendicanti. Il raffronto col Fiore è legittimo sul piano ideologico e degli spunti satirici, mentre a livello strutturale-narrativo nell’operetta erotico-satirica, e a maggior ragione nella Commedia, non troviamo un corrispondente di discorsi così lunghi e articolati. Seguiremo passo passo le articolazioni del ragionamento, a volte sottili a volte contradditorie con la natura stessa del personaggio e l’impianto logico dell’opera (si vedano ad esempio i casi in cui denuncia quasi con sdegno l’ipocrisia dei Mendicanti, mentre egli stesso afferma di esserne un campione).

“Barons entendez ma sentence!”

RR, 11.010

fin dall’inizio Falsembiante si rivolge all’armata di Amore con un’esclamazione che può essere anche letta come un tributo allo stile allocutivo della lirica d’amore dei Trovatori, così come sono possibili anche le sue derivazioni polemiche e politiche nel sirventese. La cosa qui interessa perché una simile matrice è stata ipotizzata anche per

185 Essa è di particolare interesse perché testimonia di un uso “politico” della Rose, che veniva ampliata e

arricchita per renderla più funzionale al dibattito morale su questioni tanto scottanti e attuali. Ciò ci conferma di come il poema doveva essere per il giovane Dante non solo il “best-seller” di un’epoca passata ma un elemento di raffronto nel dibattito culturale dell’epoca.

l’impiego della terzina come derivazione della terza rima dei sirventesi di contenuto politico, che avrebbero potuto contribuire all’ispirazione dantesca della struttura rimica della Commedia.

Voire rere au rasoir d’Ellanches Qui barat trenches en xiii branches

RR, 11.065-67

Il riferimento alle Elenches della logica aristotelica rimanda ala terminologia specifica del dibattito filosofico all’interno delle università (nella Commedia dantesca un equivalente si ha nello spazio che trovano il lessico e talora la sintassi della Scolastica in alcuni brani). Gli Elenches rinviano infatti al De sophisticis elenchis aristotelico, un libro di testo molto conosciuto dagli studenti di dialettica del tardo medioevo, che lo leggevano nella vulgata in latino di Boezio. È particolarmente interessante in questo passo, inserito in un più generale discorso sul valore dell’abito religioso, cioè dell’apparenza rispetto all’etica individuale, la citazione di una immagine molto diffusa nella retorica medioevale. Come ricorda anche lo Strubel186 il rasoio (immagine poi resa celebre dall’uso che se ne fece per riassumere la filosofia di Occam), rinvia a quel bagaglio di immagini usate nella retorica antica e poi passate in quella medioevale (ars

dictaminis) per il loro valore mnemotecnico. Appare evidente come una citazione

puntuale da parte del De Meun riveli una consapevolezza della matrice culturale anche retorica dell’allegoria medioevale. L’autore del Fiore, meno attento allo sfoggio di cultura accademica (per la quale anzi nutriva una qualche diffidenza187), dell’immagine del rasoio ritiene solo la possibilità di un suo sviluppo in senso grottesco. La “lama” da immagine mnemotecnica diventa “cosa” personificata, oggettivazione dell’animo violento e della prepotenza degli Ordini Mendicanti188, che imponendosi come elite accademica cercano così di nascondere la frode e la violenza in cui si sostanzia la loro presenza nella società e fra i ceti produttivi. Il passo ulteriore della oggettivazione del

186 STRUBEL, p.591 n.

187 Ricordiamo che il Falsembiante del Fiore proclama di “aver letto a Bologna”, dove leggere è termine

tecnico per indicare il tenere un corso universitario negli Studia dell’epoca.

188 Quasi una variazione iperbolica e satirica sul tema sviluppato dalle penne, delle cesoiuzze e, si noti

bene, del coltellin che si animano in un sonetto del Cavalcanti: “Noi siàn le triste penne isbigotite,/ le

cesoiuzze e 'l coltellin dolente,/ ch'avemo scritte dolorosamente/ quelle parole che vo' avete udite.” son.

XVIII, vv 1-4 da Guido Cavalcanti, Rime, "Poeti del Duecento", vol. IIa cura di Gianfranco Contini Milano, Napoli, 1960 (che rimanda con poche variazioni all’ edizione critica delle "Rime" di Guido Cavalcanti curata da Guido Favati).

malcostume e della rapina travestita da puntiglio filosofico sarà nella toponomastica morale e satirica allo stesso tempo nel nome del paese di Tagliagola.

Di particolare interesse sono le citazioni nella Rose dei proverbi di re Salomone. Per un momento è opportuno tralasciare il contesto e ricostruire il peso di questa particolare “auctoritas” nella formazione di Dante e del De Meun. Le citazioni dantesche più notevoli del re biblico e dei suoi “Proverbi” sono nel Convivio189, in particolare nel quarto trattato, dove la sua figura e il suo pensiero costituiscono materia fondamentale per la teoria dantesca della monarchia e della funzione provvidenziale dell’Impero Romano. Ciò consente di capire il posto che occupa nel X e XII canto del Paradiso190 , dove viene rappresentato come sovrano ideale, perché modello di saggezza e giustizia. In particolare è interessante la sua collocazione tra le anime che fanno da corona a Tommaso d’Aquino, fra le quali, ricordiamo, figura di particolare interesse per noi è Sigieri di Brabante. È proprio quel Sigieri, compagno di sventure di Boezio di Dacia nella storia della persecuzione antiaverroista, e citato con onore tanto dal De Meun che da Dante (e a stupire è proprio l’omaggio del poeta fiorentino), che per così dire ci mette la pulce nell’orecchio e ci porta ad approfondire l’indagine nel senso di una convergenza di matrici culturali tra i due maggiori poemi allegorici dell’era volgare, che potrebbe non essere del tutto casuale.

Il discorso di Falsembiante entra ora nel vivo della questione che segna la maggiore convergenza tra il Fiore e la Rose. Lasciata da parte per una volta la complicata macchina guerresco-simbolica, entrambi gli autori sembrano “svelarsi” entrando direttamente nel vivo della polemica. Il “proteiforme” autore della Rose, che ama celarsi in ciascuno dei personaggi allegorici, quasi a suggerire che il vero protagonista è l’indifferente Natura con le sue leggi materiali, e la cui ideologia è difficilmente inquadrabile; il beffardo Durante, che si nasconde in un atteggiamento di distacco emotivo rispetto ai fatti narrati che sfiora il cinismo compiaciuto, entrambi finiscono per far cadere la maschera che cela la loro ideologia nel nome di una presunta oggettività del “miroeur aux amoreus”, per prender parte in quella che era una questione ancora

189 Cv (II, v, 5; II, x, 10; II, xiv, 20; III, xi, 12; III, xiv, 7; III, xv, 16 e 18) e citazioni ancora più ampie

nell’intero quarto trattato.

scottante all’epoca, la polemica sorta nelle università contro l’ingresso degli ordini mendicanti. Per un accurato resoconto della questione rimandiamo a quanto scrive Contini nella voce “Fiore” dell’enciclopedia dantesca.191 Aggiungiamo che anche a voler lasciare impredicata la questione dell’ attribuzione dantesca del Fiore, resta la certezza di un fatto storico oggettivo e che difficilmente può essere messo in dubbio: sia la corona di sonetti che la più impegnativa summa allegorica d’oltralpe assumono la forma di un pamphlet legato drammaticamente all’attualità. Prova ne siano i voluti riferimenti alla cronaca e alla storia locale nel Fiore (dove si ricorda la morte ad Orvieto di Sigieri) e la notevole interpolazione della Rose, che suggerisce un uso “politico” dell’opera, anche al di là della volontà stessa dell’autore. Certamente il Dante delle

Commedia, così attento al controllo della ricezione della propria opera (non solo per

evitare strumentalizzazioni, ma anche in considerazione dei rischi che sul piano personale poteva comportare il prendere troppo chiaramente parte per i perseguitati), non poteva esibire una simile libertà. Tanto più se si considera che nemmeno il De Meun potè esprimere compiutamente le proprie opinioni, costringendosi ad una specie di schizofrenia tra il compiacimento di Falsembiante nello svelare tutti gli artifici della frode fratesca e gli ugualmente artificiosi distinguo dell’autore nel sottolineare che comunque non tutti gli appartenenti agli ordini mendicanti sono violenti e rapaci come Falsembiante, che invece sarebbe il campione di una sottocategoria, quella dei frati ipocriti. È necessario tornare ora al Dante che nell’economia di questo lavoro interessa di più, quello della Commedia. Prescindendo dal confronto col Fiore e dal doppio riscontro (d’altronde ovvio, trattandosi di un volgarizzamento) che questo vanta, dal momento che riprende dalla Rose sia la vicenda di Guglielmo di Sant’Amore che quella ancor più tragica di Sigieri, nella Commedia possiamo aggiungere a quanto già tradizionalmente si nota sulla scorta di Contini e Vanossi (e cioè la presenza, piuttosto inaspettata di Sigieri nel Paradiso a far da corona a Tommaso), il fatto che in quella

191 Ne riportiamo qui, per comodità del lettore, gli stralci più significativi: “La Rose riflette la lotta fra

clero secolare da un lato, domenicani e francescani dall'altro, e prende partito per il pensiero relativamente libero e laico del primo, sconfitto nella persona del suo capo, Guglielmo di Saint-Amour (deposto nel 1256, morto nel 1277). Anche il Fiore ricorda due volte (XCII, CXIX) l'esilio a cui fu condannato Mastro Guiglielmo, il buon di Sant'Amore, e del quale si vanta il simbolo dei frati ipocriti, Falsembiante (Faus-Semblant). Ma nel Fiore c'è di più. Nel sonetto XCII si menziona, prima ancora di Guglielmo, Sigieri di Brabante, di cui qui si rammenta (ed è la prima attestazione nota, cui più tardi se ne poté aggiungere una seconda) la morte violenta in Italia (alla o presso la corte del papa francese Martino IV, che a Orvieto fu incoronato e dove risiedette): Mastro Sighier non andò guari lieto: / a ghiado il fe'

morire a gran dolore [parla sempre Falsembiante] / nella corte di Roma, ad Orbivieto (vv. 9-11)”.

stessa corona figura Re Salomone. Ma, si dirà, la presenza di Salomone stupisce assai meno, visto che non solo lo stesso Dante nei già citati passi del Convivio, ma anche una tradizione consolidata e un’abitudine diffusa nei commentatori medioevali, lo poneva come auctoritas indiscussa e modello di saggezza. A questa obiezione vorremmo rispondere con il dato testuale, che a nostro parere dovrebbe sollecitare ad un’indagine più accurata del rapporto tra l’esaltazione di Sigieri e Salomone nei canti del Paradiso e il passo forse più scottante e pericoloso del discorso-pamphlet di Falsembiante (o meglio dell’autore della Rose dietro la maschera di comodo del frate domenicano). Infatti, come abbiamo visto, se nella Commedia non compare l’accoppiata Guglielmo di Sant’amore - Sigieri di Brabante (come nella Rose e nel passo gemello del Fiore), comunque Sigieri non è solo nel richiamare la Rose, ma è affiancato, nella medesima corona di sapienti che circonda Tommaso, da quel Re Salomone, citato come auctoritas sia da Dante che dal De Meun. Uno scettico potrebbe continuare a dire che tale presenza è infinitamente meno significativa, o forse nulla, quanto a portata polemica e ideologica, di quella di un Sigieri o di un Guglielmo di Sant’Amore. Pensiamo solo al fatto che la presenza di Sigieri nel Paradiso ha creato non pochi problemi alla critica dantesca di sempre, spingendo uno studioso di filosofia medioevale e dantista come Nardi a chiarire una volta per tutte i rapporti di Dante con l’aristotelismo radicale, mentre quella di Salomone può spingere ad un interessante approfondimento, ma certo non ha la stessa portata polemica nel dibattito tra gli studiosi. È su questo punto però che il paradigma “iconologico” d’indagine che abbiamo deciso di adottare può tornarci utile. Ipotizziamo insomma che la convergenza tra i due poemi sia dimostrata più che da quanto entrambi dicono su Salomone (o citano da lui) dall’evocazione della sua immagine e da ciò che essa comporta nell’opera. Su questo piano innanzitutto va ricordato che la figura di Salomone nella cultura medioevale, oltre che alla saggezza da buon regnante che traspare nel libro dei Proverbi, viene associata a culti esoterici e ad un culto misterico e simbolico che confluisce nella dottrina dei templari (il cui nome deriva appunto dal tempio di Re Salomone192). In tema d’immagini, è fortemente evocativa quella delle sessanta regine e dell’unica colomba, che costituisce un modo originale di rappresentare la gerarchia tra le scienze (al vertice della quale si trova,

192 Non vogliamo addentrarci qui in questioni piuttosto spinose e di difficile soluzione; mi limito a dire

che sono state avanzate ipotesi affascinanti sul rapporto tra Dante e i Templari (come quella del resto del rapporto con il catarismo) ma ben lungi dall’essere esaustive. Ricordiamo comunque Robert L.John:

ovviamente, madonna Teologia). Il tempio di Salomone, poi, conduce a riprendere in considerazione il tema dell’albero della vita a cui si allacciano simbolicamente le due colonne spezzate, Jachin e Boaz, che Salomone pose al suo ingresso.

Ou s’il ne fait venir en haste

Chevriaus, connins lardez en paste, ou de porc au mains une longe: il aura de corde une longe de coi l’en le mainra bruller, si que l’en l’orra bien uller d’une grant liue tout entour!

R.R., 11.753-59

Questa immagine della corda, prima evocata nell’epiteto usato per i francescani- cordeliers opposti ai domenicani-jacobins (vedi i vv.11.202-04), e ora usata per impiccare coloro che si oppongono al dominio della Frode e all’autorità “morale” dei frati ipocriti, sollecita almeno due ricordi della Commedia. La prima è la corda che Virgilio lascia cadere e che sarà il richiamo per la bestia alata, Gerione, su cui ci eravamo già lungamente fermati per come richiamava, a livello iconologico Covoitise e a livello culturale e ideologico Falsembiante:

Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta. Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta, sì come ’l duca m’avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta. Ond’ei si volse inver’ lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quell’alto burrato.

Inf.XVII, vv.106-114

Si ricorderà che la singolare interpretazione di questa corda come trasfigurazione letteraria dell’adesione di Dante all’Ordine Francescano, sviluppata ingegnosamente dal