LA MORFOGENESI DELLE POLITICHE SOCIALI E IL RUOLO DEL TERZO SETTORE NELL’ITALIA DEL SECONDO DOPO GUERRA
2.5. Il problema finanziario dello Stato, il welfare mix e la società civile.
“Anziché alzare tutte le barche, la crescita ha alzato solo gli yacht”
Robert Reich
Le politiche sociali in Italia compiono un salto di qualità negli anni Novanta. Con un’espressione piuttosto abusata si potrebbe definire questo decennio come l’approdo al welfare mix (Colozzi 1994, Donati 1998, Ascoli 1999, Ranci 1999a). Di fianco all’attore statuale iniziano ad operare, non in modo solamente subalterno, altri soggetti (Terzo settore e mercato). Questa dinamica è attivata non solo nelle politiche assistenziali, campo tradizionale del self help, ma anche nel settore pensionistico e sanitario. Inoltre, gli anni Novanta sono riconosciuti come una svolta «rispetto alla logica eminentemente distributiva ed incrementale che
(SS) Stato e Regioni in competizione (SC) Programmazione sociale vs de-istituzionalizzazione T1
(IS int) Attivismo espansivo delle Regioni irrobustimento del Terzo settore
(IS ext) Controllo della spesa pubblica (S-C) competizione tra sub-culture cattoliche e laiche
T2 T3
Logica del “divide et impera”, particolarismo autonomo motore del sistema
T4
Protezione Eliminazione
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fino ad allora aveva caratterizzato il policy making italiano» (Fargion 2004, 383). Sono, quindi, due gli orientamenti innovativi: uno riguarda il processo regolativo del welfare, l’altro la logica modale con cui ragiona il sistema.
1. Assistenza: il riconoscimento giuridico di cooperative sociali, associazioni di volontariato, associazionismo di promozione sociale e la legge sulle Onlus permettono una differenziazione dell’offerta e della modalità di cura; l’introduzione di nuove prestazioni a tutela degli outsiders caratterizzano per la prima volta il sistema italiano secondo il principio dell’universalistico selettivo.
2. Previdenza: le riforme di questi anni configurano un sistema a tre pilastri, pubblico-privato, con un ruolo decisivo dei fondi pensionistici categoriali; inoltre segnano il passaggio, seppur parziale, al sistema contributivo, garantendo una maggiore stabilità futura alle pensioni italiane.
3. Sanità: la spesa sanitaria viene posta sotto controllo; dopo il periodo di aziendalizzazione delle Usl segue l’introduzione di meccanismi di “competizione amministrata”, con il tentativo di separare maggiormente settore pubblico e libera professione.
Gli anni Novanta sono il secondo periodo morfogenetico della storia delle politiche sociali in Italia. La spinta esterna e sovranazionale è molto forte (vincoli europei al bilancio statale e percorso per l’introduzione dell’euro), la ripresa del ruolo politico è invece molto debole (fine della Prima Repubblica e infinita transizione alla Seconda), mentre prende sempre più consistenza, soprattutto nell’erogazione di servizi, il mondo del Terzo settore.
Morfogenesi: anni Novanta PES
Proprietà emergenti di secondo ordine: da compatibilità necessarie a incompatibilità contingenti
Logica situazionale: da protezione a eliminazione PEC
Proprietà emergenti di secondo ordine: da complementarietà concomitanti a contraddizioni competitive
Logica situazionale: da protezione a eliminazione
Dal punto di vista istituzionale, il decennio si apriva con un grande cambiamento: a seguito dello scandalo di Tangentopoli, il sistema dei partiti che aveva retto l’Italia per più di quarant’anni si frantuma. Erano gli anni della scomparsa della Democrazia Cristiana, della rottura del Pci da cui nascevano Pds e Rifondazione Comunista, dell’ascesa della Lega Nord. L’indagine di Mani pulite aveva inizio proprio da un caso di mala gestione e di corruzione di una IPAB, il Pio Albergo Trivulzio di Milano. Gli anni seguenti furono un susseguirsi di eventi drammatici: le stragi di Mafia, il fallimento dei sistemi monetari europei con la conseguente uscita dell’Italia dallo SME, i governi di “salvezza nazionale” di Amato e Ciampi. L’Italia visse una forte emergenza pubblica sino alla seconda metà degli anni Novanta. Proprio per questo i politologi e gli storici dividono il decennio in due parti (Fargion 2004, Silei 2004b): i primi 5-6 anni furono segnati dai governi tecnocratici che, anche per la produzione legislativa nel campo sociale, agivano con il vincolo di ripianare il debito pubblico in modo deciso ed immediato ed infatti si soffermavano soprattutto sul sistema previdenziale; gli ultimi 5 anni (1996-2001), che vedevano per la prima volta gli eredi della stagione comunista al governo, si caratterizzavano per la ripresa del ruolo dei partiti che agivano vincolati dal rispetto dei parametri europei di Maastricht e con la volontà di proseguire l’opera di modernizzazione dello Stato, ed anche l’iniziativa sul welfare si concentrava maggiormente sul comparto assistenziale. Cerchiamo, allora, di seguire questa ripartizione temporale: 1991-1996, 1996-2001.
I governi tecnici lavoravano su due fronti: pensioni e sanità. L’ottica era quella del contenimento delle spese: le pensioni costavano, infatti, il 12,8% del Pil nel 1992 e le proiezioni al 2040 erano allarmanti (23,4% del Pil). Allo squilibrio finanziario si aggiungeva l’iniquità redistributiva che, per l’esasperazione del sistema contributivo, accentuava le diseguaglianze, premiando le carriere più precoci e continue (Fornero e Castellino 2001). Dopo il blocco delle pensioni di anzianità (l. 438/1992), la negoziazione tripartita (governo - sindacati – Confindustria) portò alla legge delega per la riforma (l. 421/1992), con un duplice obiettivo: riformare il primo pilastro pensionistico, contenendo i costi e armonizzando le regole per dipendenti pubblici e privati; sviluppare i pilastri pensionistici complementari a capitalizzazione, delineandone due forme (i fondi
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chiusi e i fondi aperti). La vera svolta riformistica avvenne nel 1995 con la legge 335, detta riforma Dini. Si cambiava il metodo di calcolo della pensione (dal retributivo al contributivo), si flessibilizzava l’età pensionistica (tra i 57 e i 65 anni), si armonizzavano gli schemi tra dipendenti pubblici, privati e autonomi. Le riforme pensionistiche italiane degli anni ’90 avevano agito su due fronti: «1. La riduzione del ruolo del sistema pensionistico pubblico a ripartizione nel mantenimento del reddito nella fase post-lavorativa; 2. Lo sviluppo di forme pensionistiche complementari fondate sul principio della capitalizzazione e che si affidano ai meccanismi del mercato. Nella sostanza l’Italia ha intrapreso, con più decisione rispetto agli altri paesi europei di derivazione bismarckiana, una transizione da un sistema pensionistico mono-pilastro a ripartizione ad un sistema pensionistico multi-pilastro, fondato sull’integrazione tra schemi pubblici a ripartizione e schemi pensionistici a capitalizzazione, deviando in tal mondo dal sentiero istituzionale intrapreso nel corso del XX secolo» (Ferrera 2006, 87). Alla
fine di questi cinque anni la previdenza italiana aveva cambiato volto: era più equa e sostenibile in prospettiva futura, aveva ritoccato alcuni dei privilegi passati e, seppur nel lungo periodo, poteva liberare risorse pubbliche per altre spese sociali.
Negli stessi anni, nel campo della sanità sì dava avvio alla “riforma della riforma”, incentrata su di un progetto aziendalistico, seguendo criteri manageriali e di impresa, razionalizzando i servizi e riprivatizzando alcune aree (l. 35/1991, d.lgs 502/1992). Nascevano l’Azienda USL e l’Azienda Ospedaliera, ricoprivano un ruolo preminente le Regioni e non più i Comuni, la figura centrale diveniva quella del Direttore Generale. Alcuni aspetti salienti della cosiddetta “riforma della riforma” sono ben sintetizzati da Girotti (1998, 314-315) (si veda anche tabella 18):
- l’abbandono dell’impostazione politica-partecipativa degli anni Settanta per la riscoperta di una forte tecnicità delle decisioni.;
- l’accorpamento delle USL esistenti per corrispondere alle dimensioni di scala richieste dalla riscoperta centralità dei presidi ospedalieri e diagnostico- terapeutici;
- lo scorporo e la trasformazione, in aziende autonome, degli ospedali di maggiore importanza e prestigio;
- la responsabilità finanziaria delle regioni;
- l’introduzione nel SSN di elementi di mercato, con meccanismi di tariffazione standardizzata delle prestazioni e una preliminare distinzione tra enti committenti di servizi e prestazioni (le nuove aziende USL) e enti produttori- erogatori di servizi e prestazioni (le Aziende sanitarie ospedaliere, le strutture operative delle aziende sanitarie territoriali, le strutture private accreditate), con un impegno a garantire la libertà di scelta, per il cittadino, del luogo di cura preferito.
SSN prima della riforma SSN dopo la riforma Cultura • garantire la salute
• dare tutto a tutti
• risorse teoricamente infinite
• garantire i livelli uniformi di assistenza
• risorse definite • aziendalizzazione
Organizzazione • USL e USSL
• Ospedali autonomi • forte integrazione • ASL e AO • distretti • dipartimenti Gestione • politica • ente locale • manageriale • regione
Finanziamento • a pié di lista • per quota pro capite (ASL)
• per tariffe e DRG (AO)
Tabella 18 – Riforma del SSN (d.lgs 502/1992)
Nel 1994 la proposta di riforma Garavaglia dava seguito a questi procedimenti, rimodulando i ticket e le fasce di esenzione, con l’obiettivo di contenere la spesa sotto i 10.000 miliardi di lire. I cittadini venivano divisi in tre fasce di reddito: esenti, autocertificati ed abbienti. Si confermava quindi l’idea di un universalismo selettivo, con l’attiva e diretta partecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria.
Per capire il funzionamento degli anni ’90, ci possiamo appoggiare all’analisi politologica (Fargion 2004, Ferrera 2006). Essa ha giocato su due fattori: i vincoli politici e le opportunità istituzionali. I processi di scomposizione e ricomposizione del quadro politico italiano facevano da sfondo all’opera dei governi tecnici e li spingevano a cercare un sostegno nelle parti sociali (sindacati e associazioni di
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rappresentanza) per legittimare la propria azione. La debolezza politica di Amato, Ciampi e Dini veniva controbilanciata dalla negoziazione tripartita. Allo stesso tempo gli stessi sindacati e Confindustria avevano bisogno di un appoggio politico per rileggittimare la propria azione: CGIL, Cisl e Uil scontavano una forte emorragia di iscritti, ed inoltre la maggioranza degli iscritti erano pensionati; gli imprenditori erano stati coinvolti negli scandali di Tangentopoli e avevano perso una parte della loro credibilità. In questo scenario, «la concertazione rappresentava una prospettiva appetibile sia per il governo sia per le parti sociali, poiché offriva la possibilità di un sostegno e di una legittimazione reciproca nell’assunzione di decisioni controverse» (Fargion 2004, 385). Ciò è confermato da tre eventi:
- i sindacati non protestarono contro la Riforma Amato delle pensioni che, pur prevedendo un intervento più incisivo di quello prefigurato mesi prima, concesse l’eliminazione di alcuni provvedimenti (stralcio dell’innalzamento degli anni di contribuzione e del blocco degli adeguamenti automatici) (Ferrera 2006, 89-90);
- la riforma previdenziale del primo governo Berlusconi fallì proprio perché, senza concertazione, volle cambiare le pensioni di anzianità, gli importi delle prestazioni, il meccanismo di indicizzazione (Ibidem 93-94);
- Dini, per non alienarsi il confronto con i sindacati, scelse di rispettare i diritti acquisiti e procedere quindi ad un dilazionamento temporale degli esiti positivi della norma; inoltra rispettò il potere decisionale delle parti nei fondi chiusi non includendo il trasferimento obbligatorio per il Tfr (Ibidem 97-98).
I governi tecnici, oltre a sfruttare i vincoli politici, riuscirono anche a servirsi delle opportunità istituzionali. Per la prima volta nella storia italiana, il governo Amato utilizzò la finanziaria come strumento per inserire riforme di sistema. «Nel giro di pochissimi anni la finanziaria è stata sottratta alle mani dei parlamentari e trasformata da canale di soddisfazione delle pressioni più disparate – che non a caso aveva prodotto la metafora dell’attacco alla diligenza – nel principale strumento di realizzazione delle priorità del governo» (Fargion 2004, 386). I vincoli e le opportunità del periodo furono quindi sfruttate al meglio dall’azione dei tecnici, anche sotto la spinta europea di un ordine nei conti dello Stato. I
parametri di Maastricht del 1993 erano piuttosto severi per un paese “spendaccione” come l’Italia: tasso di inflazione non superiore al 3,1%; rapporto deficit/Pil non superiore al 3%; rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%.
I governi politici della XIII legislatura (Prodi, D’Alema I e II, Amato II) operarono, invece, sul comparto assistenziale. Gli anni Novanta furono, infatti, in tutta Europa il periodo di riforma dei servizi sociali: in particolare erano i paesi a regime occupazionale a dover affrontare i maggiori cambiamenti. E tra questi paesi i più in difficoltà erano quelli dell’Europa meridionale, in cui si era strutturata nel tempo una frattura maggiore tra insiders e outsiders, era stato prodotto un sistema di servizi alle famiglie disarticolato ed era mancata una politica concreta di lotta alla povertà. In Italia in particolare le uniche misure vigenti universalmente, alla soglia degli anni ’90, al di là del comparto sanitario, erano la pensione sociale e la pensione di invalidità civile. A complicare il quadro, si deve sottolineare l’ampia frammentarietà dell’azione regionale nel campo dell’assistenza. Ad aprire, allora, la strada per le riforme era la costituzione - sul modello degli anni della programmazione sociale - di una commissione di studio, pochi mesi dopo l’insediamento del governo Prodi. Il compito della commissione era proporre una riforma organica della spesa sociale, partendo dalla constatazione che «poco meno dei due terzi della spesa per la protezione sociale è costituito da pensioni e rendite […] Mentre la spesa per la sanità ha raddoppiato in trentacinque anni il suo peso in termini di Pil e quella per assistenza l'ha leggermente ridotto, la spesa per pensioni e rendite si è moltiplicata quasi per quattro» (Commisione Onofri 1997, 4)36.
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36 Interessante, soprattutto per l’apporto del mondo scientifico al processo di costruzione di un nuovo welfare è la composizione della Commissione Onofri. Ne facevano parte, oltre a Paolo Onofri, in veste di presidente, Paolo Bosi, Maurizio Ferrera, Giovanni Geroldi, Massimo Paci, Nicola Rossi, Ornello Vitali e Stefano Zamagni, insieme a rappresentanti di dicasteri e amministrazioni centrali: Stefano Parisi e Efisio Espa (presidenza del Consiglio dei ministri), Francesco Massicci (ministero del Tesoro), Emilio Del Mese (ministero dell’Interno), Massimo Antichi (ministero del Lavoro e della Previdenza sociale), Nicola Falcitelli (ministero della Sanità), Chiara Saraceno (ministero della Solidarietà sociale), Franca Bimbi (ministero per le Pari opportunità), Angelo D’Angeli (Inps).
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Figura 12 – Uno schema esplicativo per le riforme degli anni Novanta (Ferrera 2006, 49)
I suggerimenti operavano su tre piani logici distinti:
- «la neutralizzazione delle tendenze di medio periodo all’aumento delle quote di spesa per la sanità e per le pensioni, a causa dell’invecchiamento della popolazione» Per quanto riguardava la sanità, ciò doveva avvenire attraverso la competizione tra produzione pubblica e privata di servizi sanitari, attraverso una più articolata compartecipazione alla spesa degli utenti e una maggiore autonomia finanziaria delle Regioni, cui doveva corrispondere la impossibilità di superare i vincoli di bilancio assegnati dal centro. Per quanto riguardava le pensioni, doveva avvenire attraverso la unificazione dei regimi pensionistici; - «la ricomposizione della spesa a favore di quella assistenziale per una
! ATTORI (capacità, orientamenti, modalità di interazione) QUADRO ISTITUZIONALE (valori, idee, norme, regole del gioco, assetti di policy)
Esterno (globalizzazione, transizione verso l’UEM) Interno
(crisi fiscale e transizione politico-istituzionale DINAMICHE DI RICAMBIO, SCAMBIO, CONCERTAZIONE E APPRENDIMENTO RIFORME
maggiore tutela del rischio economico di cadute del reddito individuale, di perdita del posto di lavoro e di perdita dell’autosufficienza; rischi fino ad allora sotto-tutelati». L’obiettivo era la protezione delle categorie sociali più deboli, per mezzo sia di una razionalizzazione e innovazione degli ammortizzatori sociali per il mercato del lavoro, sia della istituzione di un sistema di integrazione del reddito, sulla base dei principi del reddito minimo vitale; - «la riforma dell’assistenza doveva ispirarsi a una scelta equilibrata tra
universalismo, quanto ai beneficiari, e selettività nell’erogazione delle prestazioni, che non dovevano consistere solamente di erogazioni monetarie, ma anche di servizi da erogarsi da parte degli enti locali e delle regioni» (Onofri 2007, 7).
Gli strumenti operativi con cui la commissione propose di riformare il welfare italiano segnarono per i successivi dieci anni il dibattito politico e scientifico: reddito minimo di inserimento, assegni familiari universali, separazione della previdenza dall’assistenza, strumento nazionale per la misurazione dei redditi e dei patrimoni familiari, potenziamento del ruolo degli enti locali, servizi in kind e non in cash. I tentativi dei governi di centro-sinistra andarono in questa direzione (si veda tabella 19): la legge sulle Onlus (l. 460/1997); l’introduzione dell’Isee (l. 449/1997); la sperimentazione del reddito minimo di inserimento e il sussidio di povertà; la legge sulla tossicodipendenza (l. 45/99); le disposizioni per il sostegno alla maternità e alla paternità (l. 53/2000); la riforma dei servizi sociali (l. 328/2000) (si veda tabella 19).
Ambito Estensione copertura e nuovi diritti Prestazioni in denaro e agevolazioni fiscali Prestazioni in natura Nuovi standard nazionali Riorganizzazio ne e streamlining
Infanzia Fino a 11 mesi
di congedo parentale parzialmente pagati per genitori di bambini con meno di 8 anni Aumento detrazioni per figli (da 189mila lire nel 1996 a 516 mila lire nel 2001); più benefici per famiglie sotto soglia di reddito prestabilita Finanziamento su progetto per servizi flessibili 0- 3 anni e deistituzionaliz- zazione minori Standard strutture per minori Giovani Obbligo di istruzione esteso a 18 anni, mediante Finanziamento su progetto per integrazione interculturale Previsione raccordo tra sistema scolastico e
! 129 istruzione superiore o formazione professionale servizi per l’impiego, a fini di orientamento e monitoraggio
Disabili Due anni di
congedo pagato per genitori con figli gravemente disabili Contributi e agevolazioni fiscali per adeguamento macchinari, veicoli e altre apparecchiature speciali
Case famiglia Servizi di
assistenza domiciliare Inserimento lavorativo affidato a centri per l’impiego in base a capacità individuali Non auto-
sufficienti Assistenza domiciliare e
sostegno per modifiche ad abitazioni Assistenza a domicilio e caratteristic he strutture residenziali Maternità Assegni maternità per donne non coperte da assicurazione obbligatoria (entro una determinata soglia di reddito) Finanziamento a progetto per case famiglia destinate a madri sole Esclusione sociale Programma sperimentale di reddito minimo Assegno per la famiglie con tre o più figli con reddito sotto una determinata soglia Criteri standardizza ti per concessione di prestazioni soggette alla prova dei mezzi (Ise)
Tabella 19 - Categorie e rischi coperti dalle misure di politica sociale introdotte dai governi di centro-sinistra in Italia, 1996-2001 (rielaborazione da Fargion 2004, 394-395).
I governi di centro-sinistra non riuscirono, però, a utilizzare i vantaggi connessi con i vincoli politici del periodo: infatti, venuta meno la restrizione esterna dell’entrata nell’Euro, che aveva caratterizzato i primi anni del governo Prodi, ritornava con forza la centralità dei partiti. «A differenza del periodo 1992-96, nel corso della tredicesima legislatura l’esecutivo è diventato sempre più dipendente dal sostegno dei partiti, soprattutto via via che – raggiunto il fatidico traguardo nel 1997 – la pressione esterna connessa al processo di unificazione monetaria si è fatta meno incalzante, sottraendo al presidente del consiglio un’arma, che gli era stata estremamente utile per mettere in riga la sua maggioranza» (Fargion 2004, 386). Proprio per la centralità del contrattazione partitica e per l’assenza di un vincolo esterno, il governo perde la capacità di contrattare al rialzo con le parti
sociali. Gli studiosi individuano in questa mancanza di autorevolezza politica uno dei motivi della difficoltà ad implementare le riforme pensate nella Commissione Onofri. In effetti, i governi di centro-sinistra non riuscirono a sfruttare a loro favore la frattura dell’unità sindacale, anzi i partiti con le loro divisioni diedero forza al ruolo di veto players delle corporazioni ed, al contempo, dallo spostamento a destra di Confindustria non fu colta la necessaria forza per poter togliere alcuni privilegi alla classe industriale. Soprattutto dopo i tentativi dei Patti del Lavoro del 1996 e del Patto di Natale del 1998, l’azione riformatrice dei governi dell’Ulivo si affievolì. I governi politici della tredicesima legislatura riuscirono invece a sfruttare le opportunità istituzionali, segnando una forte discontinuità rispetto al passato. La logica parlamentare era stata capovolta in almeno due punti. In primis, dall’utilizzo di decreti legge, che dovevano sottostare entro 60 giorni all’approvazione del parlamento con conseguente contrattazione consociativa, si era passati alla legislazione per delega, anche grazie ad una sentenza della Corte costituzionale che aveva dichiarato incostituzionale la reiterazione dei decreti leggi. La legge delega dava maggiore importanza al ruolo del governo, con un parlamento in funzione di suggeritore dei punti nodali delle riforme. In secondo luogo, le dinamiche parlamentari erano diventate più conflittuali accentuando la contrapposizione tra maggioranza e opposizione, cosa che si è protratta sino ai nostri giorni. Proprio questa conflittualità maggioranza- opposizione era una buona arma per rinsaldare le fila, spesso riottose, delle coalizioni, sotto la minaccia di elezioni anticipate.
Proprio i vincoli e le opportunità analizzati precedentemente sono, secondo Ferrera, i “facilitatori” del processo riformista degli anni ’90 (figura 12) ed in particolare della riforma dell’assistenza del 2000 (figura 13). Nello schema sulla riforma dell’assistenza, Ferrera individua quattro fattori di cambiamento:
1. Le vecchie soluzioni non possono più reggere di fronte ai nuovi bisogni. L’impostazione categoriale dell’assistenza secondo cui le politiche erano rivolte a chi rientrava in un determinato bisogno o in una professione non rispondevano alle necessità di una società complessa, in cambiamento.
2. La coalizione categoriale che aveva protetto la frammentazione organizzativa e normativa aveva perso il proprio potere di veto. La caduta della Dc e
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l’indebolimento del sistema di assistenza beneficenziale legato alla Chiesa e alle IPAB avevano aperto la strada ad una nuova modalità di gestire l’assistenza, il Terzo settore, che per la sua eterogeneità non è mai riuscito a trasformarsi in un potente gruppo di interessi con poteri di veto.
3. L’emergere di un progetto istituzionale (Commissione Onofri e poi Commissione dei Nove) guidato da una coalizione politica portatrice di un’idea di riforma: in particolare il pensiero welfarista sviluppatosi negli anni ’70 e ’80 è riuscito, collegandosi con il primo governo di centro-sinistra della Seconda