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Alcuni nodi critici: la terminologia e i campi di interesse.

LA MORFOGENESI DELLE POLITICHE SOCIALI E IL RUOLO DEL TERZO SETTORE NELL’ITALIA DEL SECONDO DOPO GUERRA

2.1. Alcuni nodi critici: la terminologia e i campi di interesse.

Nel primo capitolo ho cercato di illustrare una metodologia per analizzare le storie morfogenetiche. In questo contributo sperimento la tecnica archeriana sul campo delle politiche sociali italiane, con particolare attenzione al secondo dopo guerra. Prima, però, di arrivare all'osservazione socio-storica, mi preme mettere in luce alcuni nodi che nell’attività di ricerca sono da enucleare se si vuole mantenere una certa capacità analitica. In questa breve introduzione:

1. cerco di sottolineare il significato che attribuisco al termine politiche sociali, riprendendo la tradizione di studi bolognese sull’argomento;

2. traccio un panorama sul contenuto dei lemmi Stato sociale – welfare – politica sociale, analizzando le differenze terminologiche e concettuali;

3. spiego il motivo che mi porta a individuare nella previdenza, nella sanità e nell’assistenza i campi più longevi e specifici delle politiche sociali.

Per la stragrande maggioranza degli studiosi di social administration, come Hill (1999), o per i teorici critici, come Wilensky (1989), la politica sociale è ciò che fa lo Stato per il benessere dei cittadini. Secondo quest’ottica, il welfare state sarebbe «l’insieme delle garanzie e degli interventi forniti dal governo per assicurare standard minimi di reddito, alimentazione, salute, alloggio e istruzione ad ogni cittadino come “diritto sociale e non come carità”» (Donati 1993, 20). Lo Stato interverrebbe per ridurre gli squilibri prodotti dal mercato. Come si capisce sin da queste definizioni paradigmatiche, nel pensiero mainstream c’è una forte sovrapposizione concettuale tra welfare state e politica sociale. La scuola

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bolognese – i cui maggiori contributi risalgono ad Ardigò, Donati, Colozzi e Prandini - ha inteso in termini opposti questo campo di studi: la politica sociale non coincide con il welfare state, avendo una natura più complessa e articolata. La politica sociale non corrisponde ai prodotti finali (servizi sociali, pensioni erogate, prestazioni sanitarie) e neppure può essere fatta risalire solamente ai sistemi complessi (politiche assistenziali, pensionistiche, sanitarie). Essa è una forma di riflessività: assume l’idea di un processo (riflessività) messo in campo da più attori (pubblici e privati), che ha un oggetto proprio (il benessere sociale) e un meccanismo di funzionamento determinato (distribuzione e redistribuzione di risorse). La politica sociale «può essere definita e deve essere trattata come una forma di riflessività, anzi come la forma specifica di riflessività politica che le società modernizzate esercitano su se stesse in ordine alla distribuzione e redistribuzione delle risorse materiali e simboliche che determinano il benessere sociale. Con il termine di “riflessività politica” si vuole mettere l’accento sul fatto che, quanto più la società si modernizza, tanto più essa deve orientarsi politicamente a reintrodurre in se stessa gli esiti delle proprie azioni, al fine di correggere continuamente scopi e mezzi utilizzati in ordine ad un crescente miglioramento delle proprie capacità di benessere» (Donati 1993, 25)

Politica sociale ! Welfare state Politica sociale = Riflessività societaria

Figura 7 – La politica sociale nella teoria relazionale

Alcune implicazioni risalenti a questa definizione devono essere messe in luce: 1. Se la politica sociale è una forma di riflessività, allora ha a che fare sia con la

riflessività personale (Archer 2006), che con soggettività sociali riflessive (Prandini 2010b), che possono comprendere anche una forma di riflessività comune tra organizzazioni diverse in cui anche il livello sistemico è sociale (per una trattazione più ampia rimando al capitolo terzo e alle conclusioni). 2. La riflessività delle politiche sociali è riflessività della polis, che coinvolge

un’intera comunità. Se la politica sociale è la riflessività della società sugli esiti della distribuzione e redistribuzione delle risorse, non può che coinvolgere più

attori e non può essere stato-centrica: da qui nasce l’attenzione per le forme regolative miste pubbliche e private, che sono oggetto di questa tesi (Boccacin 2005, 2009, 2010; Rossi e Boccacin 2009).

3. Porre come fine della politica sociale un miglioramento del benessere sociale, significa gettare le basi per una comprensione del welfare non residuale, ma attiva, plurale, sussidiaria (Donati e Prandini 2006, 2008; Donati 2007). Lo scopo della politica sociale è più ampio della semplice povertà materiale o del diritto di cittadinanza, in termini sociologici significa affidargli il compito di salvaguardia del sotto-sistema dell’integrazione sociale.

Come sintesi potremmo riportare un canovaccio, piuttosto preciso, che Donati pone alla base sia della divisione dei compiti tra entità diverse sia come base per una riflessività comune: «Allora politica sociale significa che, nel quadro di uno Stato che assicura tutte le garanzie liberal-democratiche, ogni istituzione e attore della scena sociale deve: sensibilizzarsi alla funzione sociale diffusa di evitare forme di povertà, emarginazione e devianza; deve far in modo che le opportunità di vita siano distribuite in maniera equa, essendo consapevoli che esiste una tendenza alla circolarità in base alla quale la distribuzione delle opportunità tende a privilegiare chi ha maggiori capacità di produzione; e deve svolgere queste funzioni con il massimo dell’auto-responsabilizzazione, cioè con il maggior grado di riflessività possibile» (Donati 1993, 35).

Per scandagliare ancora più in profondità i termini della contesa, occorre separare i lemmi: politica sociale – welfare state/society/community/mix – Stato sociale. Il primo è il concetto centrale, i secondi sono le forme storiche in cui tale concetto ha preso forma, il terzo è ciò che lo Stato fa per rendere esigibili alcuni diritti sociali di cittadinanza (a meno che non si tratti quel termine come il riferimento ad un attore di welfare, così come potrebbero essere annoverati il mercato, il privato sociale e i mondi di vita quotidiana). Se enfaticamente possiamo disquisire all’infinito sulla primazia dell’azione privata rispetto a quella pubblica e quindi a che attore spetti il primo passo di politica sociale, mi pare che storicamente il dato sia ormai garantito: inizialmente a muoversi su questo terreno furono le società auto-organizzate, nate spontaneamente sul territorio, volontarie,

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mutue, cooperative, opere pie. «Questa storia comincia con quella che è stata definita la welfare society , cioè un insieme di formazioni sociali le più varie (religiose e laiche) operanti in ambito sociale ed assistenziale preesistenti al processo di industrializzazione e modernizzazione. La storia di una welfare society che, smantellata nelle fondamenta dall’irrompere della modernità, della società industriale e della questione operaia, viene progressivamente soppiantata dall’emergere del welfare state inteso come istituzioni pubbliche operanti nei medesimi ambiti, gestite però dallo Stato» (Silei 2011, 1). Il breaking point corrisponde con l’irruzione dell’industrializzazione anche in Italia: la datazione è quella successiva al 1848. Per un periodo lungo più o meno una cinquantina di anni le società cattoliche e laiche tennero in piedi il sistema, agendo nelle più svariate attività (assistenza, educazione, cooperazione, credito, abitazione, mutualismo, previdenza). Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale si contavano circa 7.000 tra associazioni, opere pie, società di mutuo soccorso. Eppure proprio alcuni dei fattori che erano stati all’origine della loro nascita, divennero ben resto anche il segno dell’avvento del welfare state. Seguendo il percorso proposto da Ferrera possiamo individuare alcuni fattori per l’esordio del welfare state italiano: • Tra i fattori cornice, Ferrara individua soprattutto l’integrazione sociale dei lavoratori: «La necessità di garantire e pilotare la riproduzione e integrazione sociale delle masse lavoratrici, ormai pienamente inserite nel processo di sviluppo capitalistico-industriale e quindi definitamente sganciate dalla rete di solidarietà propria della società pre-industriale, diventò sempre più impellente alla fine del secolo scorso e predispose dunque gli stati nazionali ad accrescere il proprio intervento nel campo della politica sociale» (Ferrera 1984, 23). Tale dinamica integrante rimarrà per sempre una costante del welfare state: come vedremo nei prossimi capitoli le politiche sociali italiane si sono sviluppate come integrazione via via sempre più allargata di classi sociali, di bisogni sociali, di gruppi.

• Tra i fattori specifici di fine Ottocento si deve annoverare la mobilitazione operaia: «la variabile storicamente cruciale sembra essere stata la mobilitazione dei lavoratori in relazione al contesto politico-istituzionale circostante. Fu la mobilitazione operaia (in particolare, l’apparizione dei primi partiti socialisti) a

dare la spinta decisiva per l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria» (Ibidem, 24). Questa annotazione ci porta ad un primo dato di similitudine tra la trattazione archeriana e quella di Ferrera: sono i gruppi organizzati con interessi materiali ed ideali a costruire le occasioni su cui avvengono le svolte nelle politiche sociali.

Industrializzazione ed emergere della classe operaia sono le variabili che ribaltano il rapporto tra welfare society e welfare state e segnano il passaggio da una configurazione pluralistica ad una stato-centrica. Allo stesso tempo, il sistema di protezione compie, però, un netto salto di qualità: da una configurazione solamente assistenziale-filantropica si passa ad una protezione più ampia.

Una veloce ricognizione storica ci indica quattro passaggi fondamentali (si veda tabella 6 e 7):

1. Dal XVI secolo, con le cosiddette “legge sui poveri”, si affermò come un’ idea beneficenziale, caritativa e filantropica, rivolta ai poveri, con lo scopo di garantire l’ordine sociale; gli interventi erano residuali, non coordinati, sviluppati su base locale.

2. Nel tempo l’assistenza assunse un carattere più strutturato e normativo. Alla fine dell’Ottocento si passò ad un sistema standardizzato, operante su scala nazionale automaticamente ed imparzialmente, il cui scopo fu quello di proteggere i rischi connessi al mondo lavorativo (infortunio, malattia, vecchiaia, invalidità e disoccupazione). Il sistema era pensato non più solo per i poveri, ma soprattutto per i lavoratori.

3. Il periodo tra le due guerre vide aumentare l’influenza e il portato dello schema assicurativo: l’assicurazione rispondeva a più bisogni sociali (come ad esempio la maternità), aumentava i beneficiari e garantiva una base minima di protezione a tutti, non solo a poveri e lavoratori.

4. Nel secondo dopoguerra, soprattutto in Gran Bretagna, in Nuova Zelanda e in Svezia, si sviluppò un nuovo framework concettuale, la sicurezza sociale, fondato su una base universale con copertura solo dalla tassazione generale, diretta verso tutti i cittadini indipendente dal loro status occupazionale. Era l’idea beveridgiana che strutturò un secondo modello - a fianco di quello occupazionale - il modello universalistico.

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Periodo Concetto centrale Principali misure

XVI secolo Assistenza - Poor Relief Elargizioni residuali e discrezionali a persone ritenute immeritevoli Su base locale

Scopo: mantenere l’ordine sociale 1880 – Prima Guerra

Mondiale

Assicurazione obbligatoria

Prestazioni standard in forma automatica e imparziale Su base nazionale

Rischi coperti: Infortuni, Malattia, Vecchiaia e Invalidità.

Disoccupazione

Scopo: integrare le masse di lavoratori

Prima Guerra Mondiale – Seconda Guerra Mondiale

Assicurazione sociale Definizione estesa dei rischi e dei beneficiari (a base assicurativa) + protezione generale in base al bisogno

1945-1975 Sicurezza sociale Protezione a tutti i cittadini

Minimo vitale nazionale Scopo: aumentare i diritti di cittadinanza e la loro esigibilità

Tabella 6 – Dalla welfare society al welfare state

Assistenza sociale Assicurazione sociale Sicurezza sociale Copertura Universale ma selettiva Occupazionale Universale

Prestazioni Collegate alla situazione di bisogno

Contributive/retributive A somma fissa

Finanziamento Fiscalità generale Contributiva Fiscalità generale

Tabella 7 – Le modalità di intervento del welfare state e le loro caratteristiche (Ferrera 2006, 22)

L’Italia in questo panorama storico di emergenza del welfare state segue inizialmente la corrente occupazionale di origine tedesca, per poi evolversi in un sistema misto. La politica sociale italiana, almeno sino alla fine degli anni ’90, è

basata sui principi della sicurezza sociale per ciò che riguarda il comparto sanitario (universalismo pagato con la fiscalità), è fondata sull’assicurazione sociale obbligatoria per i rischi derivanti dalla partecipazione lavorativa (modello occupazionale), infine ha una forte valenza assistenziale per rispondere ai bisogni sociali. Cerco di seguito di approfondire questi tre campi di intervento.

L’assistenza sociale è identificabile con «l’insieme degli interventi rivolti a contrastare e potenzialmente a superare situazioni di indigenza attraverso servizi sociali e prestazioni monetarie tipicamente finanziati tramite fiscalità generale» (Ferrera 2006, 228-229). L’assistenza ha due funzioni: da una parte intende rispondere alle situazioni di povertà o di indigenza economica, dall’altra, cerca di prevenire l’esclusione sociale o di agire per l’inclusione sociale. Il sistema italiano si dovrebbe fondare sulla esigibilità di alcune prestazioni racchiuse nei Lep – livelli essenziali delle prestazioni – la cui definizione è in capo allo Stato. L’assistenza è finanziata dalla tassazione generale, è universalista ma per accedere a tali prestazioni occorre soddisfare due condizioni: bisogna dimostrare una situazione manifesta di bisogno ed è necessario accertare, tramite la prova dei mezzi, l’insufficienza personale o familiare di risorse economiche. L’assistenza diventa allora una forma di azione «selettiva (rispetto alle condizioni di bisogno e di reddito) e residuale (rispetto alle capacità di risposta individuale o familiare)» (Ibidem, 19). Proprio la selettività e la residualità dell’intervento possono ingenerare dei cortocircuiti assistenziali, in particolare la letteratura sottolinea i problemi connessi alle trappola della povertà, allo stigma, ai problemi di informazione (falsi positivi e falsi negativi) e alla categorialità. Gli attori principali dell’assistenza sono lo Stato, le Regioni, le Provincie e i Comuni, il Terzo settore, le famiglie e i mondi di vita quotidiana. Oggi, poi, ricoprono sempre più importanza le persone in stato di bisogno, il loro potenziale e le loro capacità. Il mercato è molto a latere del sistema, perché gli utenti finali non sono pagatori affidabili. Contrariamente al comparto assicurativo-previdenziale, l’assistenza in tutta Europa si articola - a partire dagli anni Sessanta e Settanta - a livello territoriale, così che i servizi siano fruibili a partire dalla comunità di

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riferimento. La tabella 8 descrive in sintesi le principali misure assistenziali presenti oggi in Italia.

Misura Destinatari Gestione (Note) Livello Nazionale

Assegno sociale (l. 335/1995) (pensione sociale in

esaurimento l. 153/1969)

Cittadini con più di 65 anni, con prova dei mezzi. Importo massimo 2011: ! 417,30

Inps

(Unica forma di reddito minimo garantito esistente in Italia)

Pensione di invalidità civile + Indennità di

accompagnamento

Cittadini inabili (totali e parziali, ciechi e

sordomuti), con prova dei mezzi. Importo massimo 2011: ! 260,27 + 487,39

Inps

(Riconoscimento

dell’invalidità affidato alle Regioni)

Trattamento di integrazione al minimo delle pensioni

Pensionati titolari di pensione di vecchiaia, con prova dei mezzi. L’importo minimo per il 2001 è: ! 467,42

Inps

(Si applica alle pensioni il cui importo è inferiore al

“minimo vitale”) Assegno per il nucleo

familiare

Lavoratori dipendenti e pensionati ex dipendenti, con prova dei mezzi

Inps

(Quasi interamente finanziata tramite i contributi dei datori di lavoro)

Assegno per i nuclei familiari con almeno tre figli minori

Famiglie con almeno tre figli minori , con prova dei mezzi. Importo 2011: ! 131,78

Concessione dai Comuni Pagamento Inps

Assegno di maternità per madri sprovviste di altra copertura assicurativa

Donne in gravidanza, prive di altre coperture

assicurative, con prova dei mezzi. Importo 2011: ! 316,25

Concessione dai Comuni Pagamento Inps

Livello Locale

Servizi sociali in natura Tutti i residenti, con diverse modalità di accesso

Comuni, Province e Asl Esoneri o riduzioni da

tariffe

Tutti i residenti, ma con forte

discrezionalità e vincolati alle disponibilità di bilancio dell’ente

Comuni e Regioni

(Forte variabilità territoriale, spesso

anche intra-regionale) Sussidi alle famiglie in

situazioni di disagio

Tutte le famiglie in situazione di disagio, ma con forte discrezionalità e vincolati alle disponibilità di bilancio dell’ente Comuni (Forte discrezionalità; vincolati alle disponibilità di bilancio dell’ente)

Minimo vitale (reddito minimo garantito)

Tutti i residenti in situazione di indigenza, ma con forte discrezionalità e vincolati alle disponibilità di bilancio dell’ente

Comuni

Le politiche pensionistiche sono la componente più importante di un sistema di welfare, sia come investimento sociale sia come spesa. Il concetto di pensione «individua quella prestazione pecuniaria vitalizia prevista a fronte di rischi di vecchiaia e invalidità nonché in relazione al grado di parentela con un assicurato o un pensionato defunto (rischio di premorienza)» (Ibidem, 54). I rischi coperti dalla pensione sono, di tre tipi: vecchiaia, premorienza e invalidità, a cui si abbinano diverse prestazioni:

1. Premorienza: pensione indiretta (l’assicurato muore prima del ritiro dal lavoro) e pensione di reversibilità (il decesso avviene dopo il pensionamento);

2. Invalidità: pensione di invalidità previdenziale (a seguito della perdita della capacità di lavoro causata da un evento invalidante); pensione di invalidità civile (ha natura assistenziale e si rivolge a sordomuti, ciechi e invalidi civili); 3. Vecchiaia: pensione previdenziale di vecchiaia (età pensionabile + periodo

contributivo minimo); pensione previdenziale di anzianità (solo versamento contributivo).

Il sistema pensionistico in Italia ha natura occupazionale, poiché ha seguito la svolta bismarckiana di fine Ottocento. Il suo obiettivo, infatti, è il mantenimento del tenore di vita del lavoratore non più attivo; le prestazioni sono collegate al reddito, la copertura è su base occupazionale ed la regola di accesso è legata al pagamento dei contributi. Oggi il sistema di finanziamento delle comparto pensionistico italiano è totalmente a ripartizione. L’impianto è cambiato fortemente dai suoi esordi: da un sistema a capitalizzazione l’Italia è passata ad un sistema misto capitalizzazione/ripartizione nel 1952 (con forte preminenza della ripartizione), sino a giungere al 1969 in cui vennero abrogate le forme residue di capitalizzazione (si veda tabella 9).

Sistema a capitalizzazione: le risorse versate sono accumulate in conti privati, investite e

rivalutate secondo il rendimento degli investimenti e convertite in pensioni al momento dell’abbandono del lavoro.

Sistema a ripartizione: i contributi versati dai lavoratori vanno a pagare le pensioni attuali

(principio di equità inter-generazionale) in cambio del diritto a ricevere una pensione nel momento del ritiro dal lavoro.

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Il sistema previdenziale italiano si compone di tre pilastri: il primo è lo schema pubblico (l’assegno sociale finanziato dalla fiscalità generale e l’assicurazione obbligatoria finanziata a ripartizione), nel secondo pilastro si articola lo schema privato a capitalizzazione di tipo occupazionale e nel terzo pilastro lo schema privato a capitalizzazione individuale. Solo dalla fine degli anni ’90 l’Italia ha adottato questa tripartizione che orienta maggiormente al mercato il sistema pensionistico e cerca di introdurre un risparmio privato a finanziamento del calo delle pensioni pubbliche.

Altro importante tassello del sistema pensionistico è la modalità di calcolo della pensione. Proprio nel 2011 è avvenuto l’ultimo cambiamento sul versante delle prestazioni: da un sistema parzialmente retributivo l’Italia è passata ad un sistema totalmente contributivo. La pensione viene, quindi, calcolata sulla base del montante di contributi versati in tutta la carriera lavorativa. Inoltre, l’Italia si caratterizza per un livello del prelievo dei contributi molto differenziato per categorie professionali, con aliquote piuttosto elevate (dal 32,7% dei dipendenti iscritti all’INPS, sino al 10% di alcune categorie di lavoratori autonomi).

Il sistema pensionistico è stato una delle cause principali della staticità del welfare italiano: il livello di spesa per il comparto (oggi al 16,1% del Pil, sopra la media dei paesi dell’Unione Europea di 38 punti percentuali) ha bloccato il finanziamento soprattutto verso il comparto assistenziale.

A somma fissa: la pensione è forfettaria e non collegate alle retribuzioni o ai contributi versati

Retributivo: le pensioni sono collegate al reddito da lavoro, solitamente calcolato sugli anni

migliori della carriera; nel sistema a capitalizzazione viene stabilito il livello della pensione in percentuale ad una retribuzione e da lì si adegua il prelievo di contributi necessari.

Contributivo: l’importo della pensione è collegato al montante contributivo, ossia ai contributi

fissi versanti rivalutati sul tasso degli investimenti (sistema a capitalizzazione) o sulla crescita del Pil o sull’aumento delle retribuzioni, etc. (sistema a ripartizione).

La sanità è «l’insieme delle istituzioni, degli attori e delle risorse, umane e materiali, che concorrono alla promozione, al recupero e al mantenimento della salute» (Ibidem, 171). Il sistema sanitario nazionale (SSN) è organizzato su tre livelli: i servizi medici di base che comprendono i medici di famiglia e i pediatri; i servizi sanitari di secondo livello che sono costituiti dagli ospedali e dai servizi specialistici ambulatoriali; i servizi sanitari di terzo livello che annoverano i poli di eccellenza per le prestazioni riguardanti malattie rare. L’intervento regolativo è in mano a due attori: lo Stato che ha principalmente il compito di mettere a punto il Piano sanitario nazionale e di accordarsi con il secondo attore, le Regioni, per definire gli accordi sul finanziamento del SSN. Le Regioni inoltre stendono il Piano sanitario regionale e nominano i direttori generali delle Aziende Sanitarie Locali. Il sistema è a fruizione universalistica: ogni cittadino (e anche una persona priva della cittadinanza italiana) può usufruire dei servizi sanitari. Le prestazioni sono gratuite con diverse eccezioni (ticket sui farmaci, ticket sulle prestazioni di specialistica ambulatoriale, ticket su accessi non appropriati (codici bianchi) al Pronto Soccorso). Il sistema di finanziamento è legato al prelievo fiscale e si fonda sulla capacità reddituale individuale. Quanto l’utente paga è correlato al reddito e non alle prestazioni che riceve, salvo i casi menzionati. In particolare sono l’Irap e l’addizionale Irpef (42%), l’Iva e l’accisa sulla benzina (43%) a costituire la parte più cospicua dei finanziamenti al SSN. Tramite tali entrate il servizio sanitario risponde ai bisogni fondamentali di tutela della salute, contenuti nel Piano nazionale e articolati nei livelli essenziali di assistenza (LEA). I LEA devono essere uniformi su tutto il territorio nazionale e ricoprono tre aree di assistenza:

• Assistenza sanitaria collettiva in ambienti di vita e di lavoro: comprende le attività di prevenzione rivolte alle collettività ed ai singoli (tutela dagli effetti dell’inquinamento, dai rischi infortunistici negli ambienti di lavoro, sanità