• Non ci sono risultati.

Lettura comparata Rose-Commedia

INDICE NARRATIVO-TEMATICO DEL ROMAN DE LA ROSE

K. Natura entra nella battaglia 15861-16292 L Discorso di Genius a Natura 16293-1

74 POZZATO, 1989 75 GILSON, 1987: p

2.6 La danza delle sette fanciulle

Dopo essere entrato nel giardino, il giovane partecipa alla danza di alcune giovani fanciulle (si tratta in realtà di personificazioni delle virtù cortesi, che però, a differenza delle immagini sul muro di cinta, hanno concretezza di personaggi animati). Nella tradizione poetica italiana il primo sicuro riferimento a questa carola come elemento d’ispirazione è certo nel Teseida Boccacciano

Danzando giovinetti vide e donne Qual da sé belle e qual d’abito adorno

Discinte e scalze in capelli e gonne

Quello che stupisce è che il Boccaccio, in versi che sono chiaramente ispirati alla Rose, ponga un inserto dantesco

discinta e scalza, e sol di sé par donna

siccome amor per la rotta gonna

Rime, LIII, 25-6

Qual da sé belle e qual d’abito adorno Discinte e scalze in capelli e gonne

La natura di memoria dantesca, se non di citazione consapevole, di questa coppia di versi difficilmente si può mettere in dubbio, anche se può lasciare perplessi il fatto che ad essere citata sia una canzone con una forte intonazione malinconica, anche se bisogna riconoscere che anche le donne che incarnano i diversi livelli della giustizia sono allegorie, dunque personaggi che rimandano all’ispirazione del Roman. Un argomento decisivo per comprendere perché Boccaccio abbia posto questo particolare inserto dantesco, viene dalla comparazione dell’incipit della canzone con il passo della

Commedia che più da vicino richiama la carola danzante del Roman

Tre donne intorno al cor mi son venute

Rime, CIV 1

Tre donne in giro, dalla destra rota, venian danzando […]

Nella memoria poetica boccacciana si sarebbero insomma sovrapposte, proprio per il somiglianza dell’attacco, la canzone dell’esilio e il brano purgatoriale con la carola danzante. Questa osservazione si presta a considerazioni più complesse, che non riguardano necessariamente il carattere “meccanico” e “inerziale” della memoria interna del certaldese, che contaminerebbe passi diversissimi. Sono possibili anche deduzioni che vanno in senso opposto, ovvero che il Boccaccio avesse colto un legame profondo dietro l’intertestualità dantesca e che questo avesse qualcosa a che fare con il Roman de

la Rose. È difficile ipotizzare quale fosse il livello di consapevolezza del Boccaccio

intorno al ruolo che il poema transalpino poteva avere nella cultura poetica di Dante. Per parte nostra, sapremmo dare una risposta di quello strano legame che apparenta le “tre donne” della canzone dell’esilio, e le tre (su un totale di sette) che danno il via alla danza nel purgatorio. È una risposta che chiama in causa le tre fiere, e può essere spiegata con la teoria enunciata più volte nel corso del nostro lavoro, del graduale passaggio dal femminile come immagine di rifiuto, alterità e morte (legata alla simbologia della triforme Diana notturna) al femminile come sguardo che si lascia penetrare, dischiudendo alla contemplazione mistica (anticipata simbolicamente dal manto maculato della pantera e poi tradotta dinamicamente nella danza che non a caso viene da Dante associata al tema del sogno di Matelda).

È dunque necessario, anche sulla scorta del nesso boccacciano, porre a confronto la danza di virtù personificate della Rose con il corteggio danzante, anch’esso composto da sette donne, che accompagna il carro trionfale di Beatrice nella Commedia:

"Tre donne in giro, dalla destra rota, venian danzando […]

Dalla sinistra quattro facean festa, in porpora vestite, retro al modo

d’una di lor, ch’avea tre occhi in testa" Purg. XXIX, 121-132

La descrizione citata si inserisce peraltro in un’ambientazione simile a quella dell’episodio del Roman (hortus deliciarum di sapore cortese, ricco di fiori), descritta precedentemente

Nell’ora credo, che dell’oriente prima rragiò nel monte Citerea, che di foco d’amor par sempre ardente, giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori, e cantando dicea Purg. XXVII, 94-99

Infine è utile anche ricordare la carola delle anime dei beati in Par. XII.

Non si può parlare con sicurezza, per questi passi della Commedia, di una diretta dipendenza dal secondo Roman. Il canto di Rachele è forse ripreso da Virgilio, mentre per la danza delle sette fanciulle (personificazioni in Dante delle virtù teologali e cardinali) la carola della Rose è in concorrenza con un passo analogo della Rota Veneris di Boncompagno da Signa che fu professore di retorica a Bologna prima che vi giungesse il De Meun e poi il giovane Dante. Il maestro di “Ars dictaminis” con la Rota scrisse una sorta di Ars amandi (sulla “lascivia et amantium gestus”) che anticipa, in lingua latina, la spregiudicatezza dei sonetti guittoniani del Laurenziano e di quelli del

Fiore, mentre la forma delle epistole amorose costituisce un punto di contatto con il De

Meun traduttore della corrispondenza di Eloisa con Abelardo. L’incipit dell’opera, oltre all’attacco primaverile (In principio veris), mostra una situazione analoga a quella del poeta sognatore del Roman de la Rose, anche se, da un lato il paesaggio naturale è più aperto e realistico del giardino cintato cui giunge Amante (stabam in rotundo monticulo

iuxta Ravonem inter arbores florigeras), e dall’altro l’autore insiste maggiormente sul

carattere mistico e contemplativo delle fantasie del sognatore (Cum autem sic starem et

infra mentis archana plurima revolverem)

Resta il fatto che i due passi citati della Commedia mostrano notevoli elementi di analogia con l’opera di Guillaume (ad esempio l’apparizione onirica di Lia e Rachele richiama il sogno in cui era immerso il giovane Amante; per il secondo passo il motivo della danza in un’ambientazione da gotico medioevale rende comunque suggestivo il richiamo testuale della Rose, anche tendendo conto del passo di Boncompagno, che

comunque a sua volta mostra elementi di analogia con la Rose78). Sulla figura di Lia intenta a ritrarsi in uno specchio (come la Oyseuse del De Lorris), si ritornerà anche più avanti. Anche il tema della danza (così come il pino che è al contempo albero della vita e simbolo di morte), si presta ad una lettura rovesciata. L’immagine delle giovani danzanti trova il suo opposto nel soggetto, spesso raffigurato in affreschi nelle basiliche medioevali, delle “danze macabre” (vedi la figura a pag. 118). Secondo alcuni la matrice scritturale comune di questo corteggi edenici risale al Cantico dei Cantici.

Proprio seguendo questo spunto suggerito dalle danze macabre, è interessante osservare, sempre limitatamente all’immagine visiva della carola cortese evocata dal De Lorris, la presenza nella Commedia di un’analogia per opposizione. Nella danza descritta dal De Lorris i danzatori descrivono un cerchio (secondo il carattere peculiare di questo tipo di danza medioevale):

Lors veissiez querole aller Et genz mignotement bauler Et faire mainte bele treche

Et maint biau tor sor l’herbe fresche.

R.R., 742-45

Alla caratteristica della forma e del movimento circolare di questo ballo, Guillaume aggiunge il dettaglio dell’incontro ripetuto tra i danzatori, che, seguendo la musica, avvicinano i loro visi in modo che sembrano baciarsi:

Com elle balloient cointement L’une venoit tot belement Contre l’autre, et quant estoient Pres a pres, s’antregitoient Les bouches, qu’il vost fus avis

78 Preterea placuit michi virgineum chorum a dextris Veneris collocare, uxoratas, moniales, viduas et

defloratas ponere a sinistris. Testo dall’edizione di Garbini (GARBINI, 1996: p.30) Anche la Rota Veneris si presenta come opera rivolta ad istruire gli amanti (è un manuale d’amore, nella forma di

epistolario per amanti) e condivide con la Rose alcuni elementi dell’incipit. Non va dimenticato poi che Boncompagno era maestro di retorica a Bologna e per questo motivo doveva avere una particolare sensibilità per le immagini e le forme drammatiche della letteratura allegorica. Si deve escludere un influsso della Rose su Boncompagno (la Rota Veneris è anteriore al 1215).

Qu’il s’entrebesent el vis.

R.R., 764-69

Il movimento circolare e l’incontro/scontro ripetuto è analogo a quello descritto in

Inferno VII:

Qui vid' i' gente più ch'altrove troppa, e d'una parte e d'altra, con grand' urli, voltando pesi per forza di poppa. Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro,

gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?». Così tornavan per lo cerchio tetro

da ogne mano a l'opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro; poi si volgea ciascun, quand' era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. Inf VII, 25-35

Alla leggerezza e musicalità del ballo nel Roman, corrisponde per antitesi, nella grottesca “danza” dei dannati, la “pesantezza” (“voltando pesi per forza di poppa”) e la sonorità dissonante e faticosa dei versi (“percotëansi incontro”).

Tornando all’analogia “diretta” dei canti paradisiaci, le immagini via via evocate, prese singolarmente, mostrano la possibilità di molteplici, forse convergenti, influssi. Ma se si analizza tutto lo svolgimento narrativo dei canti purgatoriali XXVII- XXIX non si può non osservare come esso sembri compendiare la parte iniziale del Roman di Guillaume. Riepiloghiamo i più significativi elementi di convergenza:

- Svolgimento della vicenda in un sogno e in un paesaggio edenico (pagano ma con interferenze e riferimenti al paradiso terrestre del Nuovo Testamento nella Rose; cristiano

ma con forti analogie con l’Eden cortese e forse con la poesia di Giacomo da Lentini in Dante)

Sì ruminando e sì mirando in quelle,

mi prese il sonno; il sonno che sovente, anzi che 'l fatto sia, sa le novelle.

Purg. XXVII, 90-2

- L’opinione sul carattere premonitorio dei sogni era diffusa, allora come oggi, per cui non si può prendere come prova di un riferimento diretto alla Rose. Ma anche come semplice indizio, varrà la pena di riportare il passo corrispondente del poema francese:

mes l’en puet tex songes songier qui ne sont mie mençongier, ainz sont aprés bien aparant

R.R. 3-5

- Oltre a una convergenza nel significato, poco probante come si è detto79, si noti anche la ripetizione insistita del suono sibilante (evidenziato con il grassetto nei passi riportati). La suggestione fonica va associata con tutta probabilità alla radice ebraica /sir-/ che indica il suono del flauto (la siringa) e il canto delle sirene (secondo una delle possibili etimologie del nome di queste creature incantatrici). Tale suggestione sonora è presente anche in Boncompagno, dove non viene suggerita dal suono ma dal riferimento al canto degli usignoli (audiebam iocundissimas et variabiles phylomenarum voces80). Il riferimento esplicito al canto, in particolare ad un canto simile a quello delle sirene, si ritroverà, nella

Commedia, nel canto di Lia e Rachele. Di interesse ancora maggiore è il fatto che il sogno,

di cui si è sottolineato il valore profetico, sia preceduto da una dittologia verbale (ruminando e rimirando) che descrive uno sguardo contemplativo e mistico.

79 Peraltro nella Rose esso viene ribadito nei vv. 18-20 “Car li plusor songent de nuiz/ Maintes choses

covertement/ Que l’en voit puis apertement”.

80 Boncompagno da Signa, Rota Veneris (in Garbini, 1996: p.28). Un passo analogo in 7.6 (Ibid.: p.56)

Segue il momento in cui risalendo questo fiume l’amante e l’agens giungono al rispecchiamento. rispecchiamento del giovane nella fontana di Narciso, laddove il fiume giunge alla propria sorgente nel De Lorris; mentre in Dante si tratta di un rispecchiamento privo di riferimenti mitologici:

L'acqua imprendea dal sinistro fianco, e rendea me la mia sinistra costa,

s'io riguardava in lei, come specchio anco.

Purg. XXVII, 67-69

2.7 Courtoisie

È superfluo dire che, tra le personificazioni che partecipano alla carola, Courtoisie è una figura chiave, visto che il suo nome richiama l’essenza stessa di tutto il sistema di valori e topoi letterari a cui, in modo certo diverso e con significative oscillazioni rispetto ai modelli transalpini, si rifà tanta parte della lirica italiana delle origini (dalla siciliana fino agli stilnovisti).

I richiami intertestuali sono abbastanza evidenti sia con l’opera dantesca che con gli autori a Dante più vicini, e in particolare “il primo amico” Cavalcanti. Cortoisie incede regalmente in un giardino fiorito, che sicuramente deve molto all’arte figurativa del gotico francese, e che richiama da vicino la lirica solare, oggettiva, primaverile dei prestilnovisti. La metafora che compare all’inizio della descrizione (ma già a buon punto della sua “epifania” primaverile”) ci rimanda però alla “fresca rosa novella” del Cavalcanti81.

Ele sembloit rose novele

R.R. 839

Trovato questo primo punto di contatto che non prova molto (al più una semplice ipotesi indiziaria, trattandosi di modalità espressive alquanto stereotipate, quasi mattoncini di costruzione del testo poetico cortese), è necessario seguire la traccia di altri riscontri testuali. All’inizio della descrizione (non della donna, ma della sua complessa epifania, cioè del corteggio di suoni e colori che ne accompagnano l’incedere), troviamo il canto degli uccelli.

81 Lo si è spesso associato, nella tradizione italiana, ad un altro verso incipitario, “Rosa fresca

Grant servisse douz et plesant Aloient li oissel menant : Lais d’amors et sonez cortois Chantoient en lor serventois, Li uns en haut, li autres en bas.

R.R., 700-05

Appare abbastanza esplicita la loro valenza metaforica: essi rappresentano i versi dei poeti, che accompagnano le manifestazioni della cortesia. Questi uccellini cantano “ciascuno in suo sirventese”, “alcuni in basso, altri in alto”. Lo Strubel, nel suo commento, interpreta basso e alto come altezza della tonalità del canto. Questa interpretazione non è da rigettare, ma può ben essere assimilata all’altezza del canto intesa come elevatezza stilistica e conseguentemente di lingua. Appare evidente anche la somiglianza con omologhi versi del componimento cavalcantiano che abbiamo citato82:

“ciascuno in suo latino” (v.9) “per ciascuno camino” (v.11)

una somiglianza maggiore, a dire il vero, si registra tra i versi cavalcantiani e altri versi del Roman:

Que cil oisel chascun matin S’estude en leur latin

R.R., 8411-12

Cavalcanti, sia che si rifaccia direttamente al Roman (con una memoria testuale che contamina due luoghi diversi), o a una tradizione più stereotipata e convenzionale del canto cortese83 (dal quale anche il Roman avrà derivato la modalità di presentare

82 Edizione di riferimento CONTINI, 1960

83 E proprio di uno degli iniziatori della poesia trobadorica, Guglielmo IX d’Aquitania, sono questi versi:

“Ab la dolchor del temps novel/foillo li bosc, e li aucei/chanton, chascus en lor lati, /segon le vers del

novel chan” (Gugl. IX, Ab la dolchor, vv.1-4). Questa espressione ricorre anche nel verso dell’

Courtoisie e la figura della donna, in Cavalcanti “angelicata”), coglie soprattutto la dimensione figurativa, visuale, della diversità tra i vari uccelli: non un canto alto o basso, ma una loro diversa posizione nello scenario naturale. Se proiettiamo sul Roman questa modalità di rappresentazione ecco che in alto e in basso possono ben essere diverse posizioni di un albero allegorico in cui stanno questi uccellini (vale a dire i poeti). Inutile dire che sta più in alto nell’albero chi ha un canto più puro e capace di contenuti elevati. Ora possiamo appoggiarci alle nostre precedenti esperienze e

verificare se davvero si riproponga quella triangolazione, quel circuito intertestuale, che unisce esperienze letterarie o culturali (sempre profondamente intrise di un valore autobiografico e universale al tempo stesso) che uniscono i passi danteschi a quelli di un intellettuale come Cavalcanti vicino all’esperienza dantesca e al Roman de la Rose84. Se parliamo del “primo amico” viene immediato pensare al luogo della Commedia in cui viene citato, vale a dire quei passi del Purgatorio in cui Dante tratta di questioni poetiche. Va precisato che il passo cavalcantiano che riecheggia la Rose non riguarda nello specifico il grande tema della Cortesia, ma del valore poetico e dello stile più adatto alla canzone cortese. Questo consente di capire meglio perché in Purgatorio XI, quando Oderisi ammonisce Dante sulla fama dei mortali, che nulla è più che “un fiato di vento”, riprenda proprio la metafora degli uccelli.

così ha tolto l'uno a l'altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l'uno e l'altro caccerà del nido.

Purg.XI, 97-99

Dopo il De Vulgari Eloquentia l’adeguatezza del canto, nella sua forma più elevata (che nel trattato dantesco è rappresentata dalla grande canzone tragica), è strettamente legata a una lingua capace di esprimerne i contenuti. Ciò per Dante significava soprattutto rigettare la municipalità di un Guittone: tutto il De vulgari eloquentia è intriso di antimunicipalità, ed è inoltre costruito sulla metafora venatoria (questo volgare illustre, si ricorderà, è paragonato a una pantera di cui bisogna andare in caccia). Ecco allora che l’immagine allegorica stereotipata dei poeti come uccellini su un albero si complica in

Dante: chi possiede la gloria della lingua “caccerà del nido” l’uno e l’altro Guido. Il verbo cacciare ci riconduce alla metafora venatoria del De Vulgari, che si sovrappone e si confonde con l’immagine di un allegorico “albero degli stili” che visivamente contrappone la propria assialità e verticalità alla forma circolare della “rota virgili”. Si dirà che qui il verbo cacciare non ha un valore propriamente venatorio, perché equivale a “scalzare via per occuparne il posto”. Ma a questo punto non sarei più tanto sicuro che questa interpretazione non sia “facilior” rispetto ad un’altra che sembra accordarsi meglio ad altri passi della Commedia in cui si riproponeva lo stesso circuito di

associazioni: cacciare nel senso di cacciare via ma anche di andare a prendere nel loro nido85 e non si badi bene per occuparne il posto ma per sancire definitivamente che uno solo è il nido da cui si può cantare il grande canto cortese, che non è né quello rozzo di un Guittone né quello infinitamente più raffinato ma ancora insufficiente degli

stilnovisti. Oderisi ovviamente si riferisce a Dante stesso, come a colui che è il naturale prosecutore del miglior fabbro del parlar materno, la cui officina poetica dunque si può paragonare al “foco che affina” nell’obrador arnaldiano. La rete delle associazioni ci porta dunque a Purgatorio XXVI dove per bocca di Guinizzelli viene presentata ed elogiata la figura di Arnaldo.

Versi d’amore e prose di romanzi soverchiò tutti

Come non pensare ai così simili versi del passo citato del Roman?

Lais d’amors et sonez cortois Chantent in lor serventois

Dante ha tradotto e attualizzato la bipartizione in generi del canto cortese presente nel passo del Roman (i Lais, genere poetico più narrativo ora assimilato alla prosa del romanzo cortese, e la lirica, riassunta nel termine “versi”, che può intendersi sia come riferimento generico a qualunque componimento in versi di argomento lirico, come suggerisce il parallelismo con “prose”, ma anche come l’italianizzazione di “vers”, termine tecnico trobadorico per indicare la canzone, contrapposto all’implicito “romans”). A dire la verità la rielaborazione dantesca del passo del Roman supera la semplice traduzione, dal momento che alla corrispondenza lineare sul piano semantico (“vers” con “versi”, “lais” con “romanzi”) ne segue una rovesciata sul piano formale:

versi d’amore/lais d’amors. Evidente è il tentativo di Dante di includere nel canto cortese anche i generi prosastici, i romanzi cristianiani, che il De Meun invece lasciava al di fuori, al di qua del discrimine formale della versificazione. La memoria dantesca del passo del De Lorris era probabilmente sollecitata dal suo intrecciarsi con altre memorie poetiche, come accade ad esempio per l’analogia tra “chantent in lor serventois” con “e cantinne gli auselli ciascuno in suo latino” di “fresca rosa novella” del Cavalcanti.

L’associazione fa pensare a un discorso che continua: chi caccerà del nido i due Guidi sarà colui che seguirà l’esempio del miglior fabbro. A proposito di Arnaut, ritengo che il tanto discusso “versi d’amore prose di romanzi” non si riferisca a una produzione in prosa del perigordino, ma al fatto che il suo canto e la sua lingua, in assoluto più elevata delle precedenti, caccerà dal loro nido gli altri due poeti (come usurpatori di un posto che non gli spetta, perché uno soltanto può il essere il canto degno dell’antica cortesia, e che ora è per Dante la canzone di argomento tragico). Ciò richiede ovviamente che il verso non si debba intendere come formato da due accusativi di relazione ma da una apposizione del complemento oggetto “tutti”. Dunque non “soverchiò tutti gli altri sia provandosi nei componimenti in versi che come autore di