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La programmazione sociale, il fallimento razionalistico del welfare state italiano e l’ipotesi welfare society.

LA MORFOGENESI DELLE POLITICHE SOCIALI E IL RUOLO DEL TERZO SETTORE NELL’ITALIA DEL SECONDO DOPO GUERRA

2.3. La programmazione sociale, il fallimento razionalistico del welfare state italiano e l’ipotesi welfare society.

«La libertà non è star sopra un albero, non è neanche avere un’opinione, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione»

Giorgio Gaber, La Libertà, 1972.

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17 «In un contesto di tale natura, si può ben comprendere come l’asse portante del nuovo sistema di “sicurezza sociale” dovesse restare la prestazione previdenziale, erogata secondo modalità fortemente segmentate e corporative. L’obiettivo primario era quello di mantenere o integrare lo status quo socio-economico conseguito con il lavoro, con l’intento dunque di preservare, prima ancora di modificare, la struttura della diseguaglianza sociale» (Girotti 1998, 281).

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L’analisi della morfogenesi della politica sociale in Italia non può che risalire agli anni Sessanta e Settanta, con una differenziazione sostanziale tra le due decadi18. Gli anni ’60 sono segnati dall’emergere di una richiesta diffusa di riforma, dal mutamento dello scenario politico italiano, dall’effervescenza dei movimenti ecclesiali e di protesta. Gli anni ’70 sono riconosciuti come il momento focale delle riforme sociali in Italia, della regionalizzazione del sistema e contemporaneamente del fallimento razionalistico del welfare state. Il primo decennio è importante soprattutto per il progetto culturale universalista che veniva elaborato, meno per le sue realizzazioni; la seconda decade era segnata dalla svolta riformista, attiva nel pensiero e nelle pratiche concrete eppure disarticolata negli esiti. In questi anni si affermavano logiche assistenziali diverse da quelle precedenti: diminuiva l’importanza dell’assistenza privata e istituzionale, aumentava invece l’impronta pubblica, in particolare l’attore principale di politica sociale diveniva l’istituzione-Regione. Alla fine di questo periodo morfogenetico, il profilo istituzionale del welfare state italiano appariva profondamente cambiato: 1. Il settore previdenziale si presentava più forte: forniva una protezione più robusta ed erogava prestazioni collegate alle retribuzioni e indicizzate al costo della vita pur rimanendo ancora legato al sistema occupazionale;

2. Il settore assistenziale era stato regionalizzato, eliminando un buon numero di enti assistenziali nazionali e interregionali, inoltre aveva espanso le proprie competenze aprendosi alle problematiche familiari, ai servizi educativi, all’handicap, alle tossicodipendenze.

3. La sanità era il campo di prova dell’“universalismo all’italiana” (Ferrera 1993): per la prima volta il paese si confrontava con il tentativo di assicurare un diritto universale alle prestazioni sanitarie.

Assistenza e sanità non avevano più un carattere centralistico ma localistico; la previdenza continuava il suo passaggio, seppur in parte ancora incompiuto, dall’assicurazione sociale alla sicurezza sociale.

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18 «Solo nella seconda metà degli anni ’60 si comincia ad evidenziare l’esigenza di una riforma, che comunque in più di dieci anni non ha registrato che passi avanti parziali. Il più rilevante momento di innovazione, rappresentato dalla costituzione delle regioni a statuto ordinario e dal trasferimento ad esse dalla Stato delle funzioni amministrative nelle materie di competenza regionale, subisce un grosso ridimensionamento per il modo in cui viene attuato» (Bassanini et alii 1977, 50).

Fino ai primi anni Settanta, il principio del pluralismo istituzionale fu disatteso, e con esso le organizzazioni di Terzo settore «rimasero poco sviluppate, svolgendo semplicemente funzioni di advocacy, a vantaggio, soprattutto, degli associati» (Borzaga e Ianes 2006, 47). Nelle politiche sociali erano assenti le organizzazioni non profit a carattere imprenditoriale. Le poche realtà non lucrative presenti anziché divenire luoghi di libera organizzazione e di stimolo finirono per essere funzionali a una logica che in diversi osservatori hanno chiamato «colonizzazione della società civile» o «colonizzazione dei mondi vitali» (Habermas 1975, Ardigò 1980). Ciò fu dovuto come nelle quindicennio precedente al «contesto di forte contrasto ideologico in cui essere erano inserite» (Borzaga e Ianes 2006, 48): forze partitiche e Chiesa cattolica costituivano un ambiente abilitante e costringente per il Terzo settore italiano. Gli anni Settanta segnarono, invece, la svolta. Il Terzo settore iniziava la sua fase pionieristica: nascevano le prime cooperative di solidarietà, molto legate al territorio, con un rapporto personale con i propri soci, fortemente critiche verso i servizi socio- sanitari «concepiti come statici, gerarchici, non partecipativi, non capaci di leggere i nuovi bisogni». Il privato sociale si auto-convocava, gestiva assemblee pubbliche, rifletteva sulla società ed esprimeva un «desiderio di autogestione e di organizzazione di sfere di vita non istituzionalizzate e burocratizzate» (Prandini 2010a, 99). Sullo sfondo della crisi del welfare state sorgeva una spinta innovatrice che partiva dalla società civile. «I dati sono significativi: tra il 1970 e il 1980 si costituiscono circa 22.000 associazioni. Questa realtà, ai più sconosciuta, emerge per la prima volta con la mobilitazione seguita al sisma irpino del novembre 1980» (Silei 2011, 3).

Morfogenesi: dagli anni Sessanta agli anni Settanta PES

Proprietà emergenti di secondo ordine: da incompatibilità necessarie a incompatibilità contingenti

Logica situazionale: da compromesso a eliminazione PEC

Proprietà emergenti di secondo ordine: contraddizioni competitive Logica situazionale: eliminazione – pluralismo – separazione

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A livello strutturale, il periodo che copre gli anni Sessanta e Settanta può essere definito come morfogenetico. La fine del centrismo, in seguito agli scontri successivi alla formazione del governo Tambroni e al conflitto sociale nelle fabbriche, e l’inizio dei primi governi di centro-sinistra, dopo l’apertura dei socialisti e dei democristiani ad un governo che rappresentasse anche la componente operaia, segnavano una forte svolta istituzionale. Il centro-sinistra fu una ulteriore occasione mancata (Lanaro 1992, Crainz 2005a): le attese erano elevate proprio perché il centro-sinistra fu «l’unico esperimento progettato con qualche chiaroveggenza, provvisto di input strategico e preceduto da una discussione di ragguardevole dignità culturale» nell’Italia postunitaria (Lanaro 1992, 307-308). Il Convegno nazionale di studio della Democrazia Cristiana a San Pellegrino nel 1962, la Nota aggiuntiva alla Relazione sulla situazione economica del paese, del 1962, redatta dal Ministro del Partito Repubblicano, Ugo La Malfa, la Relazione preliminare sulla riforma della previdenza sociale compiuta dal Cnel nel 1963, la Commissione nazionale per la programmazione economica con il Rapporto finale scritto nel 1964 dal suo vicepresidente democristiano Pasquale Saraceno, infine il Programma economico per il quinquennio 1966-70, stilato dal Ministro socialista Giovanni Pieraccini ed approvato dal parlamento nel 1967, costituivano l’architrave del progetto riformatore del centro-sinistra. Due elementi ne facevano da cardini: la programmazione economico-sociale e la proposta universalista.

L’impostazione keynesiana del centro-sinistra prevedeva una forte connessione tra politica economica e politica sociale: la scuola, l’istruzione, l’assistenza sanitaria e la previdenza sociale divenivano una condizione necessaria per lo sviluppo produttivo19. La creazione di nuovi servizi si poneva come “riforma di struttura” che potesse garantire l’integrazione del paese. Si ribaltava l’impostazione liberista dei governi degasperiani, secondo cui prima occorreva che l’Italia crescesse in termini economici e poi si sarebbe agito anche nel campo dei bisogni sociali ingenerati da questa espansione.

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19 La svolta fu possibile perché nella Democrazia Cristiana «avevano definitivamente prevalso le posizioni dei fautori di una politica che puntasse, attraverso un accentuato ruolo della Stato nell’economica, a superare le arretratezze ancora presenti in campo economico e sociale» (Silei 2004b, 197): Amintore Fanfani ed Aldo Moro rappresentarono emblematicamente questa possibilità.

Questo periodo è considerato il terzo tentativo universalista del welfare italiano (Ferrera 1993), dopo le prove di inizio Novecento e la Commissione D’Aragona. Le proposte ministeriali suddette, seppur diverse tecnicamente tra loro, configuravano un sistema nazionale di sicurezza sociale, imperniato su un regime pensionistico di base erga omnes e un servizio sanitario per tutti. Anche a livello assistenziale prendeva piede il principio dell’universalismo delle prestazioni, «fino a sollecitare il superamento del criterio di povertà quale condizione di accesso ai servizi sociali» (Girotti 1998, 285).

Eppure la stagione della programmazione sociale, almeno negli anni ’60, fallisce: le realizzazioni non sono all’altezza dei propositi. Solo l’istituzione della scuola media unica nel 1962 e della scuola materna statale nel 1968 sono riforme di rilievo20. Ad esse si può affiancare la legge Mariotti che disponeva la separazione tra attività assistenziali e sanitarie. Eppure, l’ambito assistenziale proprio in quegli anni vedeva le istituzioni totali crescere in quantità e in numero di assistiti. La legislazione era «legata ad una nozione prevalentemente riparatoria della funzione assistenziale» (Bassanini et alii 1977, 89). Gli interventi venivano, innanzitutto, determinati in base alle situazioni di bisogno abbinate alle posizioni categoriali delle persone da aiutare. I criteri utilizzati per dividere in categorie la popolazione italiana erano «l’appartenenza ad un determinato corpo od arma (carabinieri, guardie di finanza, militari dell’aeronautica), la professione (medici, insegnanti medi, maestri elementari), la residenza (residenti all’estero, residenti nelle zone di confine, residenti nel mezzogiorno d’Italia), ovvero nella combinazione del criterio del bisogno con quello dell’appartenenza» (Ibidem, 90). Emblematico era il caso degli orfani, raggruppati in 15 categorie21, a cui corrispondevano altrettanti enti erogatori. Alla categorizzazione si aggiungeva la frammentazione del bisogno: i minori erano, ad esempio, distinti tra legittimi e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

20 Particolarmente importante fu l’istituzione della scuola media unica: sino ad allora veniva, infatti, imposta la scelta tra avviamento professionale e prosecuzione degli studi già dalla fine delle scuole elementari. Con la scuola media si pose, così, fine ad una «precoce selezione classista» (Girotti 1998, 286).

21 Eccone un elenco: Orfani di dipendenti dello Stato, orfani di militari dell’Arma dei Carabinieri, orfani di marinari morti in guerra, orfani di Agenti di Custodia, orfani di militari della Guardia di Finanza, orfani di militari di carriera nell’Esercito, orfani di aviatori, orfani di sanitari, orfani di guerra, orfani di dipendenti dello Stato morti per causa di servizio, orfani in genere, orfani di vigili del fuoco, orfani di lavoratori italiani caduti di guerra, orfani di operai morti sul lavoro, orfani di guerra anormali psichici.

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illegittimi, irregolari e malati di mente. A questa frammentazione corrispondeva una nuova moltiplicazione degli enti che, ancora una volta, erano responsabili settorialmente dell’intervento.

Le proposte di modifica di tale sistema particolaristico costituivano la via italiana alla programmazione. La modalità di intervento della programmazione sociale era direttiva, l’impostazione top down, l’idea alla base illuministica: l’Italia per svilupparsi aveva bisogno di copiare il modello beveridgiano. Il modello si fondava essenzialmente «sulla distribuzione pubblica di servizi universalistici, al di fuori del mercato e sulla esclusiva base del bisogno sociale esistente» (Ranci 2004, 33). In modo astratto si riteneva che le condizioni strutturali e culturali non avessero un impatto forte sui sistemi di welfare e che così si potesse copiare altre formule senza contestualizzarle.

Perché non funzionò il centro-sinistra negli anni ’60? Due sembrano essere i motivi centrali del fallimento: uno politico e l’altro istituzionale. Ferrera e Silei centrano essenzialmente le difficoltà del centro-sinistra sull’esiguità dell’asse democristiani-socialisti. Dal punto di vista della rappresentanza degli interessi sociali e materiali in gioco, il centro-sinistra non poteva contare su alcune forze che premevano per il cambiamento, e che proprio per la loro esclusione dal governo si arroccavano in una politica difensiva. Quando, ad esempio, il Pci sposò la linea Amendola, la convergenza «rosso-romana» poté sembrare la chiave di volta per una «de-polarizzazione ideologica» e una «de-segmentazione subculturale» che poteva portare all’universalismo previdenziale (Ferrera 1993, 265). Rispetto alle esperienze europee, «mancò al centro-sinistra quella collaborazione con la maggioranza delle forze sindacali che aveva permesso politiche di concertazione e, soprattutto, la compartecipazione nella formulazione e gestione delle politiche di welfare» (Silei 2004b, 224). Girotti aggiunge a questa spiegazione un dato istituzionale: le amministrazioni centrali dello stato e gli apparati ministeriali erano fortemente contrari alle riforme, viziati com’erano di logiche verticistiche e burocratiche. Le resistenze opposte dalla burocrazia del vecchio sistema assistenziale avevano facile gioco contro una coalizione riformista molto esigua.

In questo quadro fortemente frammentato interviene un evento storico epocale, il movimento collettivo del ’68, che avrà notevoli conseguenze anche a livello di politiche sociali. La spinta della programmazione sociale «all’universalismo e alla razionalizzazione dal “centro” si scontra […] con le turbolenze del ’68, cioè di una esplosione di culture e pratiche di vita contro il “sistema”. Lo scontro è tra chi ha potere (le élite sedimentate nel ventennio precedente) e gli esclusi (la maggioranza non più silenziosa, ai tempi simbolicamente rappresentata dal movimento operaio e dagli studenti)» (Prandini 2010a, 97). I movimenti collettivi, impersonificati da gruppi svantaggiati (donne e giovani) o perdenti (riformisti radicali) nel campo delle politiche sociali, aumentavano la loro influenza sul sistema scolastico e sui servizi sociali22. Erano soprattutto i movimenti studenteschi e femministi ad occuparsi dello Stato sociale: ad un interesse puramente istituzionale, se ne aggiungeva ora - e spesso se ne contrapponeva - uno simbolico. Il welfare state era interpretato come una possibile fuoriuscita dalle diseguaglianze strutturali che affliggevano il Paese, non più secondo le logiche di libertà dal bisogno e di uguaglianza delle opportunità – recenti conquiste terminologiche del centro-sinistra italiano – ma in una «diversa ripartizione dei costi dello sviluppo tra le classi e i gruppi sociali». L’attuazione era ancora più difficile dell’intenzione: «produrre sostantive trasformazioni nell’assetto amministrativo e nei processi decisionali pubblici per emancipare dal controllo dei poteri centrali una nuova dimensione – decentrata e partecipata – dello stato, simmetrica ma a ben vedere non meno utopica (e per molti aspetti velleitaria) di quella implicita nella visione illuministica della fase precedente» (Girotti 1998, 295). Il movimento collettivo entrava allora nelle istituzioni totali e negli enti assistenziali e sviluppava una nuova filosofia di intervento, le cui parole chiave erano de-istituzionalizzazione e de-medicalizzazione della cura. Questi concetti erano resi positivamente richiedendo la territorializzare di servizi centrati «sull’assistenza domiciliare, sulla conservazione e valorizzazione dell’ambiente di vita, sulla unitarietà e globalità di interventi mirati in primo luogo alla !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

22 Guido Crainz ha messo in luce come matrici culturali diverse si saldavano insieme. Il mondo cattolico e il movimento studentesco si contaminavano: «È da don Milani, non da Marx o da Gramsci, che il movimento studentesco trae la sua definizione di politica: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”» (Crainz 2005b, 239).

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prevenzione, sul superamento della tradizionale passività dell’utente» (Ibidem, 296). Organizzativamente si assisteva ad una nuova progettualità partecipata, autogovernata, con un forte accento paritario nel flusso delle informazioni e delle conoscenze. Questa forza culturale propulsiva si legava istituzionalmente al decentramento regionale. Valorizzare il rapporto con la società locale in una prospettica di valorizzazione delle energie liberate dalla stagione dei grandi mutamenti tra il 1968 e 1977 era la sfida più importante del momento (Bressan 2009, 81).

Qualcosa iniziava, quindi, a cambiare a partire dai movimenti sociali del 1968. Nel decennio 1968-1978 ogni settore della politica sociale subiva una profonda trasformazione:

• Il settore sanitario veniva completamente modificato: prima gli ospedali da IPAB divenivano enti pubblici, soggetti a maggiori controlli statali, affidati a consigli di amministrazione nominati dagli enti locali e vincolati dal pareggio di bilancio, successivamente si realizzavano almeno a livello legislativo le Unità sanitarie locali (USL), strutture operative e gestionali su base territoriale che unificano i presidi sanitari in un ottica di integrazione con i servizi socio- assistenziali, infine veniva promulgata la legge 833/1978 che introduceva il Servizio Sanitario Nazionale. I principi cardine della legge erano la logica universalistica, il principio dell’uguaglianza di trattamento e della prevenzione e il requisito della partecipazione (Girotti 1998, 308-309).

• Il cosiddetto patto previdenziale (1968-1975) garantiva il definitivo passaggio dal meccanismo a capitalizzazione al sistema a ripartizione. Inoltre estendeva la copertura a categorie non ancora tutelate e modificava in modo migliorativo i metodi di calcolo su base retributiva e i meccanismi di indicizzazione. Il risultato finale era sicuramente un miglioramento della tutela pensionistica che, però, portava con sé l’inizio della spirale fiscale23. Il sistema previdenziale italiano rimaneva in sostanza legato alla posizione occupazionale, prevedendo come misura universalistica le pensioni sociali per gli ultrasessanticinquenni.

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23 «Ciò che tuttavia mancò, in quel contesto, fu la consapevolezza del fatto che un sistema a ripartizione deve saper costantemente riprodurre la propria legittimazione, che trae alimento da una sostantiva solidarietà tra cittadini attivi e inattivi, tra lavoratori giovani e anziani ritirati dal lavoro, tra carriere contributive forti e debole» (Girotti 1998, 291).

• Nel campo assistenziale, alle spinte dei movimenti collettivi si univa la forte rivendicazione sindacale ed operaia: la maternità e l’infanzia, l’handicap, i consultori familiari, la tossicodipendenza, la malattia mentale erano i nuovi campi di intervento. Si dava vita ad una legislazione di settore composita, indirizzata alle situazioni di bisogno secondo le aree problematiche, come già avvenuto in passato. Cambiava, però, la modalità di guardare ai soggetti in stato di bisogno: ai disabili venivano garantiti, dopo decenni di esclusione, garanzie sanitarie, un reddito minimo e l’istruzione; nei servizi per la prima infanzia si usciva da un’idea delle strutture come luoghi di custodia dei minori per approdare ad una concezione pedagogica ed educativa degli asili; con la creazione dei consultori si andava incontro al bisogno di tutela della salute della donna e del bambino, dell’educazione sanitaria, della procreazione libera e responsabile; veniva creata una prima rete di centri specializzati nella riabilitazione e nella terapia per i tossicodipendenti; si chiudevano, sotto la spinta di una forte mobilitazione sociale e politica, gli ospedali psichiatrici. Perché le riforme negli anni ’70 riuscirono? I fenomeni sociali che si erano opposti al dispiegamento del riformismo negli anni Sessanta furono ribaltati dieci anni dopo: la debolezza dei governi di centro-sinistra era arrivata al suo apice, eppure le pressioni di gruppi organizzati di interessi ideali e materiali controbilanciavano questa debolezza con pressioni dal basso per l’estensione dei diritti sociali. Lo stesso Partito Comunista, dopo la Primavera di Praga, aveva maturato un’apertura nei confronti della compagine di governo, con il famoso articolo di Berlinguer del 1973 sul compromesso storico. A ciò si deve aggiungere che i vecchi retaggi assistenziali e centralistici erano stati superati grazie alla forte spinta regionalista. La classe dirigente al governo aveva deciso che era meglio disperdere le tensioni dovute alla mobilitazione collettiva, piuttosto che concentrarle. Si faceva strada «l’idea che fosse preferibile una scomposizione orizzontale del conflitto su diverse arene territoriali, dotate ognuna di autonome capacità di mediazione e compensazione» (Girotti 1998, 297). Così venivano attivate le Regioni nel 1970 e due anni dopo ne venivano trasferite le prime funzioni amministrative sulla beneficenza pubblica (la vigilanza sugli ECA, sulle IPAB, sulle istituzioni private di assistenza). In una dura lotta tra importanti

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settori del governo e dell’amministrazione centrale e il fronte regionalista, quest’ultimo prevalse ottenendo una ri-articolazione dei compiti degli attori pubblici (Stato, Regioni, Comuni). Lo Stato manteneva funzioni di indirizzo e coordinamento, alle Regioni (legge 382/1975) venivano affidate funzioni di legislazione, programmazione e organizzazione, i compiti amministrativi e più direttamente gestionali erano invece delegati ai Comuni24. Alcune leggi, durante gli anni ’70, testimoniavano l’importanza della competenza regionale:

- legge 1044/71 “Piano quinquennale per l’istituzione di asili nido comunali con il concorso dello Stato”: la legge affidava alle Regioni il compito di determinare i criteri di costruzione e gestione del servizio, fissando alcuni principi guida vincolanti per i Comuni che volevano istituirlo;

- legge 405/75 “Istituzione dei consultori familiari”: la legge attribuiva alle Regioni la competenza in ordine alla fissazione dei «criteri per la programmazione, il funzionamento, la gestione e il controllo del servizio» (art. 2);

- legge 685/75 “Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”: «Le funzioni di prevenzione ed intervento contro l'uso non terapeutico delle sostanze stupefacenti o psicotrope, al fine di assicurare la diagnosi, la cura, la riabilitazione ed il reinserimento sociale delle persone interessate, sono esercitate dalle Regioni» (art. 2);

- legge 698/75 “Scioglimento e trasferimento delle funzioni dell’Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia”: la legge trasferiva alle Regioni le funzioni amministrative e di programmazione detenute dall’ONMI, nonché tutti i poteri di controllo sulle istituzioni per l’assistenza alla maternità e all’infanzia.

Nel 1977, inoltre, venivano accorpate le competenze prima disperse in una dozzina di ministeri ed erano sciolti gli enti assistenziali nazionali (come ONMI,

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24 «Alla regione viene soprattutto conferita una funzione di programmazione e indirizzo per la riorganizzazione dei servizi. A tal fine viene ad essa riconosciuto il potere di determinare gli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi sociali» (Bassanini et alii 1977, 59).

ENAOLI, ENPMF)25, gli ECA e i Patronati scolastici, assegnando i patrimoni e il personale di tali enti alle Regioni e ai Comuni. Con la riforma sanitaria dell’anno