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Le partnership come vettori innovativi di buone pratiche: la costruzione dell’identità organizzativa come mezzo simbolico.

LE PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATO NELLE POLITICHE SOCIALI COME RELAZIONI TRA AGENTI CORPORAT

3.4. Le partnership come vettori innovativi di buone pratiche: la costruzione dell’identità organizzativa come mezzo simbolico.

Le partnership pubblico-privato sono uno strumento utilizzato, seppur in modo ancora parziale e saltuario, anche nei servizi alla persona. In particolare, dopo la legge 328/2000 è accresciuta l’attenzione per il ruolo del Terzo settore e delle imprese private non solo nell’erogazione ma anche nella progettazione di servizi. Da questo punto di vita il gruppo di ricerca che più si è speso in Italia è quello milanese del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano. In particolare Lucia Boccacin (2005, 2007, 2009, 2010) e Giovanna Rossi (Rossi e Boccacin 2007, 2009, 2011) hanno svolto importanti ricerche sulle buone pratiche progettate da partenariati: mi riferirò qui alle indagini sul campo “Forme di gestione associata nei servizi alla persona. Stili e pratiche di governance sussidiaria in Lombardia”, “Volontariato e bisogni sociali: un’indagine sulla Zona 4 di Milano” e “Social partnership e buone pratiche in Italia: il ruolo del Terzo settore”.

Figura 22 – Un modello di valutazione fondato sulla connessione tra partnership, buone pratiche e capitale sociale (Rossi e Boccacin 2011, 27)

Multidimensionalità dei bisogni

Pluralità di attori che collaborano per offrire risposte adeguate Partnership sociali come forme emergenti nei servizi alla persona

Impatto positivo sulla qualità del welfare Possibilità di produrre buone pratiche

C ap ita le so cia le C ap ita le so cia le

Le PPP sono studiate a partire dall’idea che un welfare societario e plurale (Donati 2006a, 2007, 2008) possa attecchire in Italia se configura politiche in cui la presenza di attori pubblici, privati e del privato sociale porti a forme di coordinamento organizzativo nelle quali i livelli di cooperazione siano elevati e abbiano luogo in reti decisionali compartecipate. Il punto di vista assunto - diversamente da quello di Barbera, Vesan & C. che era legato agli sviluppi di politiche territoriali concertative - è imprescindibilmente relato ai servizi sociali in un’ottica di personalizzazione degli interventi e di pluralizzazione degli agenti. Infatti, le Nostre studiano le partnership in correlazione con la nozione e la misurazione del capitale sociale e la rilevanza delle buone pratiche (figura 22): le PPP avranno un impatto positivo sulla qualità del welfare più riusciranno a generare e ri-generare capitale sociale e allo stesso tempo più produrranno servizi alla persona che possono essere riprodotti come buone prassi.

La definizione da cui partono tali Autori è piuttosto articolata: le partnership sociali sono «una configurazione strutturale caratterizzata dalla compresenza di diversi soggetti sociali, da un’azione sociale collaborativa e reciproca, da obiettivi esplicitamente identificati, dall’attivazione di relazioni formalizzate, generalmente di medio-lungo periodo, stabilite volontariamente, nelle quali le risorse, le capacità e i rischi sono condivisi per il perseguimento di un progetto multidimensionale comune, non realizzabile da ciascuna delle singole unità» (Boccacin 2010, 10). Secondo questa impostazione le PPP sono diverse sia dalle reti, perché queste possono esistere senza il coinvolgimento delle identità organizzative, sia dai processi di esternalizzazione, perché il rapporto che matura nel contracting out è di tipo principale-agente, sia dai processi concertativi. Su questa ultima dimensione è bene soffermarsi, perché denota una differenza di fondo con l’approccio alle partnership come arene politiche. Secondo Boccacin, la concertazione è un processo che ha lo scopo di portare attori con interessi contrastanti a trovare un accordo circa la distribuzione o la redistribuzione di risorse, mentre la partnership è un processo di tipo associativo che implica continuità ed effettività della relazione tra attori. Nella concertazione non c’è la costruzione di una nuova identità collettiva, nel partenariato sì: «“essere partner

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significa essere soci”, integrare fortemente le proprie azioni in vista del raggiungimento di obiettivi d’interesse comune» (Ibidem, 11-12).

Le partnership sono, allora, nel campo dei servizi alla persona uno strumento per valorizzare gli apporti di più attori, utilizzando come strumenti la fiducia e la cooperazione e creando una nuova identità organizzativa. Su questo punto tornerò nell’ultimo paragrafo del capitolo.

Gli strumenti per l’analisi delle PPP sono fatti risalire a due principali dimensioni: il ciclo di vita di una partnership e la modalità con cui è governata. Infatti Boccacin propone di osservare i partenariati a partire da alcuni elementi concreti:

• l’origine della partnership: secondo Boccacin ci sono due diverse modalità di iniziare una forma di collaborazione. La prima è top down, con la presenza di un’autorità esterna che stimola e promuove il ricorso alla PPP. La seconda è bottom up, seguendo l’iniziativa volontaria di organizzazioni che vogliono realizzare uno scopo comune.

• Il ciclo di vita di una partnership. Seguendo la teorizzazione di Lowndes e Skelcher (1998), si possono individuare quattro fasi: la collaborazione pre- partnership, la creazione e il consolidamento della partnership, il perseguimento del programma della partnership e il termine o la trasformazione della partnerhsip.

• La tipologia dei partner coinvolti: in particolare un mix tra attori istituzionali, di mercato e di Terzo settore. Ognuno porta nella PPP le proprie metodologie di lavoro, i propri mezzi di comunicazione, le proprie basi normative, i propri metodi di risoluzione dei conflitti.

• La governance della partnership: per Boccacin i due processi – governance e partnership - si coimplicano. Mentre i partenariati rappresentano «l’alveo strutturale entro il quale può avere luogo una dinamica relazionale di tipo reciproco, fiduciario e cooperativo, la governance segnala lo stile adottato dai diversi attori per agire tali relazioni» (Ibidem, 18). Riprendendo il lavoro di Newman (2001) si possono articolare quattro forme di governance interne alle partnership (figura 23):

- Il modello gerarchico, «caratterizzato da un forte centralismo e da una minima propensione al cambiamento, è orientato verso il controllo e l’ordine, supportati da un consistente apparato di strutture, regole e procedure». In questo modello, l’apparato pubblico detta i tempi del cambiamento tramite i processi legislativi con formulazioni standard a garanzia del processo.

- Il modello della scelta razionale «è orientato verso processi di breve periodo di tipo pragmatico che consentono di massimizzare i risultati». È un modello aperto al cambiamento, orientato principalmente all’ottenimento di incentivi; segue una dinamica dall’alto al basso, molto manageriale; è un modello centralista.

Figura 23 – I possbili modelli di governance delle partnership (Boccacin 2009, 34; Newman 2001, 119).

- Il modello a sistemi aperti «è molto recettivo del cambiamento sociale: si fonda su una forma di governo altamente decentrata, che prevede una relazionalità dinamica con gli attori sociali “esterni” e una flessibilità di !

Modello della scelta razionale

ORDINE

Modello a sistemi aperti Modello di auto-governance

Modello gerarchico Si basa sulla costruzione di networks che favoriscano la partecipazione e

l’empowerment

Si basa sul rafforzamento del ruolo del volontariato e delle organizzazioni comunitarie per perseguire innovazione, capacità di scelta e flessibilità

Si basa sulla dimostrazione dell’efficacia delle procedure organizzative e di controllo amministrativo per ottenere in cambio finanziamenti o contratti

Si basa sull’accettazione di obiettivi politici di compromesso al fine di essere inclusi tra i decision-

maker DECENTRAMENTO CENTRALISMO, VERTICISMO INNOVAZIONE, CAMBIAMENTO

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adattamento orientata alle dinamiche interne». I network relazionali costruiti su reciprocità, cooperazione e fiducia sono la forma tipica di questo modello, in cui il ruolo di coordinamento è comunque in mano pubblica.

- Il modello di auto-governance «è imperniato su processi di differenziazione e decentramento» (Boccacin 2009, 34-35). Le decisioni sono prese da un complesso relazionale che include almeno processualmente tutti gli attori. In questo modello il ruolo del Terzo settore è fondamentale: la partecipazione diretta e la cittadinanza attiva sono promossi fortemente.

Il punto di vista di Boccacin e Rossi è sociologico, in particolare interessa l’apporto del Terzo settore alle PPP. Se si rilegge la tabella 24, si capisce immediatamente che tali autori rientrano nel campo degli studi denominato experimental context. Le partnership sono, infatti, concettualizzate come campi innovativi e sperimentali per un nuovo modello di governo delle politiche sociali. Anche se la teorizzazione non è arrivata a pensare il sistema del welfare come un costrutto partenariale, il tragitto sembra segnato: oggi l’attenzione è soprattutto micro, ricercando e analizzando buone pratiche di servizi sociali svolte in partenariato; l’ottica è, però, bottom up. Ossia, in prospettiva gli studi dovranno rivolgersi a un modello di regolazione che dal micro passa al meso e poi al macro. Nella scia di queste considerazioni, il mio tentativo di analizzare i Distretti Famiglia e il progetto “Trentino - Territorio Amico della Famiglia” nella parte empirica di questa ricerca segna un possibile passaggio dalle partnership come contesti sperimentali di micro-pratiche alle partnership intese come forme meso- regolative innovative.

Una ulteriore annotazione mi sembra importante. Boccacin e Rossi hanno lavorato molto sulle pratiche partenariali concrete e ne hanno descritto i processi di formazione e di cambiamento. Le Nostre hanno tematizzato i meccanismi sociali che le plasmano come meccanismi automatici interno-esterno. Se le relazioni tra gli attori funzionano (buona governance interna), allora ad essa seguirà il funzionamento della pratica (buona pratica esterna). Se le relazioni interne tra i partner sono improntate alla reciprocità e alla sussidiarietà allora in

modo speculare verranno riverberate all’esterno: la creazione di una buona relazionalità interna muove anche verso l’esterno una pratica sociale costruttiva e relazionale. Essenzialmente, un capitale sociale interno di tipo bonding porterebbe ad un capitale sociale esterno di tipo bridging. L’idea del link interno-esterno è tipico della sociologia relazionale, ad esso però va posta una valutazione dei servizi ex-post che possa chiarire in termini empirici la bontà della pratica.

3.5. Le partnership in ottica sussidiaria: la norma integrativa della