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Il dualismo pubblico-privato, il neo-liberalismo e l’emergere del terzo settore.

LA MORFOGENESI DELLE POLITICHE SOCIALI E IL RUOLO DEL TERZO SETTORE NELL’ITALIA DEL SECONDO DOPO GUERRA

2.4. Il dualismo pubblico-privato, il neo-liberalismo e l’emergere del terzo settore.

Il convento è povero, ma i monaci sono ricchi Rino Formica

Gli anni Ottanta segnano la crisi conclamata del welfare state anche in Italia: lo scivolamento distributivo della politica sociale dura fino a questi anni e si sostanzia nell’asimmetria tra costi e benefici, in cui questi ultimi sono dispensati selettivamente e differenziati sulla base di categorie di appartenenza e i costi sono poco visibili e occultati da manovre politiche di addolcimento.

1. Il sistema previdenziale, che sul finire degli anni Settanta era stato al centro di un forte dibattito riformista sulla sostenibilità delle pensioni nel lungo periodo, non venne rivisto durante il decennio successivo. Anzi uno dei pochi interventi attuati fu espansivo, estendendo anche per i lavoratori autonomi il metodo retributivo.

2. La sanità italiana entrava in una profonda crisi in seguito all’attuazione della riforma del 1978: alla politicizzazione delle Usl, alle dispute tra livelli di governo, alla variabilità territoriale dell’attuazione, alla scarsa competenza del personale si devono aggiungere come fattori di crisi i vari tentativi di

contenimento delle spese e di aumento delle entrate che disegnarono complessivamente un sistema poco coerente ed altalenante.

3. Il comparto assistenziale italiano scontava ancora la non-regolazione nazionale sui diritti minimi da garantire, senza questo riferimento anche l’attuazione regionale dei decreti del 1977 fu frastagliata, diversa da territorio a territorio, disomogenea; i principali strumenti di contrasto alla povertà erano ancora le pensioni di invalidità e l’indennità di disoccupazione.

La crisi delle politiche sociali italiane non era, dunque, solo economica-fiscale o di legittimazione, era anche una crisi di intellighenzie politiche e scientifiche che, nel loro compito di ripensare i punti saldi e le conquiste del percorso italiano dal secondo dopo guerra in poi, non riuscirono a disegnare una prospettiva di sistema credibile e realistica. Coincidevano, così, il dispiegamento del mondo scientifico italiano e la sua scarsa incidenza riformistica. A ciò si aggiunse una classe dirigente ormai assuefatta alle logiche del potere spartitorio che trovò nel livello regionale uno spazio di azione ulteriore. In controtendenza si muoveva il corpo ancora un po’ deforme del Terzo settore: quegli anni erano, infatti, segnati dal diffondersi del volontariato e dal nascere delle cooperative di solidarietà.

Morfostasi: anni Ottanta PES

Proprietà emergenti di secondo ordine: da incompatibilità contingenti a compatibilità necessarie

Logica situazionale: da eliminazione a protezione PEC

Proprietà emergenti di secondo ordine: da contraddizioni competitive a complementarietà concomitanti

Logica situazionale: da eliminazione a protezione

Tabella 15 – Morfostasi (1978– 1991)

Dal punto di vista istituzionale, gli anni Ottanta si configuravano come un passaggio dal movimento morfogenetico a quello morfostatico: la crisi fiscale dello Stato, il potenziarsi del ruolo delle Regioni, la ripresa della centralità del mercato e l’emergere del Terzo settore riconfiguravano un sistema che era, sì, in crisi ma si apprestava a divenire maggiormente pluralistico. In Italia, gli ultimi anni Settanta furono i più cruenti della lotta armata condotta da gruppi extraparlamentari. Il sistema politico riuscì a rispondere, seppur con ritardo, con

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la formula transeunte della solidarietà nazionale. Finita l’emergenza di piazza, gli anni ’80 videro la crescita politica del Partito socialista di Craxi, che contribuì a formare il “pentapartito” con la Democrazia Cristiana, i liberali, i repubblicani e i socialdemocratici. Rispetto al centro-sinistra degli anni Sessanta, il pentapartito presentava alcune differenze: se prima la posizione dominante della Dc non era stata messa in discussione, ora i socialisti ponevano condizioni più dure per partecipare alla maggioranza, tra le quali un’alternanza alla guida del governo. L’esito non fu dei più felici. In soli quattordici anni (1978-1992), l’Italia subì l’alternarsi di quindici governi con una durata media di 300 giorni l’uno, accompagnati da una forte rissosità parlamentare, che si sposava con una produzione legislativa esiziale. Come ha sottolineato Silei la contrapposizione delle correnti all’interno della Democrazia Cristiana aveva tolto incisività al «tradizionale ruolo propulsivo in direzione delle riforme sociali svolto dalla della sinistra democristiana», inoltre il riformismo pragmatico del Partito socialisti di Craxi aveva perduto smalto «assumendo in taluni casi venature neo-liberali se non addirittura neo-conservatrici» (Silei 2004b, 327). In questa dinamica si inserisce anche l’assenza di decretazione e di legiferazione sociale.

L’eredità che arrivava dagli anni delle grandi riforme era sicuramente impegnativa: per la prima volta l’Italia era riuscita a introdurre garanzie universalistiche nel welfare, che richiedevano di essere attuate ed estese. Lo sviluppo riformistico doveva continuare, secondo molti osservatori, armonizzando l’introduzione del Sistema Sanitario Nazionale innanzitutto con una riforma dell’assistenza sociale. Così non fu: «il d.p.r. 616 e la legge 833 furono in pratica gli ultimi provvedimenti prima di una fase di profondo ripensamento attorno al carattere di fondo del welfare state» (Ibidem, 307).

La crisi era originata dalla caduta delle premesse operative che avevano retto il welfare state sino ad allora (tabella 16): economia in crescita, fordismo, stabilità della famiglia e divisione del lavoro tra uomo-lavoratore e donna-casalinga, equilibrio nella struttura demografica, aspirazioni morigerate e bisogni sociali limitati, centralità dello Stato-nazione erano i cardini del sistema post-bellico internazionale. Il passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80 aveva visto, invece, imporsi nuovi fattori: si era interrotta la crescita economica, era iniziata la transizione a una società post-industriale, accompagnata da fenomeni di de- industrializzaione, di flessibilizzazione dei rapporti lavorativi e di

marginalizzazione di alcune tipologie di lavoratori; i rapporti familiari erano mutati, cresceva l’attenzione per l’emancipazione e per il lavoro femminile, ciò ingenerava nuove richieste di cura e poneva un problema di riproduzione sociale; l’invecchiamento della popolazione aveva iniziato un trend strutturale di lungo periodo, combinato disposto di un aumento dell’età media e del calo della natalità, che invertiva la sostenibilità di alcuni servizi assistenziali e delle pensioni; la rivoluzione delle aspettative crescenti aveva ingenerato richieste al rialzo sia sui servizi che sui trattamenti sanitari e pensionistici; lo Stato-nazione era sottoposto a dinamiche sovra- e sub-nazionali, che ne erodevano l’efficacia dell’azione e trasferivano su altri livelli decisionali la fattibilità delle politiche sociali.

Vecchie premesse Trasformazioni Nuove esigenze

Economia in rapida crescita Sviluppo lento o nullo Contenimento dei costi Società industriale Società post-industriale Ammortizzatori sociali per

de-industrializzazione, relazioni industriali più flessibili, etc.

Divisione di genere del lavoro Ridefinizione rapporti di genere

Conciliazione tra vita professionale e riproduzione sociale Strutture demografiche in relativo equilibrio Invecchiamento popolazione e nuove migrazioni

Controllo dei costi; ammortizzatori sociale emigrati

Aspettative “morigerate” e stabili

Aspettative crescenti Continua elevazione degli standard di prestazione Solidità stato nazione Interdipendenza e

integrazione sovra-nazionale

Armonizzazione e convergenza; solidarietà particolari

Tabella 16 – La nuova crisi di politica pubblica (Ferrera 1993, 276)

La società italiana tra gli anni Settanta e Ottanta era uscita dal fordismo per approdare alla società dei servizi. Con questo cambiamento economico fondamentale anche i bisogni e i rischi non erano più solo legati allo stato di disoccupazione e alla carenza di reddito. «Alla povertà in senso tradizionale, fondata su basi strutturali di natura economica in quanto dipendenza dai bisogni materiali di prima necessità, si è così progressivamente affiancata nel tempo una natura nuova e diversa delle situazioni di povertà che sembrano affondare le

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proprie radici più specificatamente nel terreno socio-culturale e dei rapporti interpersonali, con interazioni minime e spesso insignificanti con la dimensione economica» (Prospettive assistenziali 1980). In una ricerca del Censis, queste povertà assumevano due connotazioni. Nascevano le «nuove povertà», fragilità tangibili ed intangibili, mutevoli nel tempo, dovute ai fenomeni dell’inurbamento e dell’espansione delle grandi città. Ad esse si affiancavano le «povertà post- materialistiche» (Censis 1979), povertà dovute alla deprivazione di relazioni significative. Da una parte, le cause erano conosciute: i vecchi fenomeni, come la scarsa occupazione o le periferie-ghetto; dall’altra queste povertà erano generate dalle conquiste sociali, come la medicalizzazione della cura o i modelli consumistici. La conseguenza ultima dell’emergere di questi nuovi bisogni era un’espansione quantitativa e qualitativa della domanda di servizi pubblici. «Era chiaro che questi bisogni sociali, fortemente complessi e articolati, avevano bisogno di risposte innovative, differenziate ed efficaci. Bisognava dare spazio alla fantasia, trovare modalità e pratiche organizzative idonee, sostenere realtà extraospedaliere capaci di dare concretezza a un processo di liberazione» (Borzaga e Ianes 2006, 74). Di fronte alla richiesta di una migliore qualità della vita erano necessarie politiche sociali e servizi personalizzati, da costruire su relazioni personali significative. Si doveva pensare ad uno Stato sociale non più burocratizzato e standardizzato nei servizi, ma a un sistema plurale fondato su relazioni di mondo vitale. Ardigò provocatoriamente poneva la domanda: «se la felicità ha poi bisogno dell’amicizia quale amicizia nei luoghi di welfare moderni?» (Ardigò 1979, 49).

Proprio su questa base si possono leggere i due movimenti istituzionali degli anni Ottanta: la continuazione della regionalizzazione delle politiche sociali e il nuovo ruolo, centrale seppur ancora funzionale al politico, del Terzo settore. Entrambi erano un segnale di avvicinamento delle politiche di welfare alla cittadinanza, secondo il principio che laddove si manifestano i bisogni, là si possono trovare le risorse per soddisfarli.

In primis, proviamo ad illustrare i nuovi rapporti tra politica sociale e Regioni. A partire da questo periodo, infatti, diviene fondamentale per un’analisi accurata della morfogenesi del welfare trattare di almeno due livelli di governo, lo Stato e le Regioni, che spesso si muovono secondo ottiche diametralmente opposte. Se

negli anni ’80 il livello statale si era concentrato su processi di contenimento della spesa, creando criteri di selettività per l’accesso ai servizi, il livello regionale, invece, aveva continuato l’onda lunga universalista ereditata dagli anni Settanta, sostanziando la propria azione soprattutto nel campo assistenziale e sanitario.

Per ciò che riguarda l’apporto statale, esso risentì dell’impostazione neoliberista in voga a livello europeo e americano dopo le elezioni di Margareth Thatcher e Ronald Reagan. Un liberismo in salsa italiana, che univa le esigenze di rigore, decretate con la selettività e la co-partecipazione dei cittadini alla spesa sociale per i servizi, con i particolarismi tipici di un sistema lottizzato dalla politica. Dal centro, insomma, si cercava di ridimensionare il sistema di welfare italiano, con qualche eccezione, la più consistente delle quali fu il comparto pensionistico. Non mancarono, infatti, le analisi politiche e scientifiche sulla insostenibilità del sistema previdenziale, ma non riuscirono a incidere sul processo parlamentare. Ferrera parla a tale proposito di «stallo decisionale negli anni Ottanta» (Ferrera 2006, 85). I motivi per intervenire erano chiari: l’alto tasso di disoccupazione, il rallentamento della crescita economica e l’invecchiamento della popolazione facevano da cornice esterna ad altre criticità che erano scaturite dalle riforme degli anni precedenti quando la dinamica di welfare era espansiva. Ferrera nota cinque fattori endogeni di crisi, che avrebbero dovuto allertare la classe politica:

• Il rapido aumento della spesa pensionistica, non controbilanciato sul fronte delle entrate.

• Il deficit strutturale delle gestioni dei lavoratori autonomi.

• La frammentazione categoriale degli schemi pensionistici che portava con sé dilemmi distributivi orizzontali.

• Gli effetti perversi della redistribuzione della riforma del 1969, che premiava i lavoratori con forti incrementi salariali negli ultimi anni di carriera.

• La diversità di trattamenti per le pensioni di anzianità: 35 anni di contributi per i dipendenti privati contro i 20 anni di quelli pubblici.

Eppure ancora una volta la forte coalizione che sempre si costituiva (e si costituisce) in Italia attorno ai privilegi del sistema pensionistico, ne ostacolò la riforma.

Anche per la sanità italiana gli anni ’80 furono un periodo di crisi: si affermò la dominanza del modello ospedaliero nell’organizzazione dei servizi assistenziali,

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la lottizzazione del sistema sanitario e una forte variabilità territoriale nell’attuazione della riforma. Anche qui l’impronta clientelare-partitocratica era forte. «Di fronte ad uno scenario di costi crescenti e rendimenti calanti, si è assistito ad una ridefinizione degli interessi dei partiti nei confronti della sanità volta a ritardare l’adozione di misure impopolari o a far ricadere su altri attori la responsabilità di tali politiche» (Ibidem, 204). Fu il caso dei ticket sanitari: i partiti cercarono di impedire la compartecipazione dei cittadini ai costi della sanità, e così ottennero l’esenzione per ampie fette della popolazione nella contrattazione con il governo.

Nel campo assistenziale, l’unica attività legislativa nazionale che prendeva forma negli anni ’80 era quella relativa all’affidamento e all’adozione di minori, con la legge 184/1983. Proprio negli anni Ottanta i governi avviavano un’operazione di separazione tra previdenza e assistenza: l’obiettivo era individuare e distaccare gli interventi coperti da contribuzione (previdenziali) da quelli redistributivi senza contributi diretti ma pagati dalla fiscalità generale e/o da una compartecipazione degli utenti (assistenziali).

Intanto, il processo di regionalizzazione prendeva sempre più piede. Contrariamente alla selettività del centro, la periferia continuava l’opera degli anni ’70 di propagazione dell’universalismo. Le Regioni, seppur in un quadro politico e finanziario fortemente mutato, espandevano il sistema di welfare soprattutto nel campo dell’integrazione sociale degli utenti. Se il decennio precedente si era caratterizzato per lo sviluppo di servizi assistenziali territoriali, gli anni ora in esame vedevano il passaggio ad una visione “integrale” del bisogno: diritto allo studio, formazione professionale, sviluppo economico, inserimento lavorativo, trasporto e sport diventavano le chiavi per promuovere una politica sociale inter-settoriale nei confronti di handicappati, tossicodipendenti, minori, etc. Oltre a ciò uno dei temi caldi degli anni ’80 a livello regionale diventava la definizione di standard strutturali e di servizio e le relative misure di controllo delle prestazioni sia private che pubbliche. La differenza tra Regioni del Nord e del Sud, nonostante una certa diffusione istituzionale delle buone pratiche legislative, rimaneva ampia: proprio la mancanza di una «legge nazionale di riforma dell’assistenza che avrebbe dovuto

fornire le linee guida per l’esercizio delle funzioni attribuite ai comuni dal d.p.r. 616, induce[va] le regioni a provvedere autonomamente al riordino del settore» e ciò aumentava le differenze territoriali (Fargion 1997, 223):

• Le Regioni del centro-nord attivavano un processo di omogeneizzazione degli orientamenti di valore: «i governi regionali del centro-nord con maggioranze incentrate sulla Dc fanno propria l’enfasi sulla programmazione che era tipica delle regioni di sinistra. Per converso, le regioni guidate dal Pci sottoscrivono in pieno l’importanza del terzo settore originariamente sostenuta dalla sub- cultura cattolica» (Ibidem, 228)30.

• Le Regioni del centro-sud Italia non partecipavano a questa ondata estensiva e solidaristica, riproponevano invece quella logica tipica del modello particolaristico-clientelare che non si avvaleva di una forma regolativa generale31.

Le Regioni assumevano anche una funzione anticipatrice: sull’abolizione delle barriere architettoniche, sulla legislazione integrata per i portatori di handicap, sugli standard delle strutture residenziali ed infine sulle norme relative al riconoscimento del ruolo e della funzione sociale e del volontariato e della cooperazione sociale. Nel caso del volontariato, infatti, la legge nazionale (266/1991) è «una prima sintesi di un percorso già avviato» (Ibidem, 249): essa codificava l’istituzione di registri regionali del volontariato, che già diverse Regioni avevano emanato, e prevedeva forme di finanziamento su base locale, norme anticipate da alcune Regioni “bianche”. Nel caso della cooperazione sociale, la legge statale (381/1991) riprendeva la distinzione tra cooperative di servizi sociali ed educativi e cooperative di inserimento lavorativo dalla legislazione veneta e piemontese, emulava la creazione di registri regionali dalla Toscana, così come l’adozione di convenzioni-tipo che garantissero la professionalità degli operatori. Eppure anche a livello regionale, senza alcuna distinzione politica, si riaffermava la centralità della funzione pubblica. Il Terzo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

30 «Le leggi regionali di riordino approvate nell’arco degli anni ottanta – che costituiscono l’espressione paradigmatica di tale incontro – riflettono infatti un evidente processo di cross- fertilization che coniuga la valorizzazione del terzo settore (di matrice cattolica) con l’attribuzione agli enti pubblici territoriali di un ruolo centrale di programmazione, coordinamento e controllo, derivante dall’impostazione tipica delle regioni di sinistra» (Fargion 1997, 310)

31 Le Regioni meridionali rimanevano ancorate ad un sistema basato sui ricoveri in strutture, sulla moltitudine di enti assistenziali, sulle elargizioni monetarie a istituzioni private e a cittadini.

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settore poteva operare in conformità “allo spirito e alle finalità della normativa regionale”. Fargion commenta così l’impostazione regionalista sul privato sociale: «un taglio tutto sommato dirigistico che mal si coniuga con la riflessione sociologica di matrice cattolica che almeno in alcune regioni sembrava aver influito sull’impostazione delle politiche sociali nel precedente decennio; per altri versi questa stessa normativa stride con quel progetto di rifondazione dal basso del welfare state, portato avanti dalla sinistra e tutto incentrato sulla costruzione di una solida e capillare rete di servizi pubblici» (Ibidem, 240-241)32. Le Regioni erano, quindi, negli anni ’80 dei precursori delle riforme sociali italiani e allo stesso tempo il loro attivismo richiedeva una regolazione nazionale, affinché l’esigibilità dei diritti sociali fosse omogenea. Avendo spinto fortemente la loro autonomia legislativa e amministrativa le Regioni avevano creato un sistema di welfare praticamente duale: uno al centro-nord, pluralista e localista, e l’altro al centro-sud, particolaristico e beneficienziale.

L’altro lato del cambiamento istituzionale risiedeva nel mondo composito del privato sociale ed in particolare nella sua relazione con le politiche sociali. Il volontariato e la cooperazione sociale erano le organizzazioni più originali e più attive di quel vasto settore negli anni Ottanta. Il mondo associazionistico, che era ed è storicamente quello più legato al mondo politico, ne subiva ancora fortemente l’influsso, tanto da non vivere da protagonista l’effervescenza post- riformista e post-sessantotto. Il volontariato italiano assumeva al contrario un ruolo da protagonista: tante forze fuoriuscite dagli anni Settanta si erano dedicate ad associazioni pro-sociali volontarie. Così due correnti si confrontavano: il “vecchio” volontariato contraddistinto da un’idea di solidarietà intesa come beneficienza, perbenismo e filantropia, sostanziato in un rapporto emergenziale con il bisognoso ed il “nuovo” volontariato che si proponeva di rimuovere le cause del bisogno per garantire libertà, eguaglianza, sviluppo della persona. Il “nuovo” volontariato riusciva a mobilitare i cittadini su un doppio terreno: l’opera

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32 In effetti alcune differenze si affermavano anche nella modalità politica di rapportarsi al Terzo settore: «Nella dialettica tra le due storiche tradizioni politiche organizzate è per prima la Democrazia Cristiana a riconoscere il volontariato – in continuità con la tradizione cattolica dei rapporti tra Stato e società civile – un ruolo preminente, anche in quanto soggetto politico. Di contro la sinistra comunista è forse la forza politica più convinta dell’opportunità della concentrazione esclusiva delle funzioni di solidarietà in mano allo Stato» (Guidi 2009, 41).

di assistenza e l’azione sulle cause sociali dell’esclusione. «L’azione del “nuovo” volontariato costituirebbe e moltiplicherebbe legami e connessioni: “legami” tra individui (esclusi-inclusi) accomunati dalla medesima appartenenza; “connessioni” tra i percorsi privati di esclusione e le loro cause sociali» (Guidi 2009, 30). Questo nuovo volontariato è impersonificato da leader “laici”, appartenenti alle organizzazioni cattoliche di base, con una visione più secolarizzata della loro missione sociale (Ranci 1999b, 71-74). Proprio durante quegli anni il volontariato impegnato nel riscatto sociale degli esclusi iniziava a confrontarsi con l’ente pubblico: la solidarietà auto-organizzata passava da un’iniziale diniego alle prime convenzioni con l’ente locale. Negli anni ’80 giungevano, inoltre, a maturazione le prime esperienze di cooperazione sociale: dalla metà degli anni Settanta tre ceppi della cooperazione tradizionale erano evoluti dalla mutualità ristretta (solo verso i propri soci) alla mutualità allargata (a beneficio dell’intera collettività). I tre ceppi erano: le cooperative integrate di produzione e lavoro che accoglievano tra i propri soci handicappati psicofisici (ad esempio la coop. Il posto delle Fragole di Trieste, nata nel 1979 dopo la svolta basagliana); le cooperative di servizi sociali composte da professionisti del sociale che lavoravano per l’amministrazione pubblica offrendo servizi socio-assistenziali (la cooperativa Nuova Dimensione di Brescia, nata dall’Udi nel 1978 per offrire supporto alle persone anziane); la cooperazione di solidarietà sociale che erogava servizi sociali a terzi grazie al lavoro di soci lavoratori e volontari, auto- organizzandosi sul territorio (ad esempio la cooperativa San Giuseppe di Brescia, sorta nel 1963, sotto la guida di Giuseppe Filippini). Nell’arco di pochi anni le cooperative di solidarietà sociale aderenti a Confcooperative salirono a più di 500: dislocate per lo più al Nord, molto simili nei servizi e nell’organizzazione alle associazioni di volontariato, offrivano lavoro soprattutto a giovani e a donne,