Lettura comparata Rose-Commedia
INDICE NARRATIVO-TEMATICO DEL ROMAN DE LA ROSE
K. Natura entra nella battaglia 15861-16292 L Discorso di Genius a Natura 16293-1
3 La Rose di Jean de Meun
3.3 La virga di Jesse come simbolo antiereticale
Si potrà obiettare che da S.Agostino fino a Dante e Giotto fosse passato molto tempo e che ormai la Chiesa non fosse più impegnata e spiritualmente coinvolta nella sistemazione dottrinale e e produzione apologetica contro le tentazioni dualiste. Non si deve infatti pensare a un rapporto di continuità, quanto piuttosto a una riattualizzazione di quei temi e simboli sotto la minaccia portata dall’eresia catara e della sua “anti- Chiesa”. In questo senso va interpretato il rifiorire dell’imagine dell’albero di Jesse (come affermazione della genealogia di Cristo e dunque della sua esistenza anche come corpo oltre che come spirito). Nell’ansia di combattere i catari e la loro provocazione pauperista gli ordini monastici, e in particolare i francescani, si impegnarono ancor di
137 Sul significato della prospettiva nel Medioevo vedi il fondamentale saggio di PANOFSKI, 1927. 138 E uno scienziato che si rivolgeva soprattutto a teologi era quel Ruggero Bacone, divenuto francescano
nel 1257, che intuì l’importanza di immagini realistiche e prospetticamente organizzate per la diffusione del Verbo.
139 Questo teologo , ideatore del programma degli affreschi, aveva letto la Legenda aurea di Jacopo da
Varazze e i due trattati devozionali del francescano Ubertino da Casale (Meditationes vitae Christi e
più nel rinnovamento spirituale della Chiesa cattolica e nella predicazione. Qui dunque, in questo processo di osmosi e concorrenza, tra spiritualità catara e omiletica francescana, si possono trovare le premesse del complesso rapporto di Dante con tali movimenti ereticali legati alla tradizione cortese. Non possiamo dimenticare che il giovane Dante fu profondamente influenzato, ancora in Firenze, e prima di entrare in contatto con la metropolita cultura universitaria bolognese (ponte, insieme agli stilnovisti, con l’averroismo parigino), da quelle che definì “le scuole de li religiosi e le
dispute de li filosofanti” (Cv II xii 7). Tra i protagonisti del francescanesimo fiorentino vi era il provenzale Peire Olieu, poi conosciuto con il nome italianizzato di Pietro di Giovanni Olivi140, che certo doveva conoscere bene le esigenze di rinnovamento spirituale che la spiritualità catara, veicolata, almeno in parte, dal sistema di valori della fin’amor, poneva come irrinunciabili alla Chiesa di allora.
In relazione al catarismo in Italia, mette conto di ricordare come questo tema ci riporti a considerare nuovamente l’apporto dei trovatori provenzali alla cultura italiana. Non voglio riproporre l’idea che stabilisce un’equazione, davvero troppo semplicistica, tra poesia cortese e catarismo.141 Vorrei invece ricordare i casi di alcuni trovatori di particolare importanza in relazione a Dante e dei quali avevo già parlato nella mia prima tesi di laurea142, a proposito dei rapporti tra Dante e la poesia provenzale (quindi tra coloro che si possono definire “i trovatori di di Dante”). Si consideri ad esempio Aimeric de Peguilhan, il trovatore giunto in Lombardia dopo aver assistito in prima persona alla catastrofe della repressione antialbigese, che avrebbe portato alla distruzione della civiltà cortese in quelle terre. Lo si incontra già ad una prima disamina dei rapporti di Dante con la poesia cortese e certo non si può dimenticare che Dante gli riservò un posto tra i maestri dello stile tragico nel De Vulgari Eloquentia. La sua vida recita testualmente:
140 Per una conoscenza generale del ruolo dell’Olivi nella formazione del giovane Dante, negli anni della
Vita Nuova e delle frequentazioni del convento di S.Croce, rimando alla ricca, anche se datata, nota
bibliografica in BRANCA, 1966 : p.125 n.
141 Tale derivazione della poesia cortese dalla religiosità catara venne sostenuta in particolare da Denis de
Rougemont in un capitolo del suo saggio più noto. Vedi Denis de Rougemont “L’amor cortese: trovatori
e catari” in DE ROUGEMONT, 1989 p.118-149.
“Et estet en aquelas encontradas lonc temps; puois s’en venc en Lombardia, on tug li bon home li feron gran honor : e lai definet, segon c'om ditz.”143
Boni Homines era, secondo un uso corrente all’epoca, il nome che veniva dato ai Catari
e che essi stessi si attribuivano144 (cioè i “puri”, e quindi buoni cristiani per antonomasia). Non tutti concordano con l’interpretazione in questo senso dell’espressione contenuta nella vida, ma va ricordato che proprio nell’Italia settentrionale erano i principali centri del catarismo italiano. D’altra parte, se avessimo ancora dubbi sull’intepretazione del passo più su riportato, ecco il manoscritto E chiudere in modo inequivocabile quello stesso passo:
" en Lombardia definèt en eretgia, segon c’òm ditz "
Dunque giunto in Italia settentrionale Aimeric avrebbe trovato l’appoggio dei Catari italiani, che trovarono in lui un adepto. È noto che il catarismo si diffuse in Italia attraverso le stesse vie con cui i trovatori provenzali scendevano nel nostro paese in direzione delle più ospitali corti del nostro Settentrione. Non dobbiamo pensare che in Italia la repressione della principale eresia medioevale fosse meno accanita che in Francia. Ancora doveva nascere però l’inquisizione domenicana, che solo dal 1233 col beneplacito del Papa, non soddisfatto della troppo “comprensiva” inquisizione episcopale, avrebbe affilato le armi che l’avrebbero trasformata in un implacabile istituto poliziesco. Ed è un fatto che in Italia non esisteva un potere statale forte che potesse organizzare una vera e propria crociata al servizio della Chiesa (nonchè di non confessati, ma drammaticamente evidenti, interessi espansionistici della corona di Francia verso la terra di Provenza). Questo lo si poteva trovare solo al Sud, presso Federico II (e al Sud i Catari non ebbero mai una una diffusione paragonabile a quella del Nord e dell’Emilia), che contro i Catari emanò diversi decreti. Ciò non impedì peraltro al nostro Aimeric di manifestargli una ammirazione che troverà il suo momento più alto nel 1220, proprio nell’anno di uno dei più importanti editti contro i catari di Federico. Questi elogi suonano contraddittori con l’adesione al catarismo del poeta che
143(Man. ABIKEPR, Ed. Camille Chabanneau, in: Dom Devic & Dom Vaissette Hist Gén Languedoc, X, 1885, p 282-283-amb)
ci viene testimoniata dalla sua vida145. Citare Federico II però complica parecchio le cose. Intanto se è vero che Federico II emanò a più riprese decreti anti-catari, è anche vero che storicamente il 1250, anno della morte di Federico, segna lo spartiacque tra una politica antiereticale particolarmente prudente in Italia da parte della Chiesa e una azione più decisa di repressione, segno che se Federico non ne fu un protettore, almeno non doveva costituire lo strumento temporale al servizio della chiesa nella lotta contro gli eretici. È poi un fatto che in Italia i Catari si erano legati al ghibellinismo e anche dove non trovavano l’appoggio di un nobile ghibellino era la gelosia della propria indipendenza dei comuni italiani a costituire un baluardo difensivo contro l’Inquisizione146. La morte di Federico II nel 1250 e di Ezzelino da Romano nel 1260, segnando la fine di una politica forte dei ghibellini, e aprendo le porte a quella guelfa angioina, avranno come risultato un isolamento sempre maggiore dei catari nel nostro paese e segneranno l’inizio della loro fine nel volgere di pochi anni147.
Le prove che andiamo raccogliendo sembrano indicare una direzione ben precisa per il rapporto dei trovatori con l’ambito teologico, facendo quasi identificare i valori della Cortesia con la spiritualità catara. In questo senso spinge anche la circostanza storica della contemporaneità della crociata contro gli Albigesi e la discesa dei trovatori provenzali in Italia settentrionale. Le cose non sono però così semplici e per comprenderlo basti ricordare quanto scrive il Pulega sulla corrispondenza tra cortesia e modello trinitario ispirato dal neoplatonismo di un Bonventura. È vero d’altronde che il Pulega sostiene questa tesi in riferimento alle teorie di un Andrea Cappellano148 che cronologicamente si colloca intorno alla metà del XII sec.
Non va dimenticato poi che, se la cortesia si presenta come un sistema di valori omogeneo, la diversa estrazione sociologica dei trovatori provenzali, fin dalle origini di tale poesia, li conduce a rapportarsi a tale sistema di valori in modo talora diametralmente opposto. Mi riferisco ovviamente alla contrapposizione tra la linea alto- cortese e basso-cortese149, dove la seconda costituisce per così dire il messaggio
145 Ma allora devono suonare ancora più contraddittori i versi di elogio di Federico scritti da un trovatore
sicuramente cataro, il tolosano Guglielmo Figueira, noto anche per il suo sirventese contro la Chiesa di Roma.
146 Vedi ancora Manna cit.
147 Per una storia della diffusione del catarismo in Italia in quegli anni, si veda ZAMBON, 1995 e
SAVINI, 1958.
148 Sull’amore “procedens ex visione”, dove la visio è visione dell’imago dei, cioè della donna come
reminiscenza platonica. Secondo Pulega insomma il Cappellano postula un legame ontologico tra mondo reale ed entità spirituali, che porta ben lontano dalle tesi dualiste dei Catari.
originario, la forma ortodossa della cortesia, espressione della bassa feudalità emarginata degli Iuvenes, esclusi da ogni realizzazione in senso sociale, che si inventano il concetto di una nobiltà d’animo contrapposta alla nobiltà di sangue e del possesso terriero, mentre la seconda costituisce un tentativo di risemantizzazione del patrimonio simbolico e topico della cortesia nella chiave di una retorica del potere e di parodia150 da parte di trovatori di estrazione aristocratica.
Secondo l’analisi di Milone è proprio nella simbologia del Fiore (o meglio della flor
enversa, il giglio) che si realizza l’eversiva parodia di un Raimbaut d’Aurenga. Il fiore
dunque è visto come una orgogliosa rivendicazione della virilità (corrispondente alla retorica del possesso e del potere), contrapposto all’ideologia castrante della cortesia degli emarginati Iuvenes (che vedevano l’amore solo in chiave di lontananza e di rinuncia). Se Milone stabilisce un legame tra interpretazione sociologica kohleriana e una lettura psicanalitica della topica cortese, noi vorremmo spingerci oltre e tentare una lettura in chiave parodica anti-catara di una nota poesia di non facile interpretazione di un altro degli esponenti della linea alto-cortese (nonché primo tra i trovatori). Mi riferisco alla cosiddetta poesia del gatto rosso (Farai un vers, pos mi sonelh) di Guglielmo IX.
È noto che Guglielmo è nello stesso tempo il primo trovatore di cui si abbia notizia e anche il primo ad usare un registro parodico nel trattare i temi della cortesia. La rivendicazione orgogliosa del possesso si può riconoscere ad esempio con il riferimento alla “pessa e’l coutel”, dove il riferimento materiale ha il significato di ricondurre l’amore alla sua primaria pulsione carnale, al concreto possesso della donna amata (cui corrisponde in termini ideologici la legittimazione del potere riconosciuta nel possesso terriero e non nella purezza dell’animo). Tale rivendicazione orgogliosa della materialità carnale non può che essere letta come in palese contrapposizione con la spiritualità dualista catara (anche con il dualismo “attenuato” professato da alcune sette catare). A me pare che uno dei livelli di lettura parodica del gatto rosso possa consentire proprio un’interpretazione in chiave direttamente anti-catara. È noto che da quando fu usata la prima volta l’espressione “cataro” da Ecberto di Schonau151 per definire l’eresia di origine bogomilica (nata nell’antica Mesia, oggi Ungheria, e da lì diffusa in Francia e in particolare Occitania), circolavano due etimologie. Una, quella più dotta dello stesso Ecberto, collegava il nome al processo di catarsi e dunque equivaleva a “puri”. Si tratta,
150 Così si esprime MILONE, 1982, a proposito di Ar resplan la flor enversa di Raimbaut d’Aurenga. 151 Ekberto di Schonau Tresdecim sermones contra Catharos (1163) : catharos, id est puros.
peraltro, di una terminologia che riprende quella usata da Papa Innocenzo I all’epoca del I concilio di Nicea ( per definire gli eretici Novaziani del III sec.152 Una definizione dunque “neutra”, grosso modo corrispondente al nome latino con cui gli stessi catari si definivano (Boni homines o Boni christiani); la seconda, più popolare e spregiativa, si deve ad Alano di Lilla (che scrisse un saggio contro i Catari), che diceva che il nome di cataro derivasse dal latino “catus”, perché nei loro rituali i Catari usavano baciare il sedere di un gatto153. Indipendentemente dalla veridicità di quanto afferma Alano di Lilla, è ben possibile che tale irridente definizione dei catari come “gatti” (animale che aveva una certa tradizione folkloristica passata anche nella letteratura, pensiamo in Italia al Detto del gatto lupesco) circolasse in Provenza e ad essa alludesse lo stesso Guglielmo. Lo capiamo meglio se ripensiamo alla situazione evocata dalla poesia di Guglielmo: un poeta cortese vuole possedere carnalmente due signore e per farlo ricorre all’inganno di fingersi muto.154 Le due donne (Agnese ed Ermesenda, proprio come due parenti di Guglielmo, entrambe devote di S. Pier Damiani) decidono però di sottoporre a prova la purezza del suo amore e per questo lo sottopongono alla prova del gatto rosso. L’espendiente delle due donne ridicolizza dunque la purezza della fede catara che al tempo di Guglielmo forse corrispondeva al sistema di valori cortese. Non è casuale, credo, neanche il colore del gatto: il rosso è il colore della passione di Cristo (per lo stesso valore simbolico di questo colore ad esempio sono porporati i cardinali cattolici). La “prova” a cui si sottopone Guglielmo è una parodia scanzonata delle sofferenze corporali predicate dai catari come rifiuto della carne. La posizione del gatto, grande come un uomo, disteso sulla schiena del poeta con le unghie piantate sulla pelle ridicolizza, con irriverente ammicamento a un rapporto sessuale sgradito, le pene d’amore cortesi e propone, con il colore rosso che ricorda la passione di Cristo, una specie di crocifissione rovesciata (a rimarcare il rifiuto di tale immagine nella religiosità catara). Qualcuno si sforza persino di interpretare “seriamente” questa poesia e di vedere nella deformazione parodica in senso “infernale” delle pene dell’amante una anticipazione delle vicende del pellegrino dantesco155.
152 “De his, inquit, qui nominant seipsos Catharos, id est, mundos” Papa Innocenzo I, ep. Magna me
gratulatio ad Rufum et alios episcopos Macedoniae (13 dic. 414) in COUSTANT, 1721 ripresa nel
canone 8 del I Concilio di Nicea (325), in JOANNOU, 1962.
153 “Catari dicuntur a cato, quia osculantur anum cati” ALANUS AB. INS., Opus advers. Haer.
154 Ridicolizzazione del topos del silenzio e dei silenziosi travagli amorosi, di cui si ricorderà anche il
Boccaccio nella novella di Masetto da Lamporecchio (Decameron, III, 1).
155 Tesi interessante, anche se non la condivido, avanzata da Roberto Gagliardi in uno scritto di commento
La diversità dei ruoli, indubbia e resa drammaticamente evidente dai diversi percorsi esistenziali dei protagonisti della persecuzione antiereticale, forse c’impedisce di vedere al di là di essa la somiglianza e affinità anche ideologica che finisce per legare perseguitati e persecutori. È una sorte di ironia della storia: l’eresia catara era tanto più temibile rispetto alle altre eresie minori perché quella dei catari era una specie di chiesa cattolica rovesciata, che ricorreva allo stesso immaginario e agli stessi istituti della chiesa cattolica per presentarsi come alternativa radicale ad essa. Lo strumento efficace della repressione non poteva dunque essere solo un istituto del terrore sistematico, ma soprattutto un apparato che scendesse in competizione con i catari su quella che era invece la loro originalità rispetto alla chiesa cattolica. E dunque il loro rigorismo morale, il loro disprezzo dei compromessi, la scelta di una vita povera e retta dai principi evangelici.
Le riflessioni che abbiamo fatto finora ci consentono una interpretazione anche in senso religioso delle profanazioni della tradizionale simbologia della Croce perpretrate dal De Meun (in particolare la sua identificazione parodica con il patibolo di Giuda Iscariota). La Croce era un simbolo cristiano rifiutato dall’eresia catara (essi infatti ritenevano che Cristo non fosse stato uomo nella carne ma solamente in quanto spirito e quindi non poteva patire alcun supplizio). Con essa essi rifiutavano anche le espressioni come “il corpo di Cristo” cioè l’eucarestia e quindi privavano di un ruolo tutta la classe sacerdotale, il clero cattolico, che la somministrava ai cristiani. Ciò ha come effetto anche il responsabilizzare l’individuo nel suo rapporto con Dio. In questo senso possiamo trovare una significativa convergenza con quanto osserva Pulega nel suo studio sul rapporto tra l’amore cortese e i modelli teologici. Il Pulega non fa riferimento diretto al catarismo ma inserisce la fin’amor in un percorso teologico e filosofico (non rispondente dunque ad una connotazione meramente sociologica) che ha uno dei suo momenti più significativi nella polemica col traducianesimo, anch’esso sospettato di eresia156 (dal V sec.). Pulega, parlando della cosiddetta morale dell’intenzione (che cioè supera il concetto di peccato originale e di inclinazione al male per dare maggiore spazio alla volontà dell’individuo), nota come questo tipo di posizione teologica coincida cronologicamente con i romanzi di Chretien de Troyes, che riconoscono
156 Si noti, come ci ricorda il Pulega, come anche il Traducianesimo faccia riferimento alla generazione
umana attraverso una metafora di tipo “arboreo” (traducianesimo deriva da “tradux” tralcio) proprio per indicare la discendenza dell’anima attraverso un legame materiale così come una pianta sboccia da un’altra.
all’individuo un ruolo decisivo nella scelta tra il bene e il male. Si osservi come anche nel catarismo, proprio con l’eliminazione dei sacramenti e del ruolo stesso delle grearchie cattoliche, l’individuo si assuma in pieno la propria responsabilità. Verrebbe quasi da pensare a questi fermenti come ad un protestantesimo ante-litteram, vale a dire ad un’etica tipica di una società che si basa su un’economia mercantile. Questa osservazione non è del tutto fuori luogo, se si pensa che il francescanesimo, nelle teorie di alcuni storici contemporanei, sta assumendo il ruolo che Weber attribuiva al protestantesimo.157
La lettura secondo questa simbologia nascosta dei riferimenti alla Croce presenti nella
Rose (e certo non poteva essere più esplicita, ne andava a rischio la vita dell’autore), ci
consente di attribuirle uno spessore morale e un rigorismo evangelico che i lettori meno accorti le negano. Analogamente che per l’opera del De Meun, il percorso che abbiamo fatto per cercare all’interno della tradizione cortese dei riferimenti teologici (siano essi ortodossi o eretici), ci apre una diversa prospettiva per l’interpretazione di quell’irriverente poemetto attribuito a Dante, il Fiore. Finora lo avevamo considerato solo come un volgarizzamento ridotto alle sole parti narrative della Rose, e avevamo sondato la possibilità che la sua sopravvivenza all’interno dell’Inferno dantesco costituisse una sorta di antitesto capace di generare la tensione creatrice del messaggio poetico dell’autore fiorentino. L’indagine che abbiamo fatta ci apre però un’altra possibilità: il Fiore, che pur dipende dalla Rose, può essere letto anche come parodia della delicata sensualità del cantico dei cantici. È proprio in questa cantica che ritroviamo la simbologia di Cristo-Fiore congiunta alla metafora della rosa come femminilità e del fiore come principio maschile dell’unione.
Io sono il giglio delle valli montane, il narciso delle pianure
come una rosa tra le spine così è la mia diletta tra le donne.
dal Cantico dei cantici, trad. di R. Cotroneo
157 Le critiche alla tesi Weberiana di un legame stretto tra capitalismo moderno ed etica calvinista (e
quindi assunzione di questa come terminus post quem di una visione del mondo capitalista) non sono nuove (già lo storico Fernand Braudel pubblicò una stroncatura del saggio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”). Noi ci limitiamo a ricordare l’interesse crescente che figure come il giudice legato agli ambienti francescani Albertano da Brescia suscitano da parte di questa corrente di storici ed economisti che ravvisano nel Francescanesimo l’etica nascente della società di mercato. Su Albertano, che con il liber de arte loquendi et tacendi influenzò certamente Brunetto Latini, vedi NUCCIO, 2005.
La sensualità presente nel Cantico dei cantici (testo diffuso e citato nel Medioevo) legittima a una interpretazione della Rose che non faccia riferimento solo al materialismo averroista, ma che si ispiri anche al simbolismo erotico di alcuni testi biblici e del riuso che se ne faceva all’interno degli ambienti monastici impegnati nel contrasto delle dottrine ereticali. Qui è opportuno ricordare l’interpretazione in senso psicanalitico che T. Giani Gallino158 ha dato della “virga” di Jesse, che nasce dal suo